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Autore: WillofD_04    03/05/2018    7 recensioni
Questa storia è il seguito di "Lost boys". Per leggerla non è necessario aver letto "Lost boys", ma è consigliato.
A quanto pare, l'avventura di Cami non è affatto finita, anzi, è appena cominciata! Che cosa le è successo? Sarà in grado, questa volta, di risolvere la situazione? Questo per lei sarà un viaggio pieno di avventure e di emozioni, che condividerà con persone molto speciali.
Non posso svelarvi più di così, se siete curiosi di sapere cosa le è capitato, leggete!
DAL TESTO:
Poco ci mancò che non caddi all’indietro dall’incredulità. Infatti dovetti reggermi agli stipiti della porta che era dietro di me per rimanere in piedi. Dieci paia di occhi mi fissavano, tutti con un’espressione diversa. C’era chi era divertito, chi indifferente, chi curioso e chi stupito.
«Oh cazzo...è successo di nuovo!» esclamai, al limite dell’esasperazione.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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«È... è reale? Voglio dire, è autentico?» chiesi, fissando intensamente il mio interlocutore.
«Suppongo di sì» mi rispose. Sembrava eccessivamente tranquillo. Io, invece, per poco non andavo in iperventilazione. «Se hai dei dubbi, perché non provi?» mi domandò a sua volta, allargando il suo ghigno.
«Tu... tu lo hai... lo hai trovato per me? Hai letto questo libro dall’inizio alla fine per trovare un modo per farmi tornare nel mio mondo?»
Annuì appena, come se rivelare la verità lo infastidisse.
«La storia narrata nel libro non è male. Un po’ troppo fantasiosa, per i miei gusti» commentò con un sorriso impertinente, quasi a volersi togliere dall’imbarazzo. Decisi di ignorarlo.
«Perché lo hai fatto?» volli sapere, ancora sconvolta. Non potevo credere che Law avesse fatto una cosa del genere per me. Aspettò un po’ prima di rispondere. Sospettavo che fosse un po’ reticente.
«Mi è stato riferito che hai espresso la volontà di tornare a casa, alla tua vera casa» mi spiegò, le sue iridi grigie erano puntate su di me.
«Chi te lo ha detto?» chiesi ancora. Ero consapevole del fatto che tutte quelle domande lo infastidissero, ma dovevo sapere, o non mi sarei data pace.
«Il tuo uccellino preferito» replicò, alzando un sopracciglio. Corrugai la fronte. Perché diavolo doveva essere così enigmatico anche in una situazione del genere?
Pensai subito a Marco, ma non riuscivo a capire cosa c’entrasse lui con tutta quella situazione. Poi, però, realizzai. Il mio “uccellino preferito” era sempre biondo, ma non era Marco. Sbuffai, d'un tratto infastidita.
«Non è il mio... Non importa» decisi di lasciar perdere. Non valeva la pena mettersi a discutere di una cosa così futile in un momento come quello. Mi lasciai sfuggire una risata. A molti sarebbe potuta sembrare una risata sollevata, ma la verità – e il chirurgo, che era un attento osservatore, lo aveva capito – era che era una risata nervosa. «Hai trovato un modo. Non posso crederci».
All’improvviso, tutto mi apparve chiaro come il sole. Spalancai gli occhi e schiusi la bocca.
«Tu e Sabo vi siete tenuti in contatto, in questi mesi!» esclamai, forse mettendoci più enfasi del necessario. Avrei dovuto aspettarmelo. Certo, era palese. Mi ricordai di una telefonata sospetta avvenuta qualche mese prima che avevo origliato per caso attraverso la porta, quando ero andata dal biondo per comunicargli degli sviluppi sull’Haki dell’Osservazione. Mi era parso di captare una voce famigliare, ma non avevo mai dato peso a quella conversazione, perché avevo altro a cui pensare. Ora, però, avevo capito tutto. Sabo stava parlando con Law, quel giorno. E chissà quante altre volte si erano sentiti e avevano parlato di me. Mi morsi un labbro e scossi la testa, pensierosa. Non ne conoscevo il motivo, ma in qualche modo mi sentivo tradita. Per mesi e mesi mi avevano tenuto all’oscuro del fatto che si parlassero, che si scambiassero informazioni su di me. Perché? Perché lo avevano fatto? Perché quell’idiota non mi aveva fatto parlare con il mio capitano? Eppure sapeva quanto fossi in pena per lui e quanto mi mancasse.
«Sei una mia sottoposta. È mio dovere informarmi sulle tue condizioni di salute» lo disse quasi come se fosse una giustificazione per le sue azioni, come se mi avesse letto nel pensiero.
«Sì, ma perché non hai voluto parlare con me? Sono stata per mesi e mesi senza sentire la tua voce, senza sapere come stessi» nella mia voce c’era una punta di rimprovero. Mi sentivo offesa. Il chirurgo si staccò dall’anta alla quale era appoggiato e fece qualche passo verso di me. Si fermò solo quando fu sicuro che i miei occhi fossero intrecciati ai suoi. Un brivido mi attraversò il corpo nel momento in cui percepii l’intensità del suo sguardo.
«Non ti devo alcuna spiegazione, Camilla» affermò, la voce cristallina e calma.
Sospirai. Avrei potuto stare per settimane intere a pensare alle sue motivazioni, a cosa lo avesse spinto a comportarsi in quella maniera. C’erano così tante ragioni che mi erano venute in mente, ed erano tutte nobili, in un certo senso. Mi strinsi nelle spalle. La verità era che non potevo arrabbiarmi con lui. Non potevo prendermela con nessuno, perché non ne avevo motivo. Tutto quello mi aveva portato ad avere un libro aperto sulle ginocchia che mi rivelava il modo per tornare nel mio mondo, perciò mi andava bene così. Fissai di nuovo le parole che vi erano scritte e sorrisi.
Sull’ultima pagina, una pagina vuota se non per quelle poche righe, c’era impressa una frase. Una frase che prima non c’era e che era stata la Stella stessa a scrivere. O almeno, così credevo.
 
“Queste parole sono state scritte con la polverina dorata che ti ha permesso di esaudire i tuoi desideri. Se ti servirà il mio aiuto, ti basterà soffiarci sopra ed io apparirò in cielo.
Sono consapevole di aver compiuto una mossa azzardata trasportandoti in questo universo, ecco perché voglio darti la possibilità di rimediare.
Di solito non lo faccio mai, ma desidero ricompensarti per aver creduto così intensamente in me e per aver avuto tanta pazienza. Ho deciso di ricominciare da capo, con te, e concederti di nuovo tre desideri. Poi, se vorrai e se ne avrai bisogno, potrai esprimere un ultimissimo desiderio. Sappi, però, che non tornerò mai più dopo che avrai espresso i quattro desideri che ti sono stati concessi nuovamente.
A presto.”
 
«Credi che queste parole siano sempre state qui?» chiesi al capitano. Le dita avevano iniziato a tamburellare sulla carta. Law fece un’alzata di spalle.
«Te l’ho detto. Se ti fossi ubriacata di meno, a quest’ora saresti già tornata a casa» ribadì, con un po’ di durezza. Iniziai a ridere senza ritegno sotto lo sguardo infastidito del chirurgo. Non potevo farci niente, non riuscivo a fermarmi. Era più forte di me.
«Vuoi sapere una cosa?» gli domandai tra una risata e l’altra. Ovviamente, la mia era una domanda retorica. «È un bene che io mi sia ubriacata così tanto. Perché in questo modo ho avuto il tempo di capire quello che dovevo capire» continuai, tornando seria. Oppure a furia di ubriacarmi, oltre al fegato, mi si erano disintegrati tutti i neuroni e non avevo la minima idea di ciò che stavo facendo.
«Non perdere tempo, allora. Sai come fare, evoca la Stella» mi incitò il capitano. I miei occhi divennero incerti ed esitai per qualche secondo.
«È che... non so se mi sento pronta per farlo stasera» gli confessai, abbassando la testa. Era stata una giornata ricca di emozioni, e non mi sembrava il caso di aggiungere altra carne al fuoco. Non ero sicura che il mio cuore potesse reggere.
«Stronzate» mi liquidò subito «Aspetti da molto questo momento. Ora va’ e fallo» mi intimò, accompagnandosi con un cenno del capo. Lo osservai. Non avrebbe ceduto, me lo avrebbe fatto fare anche con la forza, se necessario. Presi un respiro profondo, poi mi alzai e mi avviai verso la porta. Gli ordini erano ordini, e avrei dovuto eseguirli, che lo volessi o meno.
 
Una nuvoletta di vapore uscì dalla mia bocca e si andò a mescolare con l’aria. Mi strinsi tra le braccia, tremando leggermente. Non mi ricordavo che facesse così freddo, né lo pensavo. C’era da dire che il mio abbigliamento non aiutava, dato che nella fretta avevo dimenticato di prendere un soprabito. Mi ritrovavo con addosso solo il tubino nero, e sotto di esso la mia inseparabile cintura. Almeno le scarpe, però, ero riuscita a metterle. Non c’era niente di meglio che ritrovarsi ai piedi i propri stivali, caldi e confortevoli.
Quasi mi venne da ridere al pensiero che quella notte era simile alla notte in cui avevo espresso i miei desideri per la prima volta. Allora non lo sapevo ancora, ma quella era stata la notte che aveva cambiato per sempre la mia vita. E adesso, sul ponte del Polar Tang, stava per stravolgersi di nuovo.
Un paio di mani si appoggiarono sulle mie spalle per un secondo, per poi ritrarsi. Sospirai di sollievo e smisi di tremare. Law mi aveva appoggiato il suo cappotto sulla schiena. Dovevo essermi persa qualcosa, nei mesi in cui non c’ero stata. Quando era diventato così gentile e premuroso? Supponevo che non avesse importanza. Nel buio, cercai i suoi occhi e gli rivolsi un sorriso grato. Come quella notte di parecchi anni fa, il cielo era nero e faceva freddo, solo che stavolta non ero sola; e non mi sentivo persa.
Infilai il cappotto, beandomi di quel sicuro calduccio, dopodiché aprii il libro e fissai la scritta, che risplendeva nell’oscurità, come se fosse un faro che guidava la mia anima. Lasciai scivolare le mie dita su quelle parole dorate e brillanti. La carta mi sembrava ruvida sotto il tocco delle mie falangi, potevo percepire le lettere in rilievo rispetto al resto della pagina. Per tutto quel tempo erano state lì, senza che io le vedessi, senza che nessuno le leggesse. Mi avevano accompagnato sempre lungo il mio viaggio, erano state una presenza silenziosa e costante.
«Coraggio» mi sollecitò il chirurgo.
«Loro...» indicai con un cenno del capo l’interno del sottomarino, riferendomi al resto della ciurma «Loro lo sanno?» chiesi con un filo di voce.
«No» mi rispose senza esitare «Ma non te ne preoccupare. Potrai pur sempre salutarli dopo, se vorrai. Altrimenti, dirò loro che hai deciso di fuggire con il biondino dell’Armata Rivoluzionaria» continuò, ghignando impertinentemente. Risi e gli diedi una piccola gomitata.
«Avanti» m’incitò di nuovo, facendomi tornare seria.
Annuii e presi un paio di respiri profondi, dopodiché soffiai sopra al libro, proprio come suggeriva il testo. In un attimo, le parole si staccarono dalla pagina e si librarono in aria, tramutandosi in polvere dorata. Vorticarono per quello che mi sembrò un tempo infinito. Non potei fare a meno di sorridere, però. Era uno spettacolo bellissimo, e avevo il privilegio di vederlo per la seconda volta. La polverina saliva in cielo, sempre più in alto, e rischiarava l’oscurità da cui eravamo circondati. Allungai la mano nel tentativo di toccarla, ma era già troppo lontana da noi perché ci riuscissi. Osservai Law con la coda dell’occhio. Anche lui sembrava colpito da quello spettacolo. Se non lo avessi conosciuto, avrei detto che ne fosse perfino meravigliato.
La polvere sparì per qualche istante dalla nostra vista e svanì dalla volta celeste, per poi esplodere in mille granelli ed andare a formare due stelle, più grandi e lucenti di tutte le altre. Mi portai le mani alla bocca. Avevo le lacrime agli occhi. Non pensavo che le avrei mai riviste. Invece, eccole lì, splendenti, fiere e bellissime. Ancora una volta, brillavano per me. Sulla sinistra, più piccola, ma comunque più luminosa degli altri corpi celesti, scintillava una delle due stelle. Sulla destra, invece, maestosa come sempre e capace di oscurare persino la luce del sole, risplendeva la mia Stella. La Seconda Stella a Destra.
«Avevi ragione» la voce del capitano mi arrivò ovattata, come se fosse lontano chilometri da me. Forse ero io ad essere distante. Con la mente mi trovavo sulla Stella, l’unico suono che riuscivo ad udire chiaramente era il battito molto accelerato del mio cuore.
Quando realizzai appieno il significato delle sue parole, mi voltai a fissarlo, piuttosto sorpresa. Non capivo a cosa si stesse riferendo. Oltretutto, lui non mi dava mai ragione, nemmeno quando avevo effettivamente ragione. Quindi... di che stava parlando?
Per un po' non parlò, continuò ad osservare il cielo. I suoi occhi sembravano sereni.
«È un bello spettacolo» affermò semplicemente. Mi ci volle qualche secondo per rendermene conto. Appena lo feci, spalancai la bocca, incredula.
«Tu... tu le vedi?» gli chiesi, trattenendo il fiato. Law annuì e ghignò.
«Ma allora...» provai a dire, senza riuscire a completare la frase. Non me ne capacitavo. Lui riusciva a vederle. Lui ci credeva. Credeva alla Stella. Ecco perché le vedeva. Non pensavo di poter provare tanta gioia per una cosa simile.
«Ti lascio ai tuoi desideri» annunciò il chirurgo, interrompendo le mie riflessioni «In caso non dovessimo rivederci, è stato quasi un piacere conoscerti» disse poi, voltandosi e cominciando ad avviarsi verso la porta d’ingresso del Polar Tang. Non mi diede nemmeno il tempo di replicare.
«Aspetta!» provai a trattenerlo, ma lui non si fermò, né si girò. Continuò a camminare finché non fu sparito all’interno del sottomarino.
Che razza di addio era quello? Sospirai sconsolata. Sospettavo che gli addii non fossero il suo forte. E forse era meglio così, perché neanche io ero brava a dire addio.
 
«Ciao» salutai la Stella, accompagnandomi con un gesto della mano. Mi ci era voluta un’eternità per trovare il coraggio di parlare e per non cedere alle lacrime. «È passato tanto tempo, eh?» scherzai, anche se la mia voce era rotta. La vidi tremolare appena, come se volesse rispondermi.
«Non sai quante cose mi sono successe. Vorrei raccontartele tutte, ma temo che per questo ci voglia più di una notte, e suppongo che il nostro tempo insieme sia limitato» dissi, rammaricandomi un po’. Non volevo dirle addio. «Però, una cosa posso dirtela. Credo che ti farà piacere saperla. Ti aiuterà a capire, come ha aiutato me» continuai, appoggiando i gomiti alla balaustra del ponte. Presi un respiro profondo.
«Un tizio, dopo uno scontro molto brutto, mi ha ridotto in fin di vita. Mi sono salvata per miracolo, ma ho avuto tanta paura di morire. Quando ero in ospedale, priva di conoscenza, ho fatto un sogno. Un sogno molto vivido, che mi ricordo benissimo. Non l’ho mai raccontato a nessuno, e credo che sia arrivato il momento di farlo».
Fu così che iniziai a ricordarmi e a raccontare quel sogno, che per tanto tempo era rimasto sepolto dentro di me, alla Stella.
 
Era il mio diciottesimo compleanno. Tutta la mia famiglia e tutti i miei amici si erano riuniti per festeggiare insieme a me quel momento speciale. Eravamo nell’appartamento che ci aveva lasciato mio nonno alla sua morte, quello in cui avevano vissuto di nascosto i pirati per circa un mese. Ero perfettamente consapevole che quello fosse un sogno, eppure sembrava tutto così reale ed autentico. Con il tempo, pensavo di essermi dimenticata dei lineamenti di mia madre o delle rughe di mio padre, invece, davanti ai miei occhi erano apparsi talmente veri e concreti che nel momento in cui li avevo rivisti mi era sembrato che non fosse passato nemmeno un giorno da quando ci eravamo separati.
Avrei dovuto essere contenta di essere lì, di avere la possibilità di rivedere i miei cari, eppure, per qualche motivo, non lo ero. Non del tutto, almeno. Indossavo un vestito molto carino, lungo fino ai piedi, senza spalline e con lo scollo a cuore. Il bustino dell’abito, che mi fasciava la vita, era color argento, mentre la gonna, piuttosto ampia e color blu notte, era impreziosita da degli strass, sempre argentati, che la facevano sembrare un cielo stellato. Ai piedi avevo delle décolleté in tinta con l’abito. I capelli, ancora lunghi, erano raccolti in una mezza coda che mi ricadeva sulla schiena in morbidi boccoli. Sembravo una principessa. Avrei dovuto sentirmi bellissima, ma senza la cintura scintillante che portavo sempre alla vita mi sentivo spoglia, nuda, perfino vuota.
Per parecchio tempo il mio sguardo aveva vagato per l’appartamento alla ricerca di Law, Rufy e dei miei compagni, tuttavia non avevo trovato nessuno. Non c’erano. Non erano lì con me.
Mi diressi verso la cucina, presi un bicchiere di plastica e, senza esitare, vi versai dentro una generosa quantità di vino. Quello era l’unico modo per sopravvivere a quella giornata.
«Tesoro» mi richiamò mia madre, che era accanto a me. La guardai. Sentire di nuovo la sua voce mi aveva provocato un brivido lungo tutta la schiena.
«Tu non bevi vino» constatò, quasi come se mi stesse rimproverando. Fissai il mio bicchiere e boccheggiai per qualche secondo.
«Hai ragione, io non... bevo vino» dissi, sospirando e poggiando sul tavolo il piccolo recipiente che tenevo in mano «Volevo prendere un po’ di Coca Cola, devo essermi confusa» mi giustificai, facendo un mezzo sorriso. Lei mi accarezzò la guancia con dolcezza e mi sorrise, poi andò nell’altra stanza. Il suo tocco era unico, lo avrei saputo riconoscere tra mille altri. Quello non lo avevo mai dimenticato.
«Tutto bene, cara?» mi chiese una voce arzilla alle mie spalle. Era mia nonna, lei era l’unica persona in tutto il mondo ad avere un tono sempre gioioso. Mi voltai verso di lei e presi la sua mano, tesa verso di me. Più che una nonna, l’avevo sempre considerata come un’amica. Un’amica a cui potevo confidare tutti i miei segreti. Quella volta, però, non solo non lo feci, ma le mentii anche.
«Sì. Sono solo un po’ frastornata. Compiere diciotto anni non è una cosa da poco» mentre lo dissi la mia voce tremò appena.
«Certo che no! È un’occasione unica ed imperdibile. Capita una sola volta nella vita!» esclamò, allegra e gioviale, ingollando una quantità non indifferente di vino. Ecco da chi avevo preso. Adesso capivo molte cose.
«Già. Capita una sola volta nella vita» ripetei, poco convinta. Le avrei dato ragione, se non avessi già compiuto diciotto anni due anni prima. Il ricordo di quel giorno ce lo avevo sempre ben impresso nella mente. I Pirati Heart avevano fatto irruzione nella mia cabina cantando “tanti auguri” a squarciagola. Ryu aveva preparato una deliziosa torta per me, con diciotto candeline sopra. E Law, Law mi aveva regalato la collana con la chiave della mia stanza e la mia iniziale arancione dipinta sopra. Mi toccai involontariamente il collo. Il ciondolo non c’era. Non c’era niente, nemmeno la collana con il tatuaggio di Ace. Mi sentii di nuovo nuda e a disagio.
«Tanti auguri, piccola mia!» urlò mio padre mentre mi veniva incontro. «Anche se forse non dovrei più usare il termine “piccola”. Oggi diventi grande, dopotutto».
«Grazie, papà» dissi sorridendo. Lui mi diede un bacio sulla guancia e poi mi abbracciò.
«La mia piccolina è cresciuta, alla fine» mi sussurrò all’orecchio. Nel sentire le sue parole, trattenni il fiato. La frase che aveva pronunciato aveva fatto scattare qualcosa in me. Una consapevolezza, che non riuscivo ancora ad identificare. Dentro di me, però, qualcosa si era mosso, potevo dirlo con certezza.
Per la successiva mezz’ora, mi toccò ascoltare tutte le frasi fatte che mi propinavano i miei parenti sul fatto di essere diventata una donna. Terminata quella fase, dovetti ringraziare cordialmente tutte le persone che mi facevano gli auguri. Quando pensavo che il supplizio fosse finalmente terminato, fui costretta anche a farmi una decina di foto insieme a tutti gli invitati.
Le persone lasciavano i loro regali sul tavolino di vetro che stava in salotto. Osservai la pila infinita di presenti che avrei dovuto aprire successivamente. Ce ne erano tantissimi, di tutte le forme e le dimensioni e le carte che li rivestivano facevano sfoggio dei più disparati colori. Eppure, c’era qualcosa che mancava. Una volta avrei adorato tutto questo. Era da quando avevo quattordici anni ed avevo assistito per la prima volta ad un diciottesimo che desideravo arrivare a quel traguardo. Volevo avere il mio giorno speciale, volevo sentirmi una principessa acclamata da tutti, per una sera. Volevo indossare un abito meraviglioso, farmi truccare da un make up artist professionista e farmi acconciare i capelli come le dive di Hollywood. Volevo essere al centro dell’attenzione. Volevo che tutti mi guardassero e pensassero a quanto fossi bella. Volevo perfino farmi invidiare un po’ dalle mie coetanee. Adesso, invece... mi sembrava tutto troppo complicato, troppo artificiale, troppo futile. Troppo finto. Pareva che fosse stato costruito tutto a tavolino, che tutti, compresa me, recitassero una parte. E forse era davvero così.
Mi diressi a passo svelto verso il divano e mi lasciai cadere su uno dei cuscini. Poi mi passai una mano su tutta la faccia. Non mi importava nemmeno che il trucco si sbafasse. Volevo solo che tutta quella gente andasse via. Attorno a me c’era un clima festoso, come avrebbe dovuto essere, la musica era alta, sorridevano e ballavano tutti, ma io non ero in vena di festeggiare.
Non passò molto tempo prima che la mia amica Sara mi raggiungesse e si sedesse accanto a me.
«Adoro il tuo abito» mi confessò, con una punta di invidia «Sei bellissima, stasera».
Tempo fa avrei pagato oro per sentirglielo dire. Per sentirlo dire da lei, che era stupenda anche la mattina appena sveglia. Non sapevo come ci riuscisse, ma appariva sempre perfetta. I suoi capelli erano sempre in ordine ed era bella anche quando indossava una tuta sformata. Persino quel giorno mi sembrava più bella di me. E lo era. Aveva il dono di essere una bellezza naturale.
«Questo divano profuma di talco» constatò, piacevolmente sorpresa.
«Talco» ripetei io, annuendo e fissando il vuoto. Certo che profumava di talco. Ci aveva dormito Marco per un mese. E adesso il divano aveva il suo odore.
«Ti ricordi quando eravamo piccole e sognavamo di fare le trapeziste al circo insieme?» mi chiese. Sbuffai una risata, la prima della serata.
«Certo. Tu volevi un costume con le frange blu, mentre io lo volevo arancione e senza frange» ribattei sorridendo.
«Perché quando ti lanci dal trapezio e l’altra persona ti deve prendere, le frange danno fastidio, mi dicevi. Avevamo otto anni e non ne sapevamo niente di trapezisti, eppure sei riuscita a pensare ad un dettaglio del genere» fece, ridendo e scuotendo la testa «Sei sempre stata la più previdente tra le due».
«Suppongo di sì. Alle volte, però, essere previdenti non è un bene» affermai, con una punta di amarezza nella voce.
«L’arancione è sempre stato il tuo colore preferito» si ricordò, piegando la testa da un lato.
«Già. E il tuo il blu. Blu oltremare, per la precisione» replicai, sorridendo con l’aria di chi la sapeva lunga.
«Almeno questo non è cambiato» lo disse in un sussurro. Mi sembrava che il suo tono fosse diventato d’un tratto malinconico.
«Non te l’ho mai detto, ma mi dispiace molto per come sono andate le cose» mi rivelò dopo qualche secondo di silenzio. La guardai interrogativa.
«Quali cose?»
«Per il modo in cui abbiamo smesso di vederci, di sentirci, di esserci l’una per l’altra» specificò, abbassando lo sguardo. Si sentiva colpevole. Mi strinsi nelle spalle.
«Credo che sia inevitabile separarsi, quando si cresce. È giusto così, ciascuno prende la propria strada» dissi, cercando di non sembrare triste. Il fatto che fosse giusto non lo rendeva meno doloroso. «La strada che porta verso il Sole» scherzai, per cercare di allontanare la cupezza che si stava creando, citando un momento iconico del manga di One Piece.
«Sì, ma io avrei voluto e avrei dovuto starti vicina, Cami. Perché, vedi, ad un certo punto, non so come, quando o perché, i tuoi occhi si sono spenti. Una volta ti brillavano, erano pieni di meraviglia e stupore. Erano come questo vestito» mi sfiorò la gonna con le dita «E poi, quella luce è svanita. E io me ne sono accorta, ma ho fatto finta di niente. Mi ripetevo che saresti stata bene, eppure più passava il tempo e più ti vedevo diventare l’ombra di te stessa».
Un velo di lacrime aveva iniziato a coprire le sue iridi castane. Le appoggiai delicatamente una mano sulla spalla. Non pensavo che un discorso tanto profondo potesse provenire da lei, che aveva sempre avuto la tendenza ad essere un po' approssimativa e superficiale. Eppure, se se ne era accorta anche Sara, la situazione doveva essere più grave di quanto pensassi.
«Non è colpa tua» la rassicurai. Sara mi ignorò e continuò con quello che era appena diventato un monologo.
«Mi sono chiesta tante volte che cosa potesse esserti successo di tanto terribile, ma non ho mai trovato una risposta. O forse, più semplicemente, non ho mai provato a trovare una risposta» scosse la testa, contrariata, poi la rialzò ed iniziò a fissarmi intensamente «Però, quest’estate, quando ti ho rivista, qualcosa è cambiato. I tuoi occhi non erano più cupi. Erano limpidi, sereni, sembravi felice».
Stavolta toccò ai miei occhi riempirsi di lacrime. Quell’estate. Ma certo. Era il periodo in cui in questo appartamento c’erano Rufy ed il resto della banda. Avevo incontrato Sara in due occasioni, in quel mese, ed in entrambe le occasioni ero raggiante. Un po’ esasperata, forse, visti tutti i casini che combinavano quei sei pirati, ma comunque raggiante.
«Quando ti ho vista di nuovo così felice, ho giurato che avrei fatto di tutto affinché la luce nei tuoi occhi non si spegnesse di nuovo. Non posso sopportare di vederti così abbattuta, soprattutto oggi, che è il tuo giorno speciale» le sue mani afferrarono saldamente le mie spalle e le sue iridi si incastonarono alle mie. Gli occhi bruni le si incresparono agli angoli in un sorriso genuino. «Non so chi siano quei ragazzi e che cosa c’entrino con te, ma una cosa è certa: loro ti rendono felice» affermò decisa. Una ruga si formò in mezzo alla mia fronte.
«Noi siamo cresciute insieme, e io ti voglio e ti vorrò sempre bene. Sarai sempre la mia sorella mancata, perciò lascia che te lo dica. Fregatene di tutto e tutti e prendi la tua strada, Cami» si raccomandò, con una tenacia che le avevo visto in poche altre occasioni «La strada verso la felicità, verso il Sole, o quello che è».
Risi, nonostante mi stesse scendendo una lacrima sulla guancia. Ciò che apprezzavo di più di Sara era che lei era la voce della verità, bella o brutta che fosse. Annuii e la abbracciai stretta per qualche secondo. In quel momento mi sembrò che l’odore di talco fosse diventato più intenso. Grazie alle parole della mia amica e a quel profumo, capii cosa dovevo fare.
Mi alzai e mi diressi a passo spedito verso la porta d’ingresso dell’appartamento. Qualcuno, però, mi afferrò per un braccio e fui costretta a fermarmi.
«Dove stai andando?» la voce grave di mio padre mi fece voltare verso di lui. La sua presa era salda, e non aveva alcuna intenzione di lasciarmi.
«Mi dispiace...» provai a dire, sinceramente rammaricata.
«Devi spegnere le candeline e ci sono i regali da aprire...» mi fece sapere, stringendo ancora di più le dita attorno al mio braccio.
«Devo andare» gli comunicai in un sussurro.
«Se uscirai da quella porta, noi non potremo più aiutarti. Potresti morire!» gridò, ad un millimetro dalla mia faccia.
«Lo so, papà.» assentii, impassibile.
«Non lasciarci di nuovo...» mi supplicò, gli occhi pieni di dolore. Mi strinsi nelle spalle. Vederlo così mi faceva male, molto male, tuttavia non potevo restare.
«Mi dispiace, ma devo davvero andare. I miei amici hanno bisogno di me. E io ho bisogno di loro» mi divincolai dalla sua presa «Non abbiate paura per me. Io starò bene. Sono in buone mani» dissi, sorridendo. Per la prima volta in quella sera, il mio era un sorriso sincero.
Guardai per un’ultima volta i miei cari, che continuavano a ridere e a festeggiare, ignari di tutto. Solo tre persone mi stavano osservando. Mio padre, che aveva un’espressione arrabbiata, forse perfino delusa; mia madre, che invece sembrava molto addolorata e preoccupata; e Sara, sempre seduta sul divano, che mi guardava fiera. Poi aprii la porta ed uscii dall’appartamento.
I contorni dei loro visi si fecero sempre più sfocati, finché tutto non fu avvolto di nuovo dall’oscurità. Tornai ad essere circondata dal nulla e a sentire freddo. Stavolta, però, non avevo paura di quel buio vuoto e silenzioso. Sapevo che sarebbe andato tutto bene. Non ero più sola.
 
Tentai di riprendere fiato dopo aver raccontato il sogno alla Stella. Avevo parlato per mezz’ora senza fare nemmeno una pausa. Mi sembrava di essere tornata nell’ufficio di Dragon, nei primi tempi. Mi umettai le labbra con la poca saliva che avevo ancora, poi presi un respiro profondo e feci per parlare.
«Questo è quanto, cara Stella. Non so quando l’ho capito. Forse l’ho sempre saputo, forse l’ho realizzato tanto tempo fa, o forse in questo momento. Non ne ho idea, ma suppongo che non abbia importanza, perché in tutta questa faccenda c’è una sola cosa certa» iniziai, tamburellando le dita sul parapetto di metallo, tesa «Il mio quarto ed ultimo desiderio è stato espresso male. Avrei dovuto specificare, invece sono rimasta vaga. E per fortuna l’ho fatto. Ti ho chiesto di far ritornare ognuno nel proprio universo di appartenenza. E indovina dove sono finita? Qui».
Feci una pausa e mi abbandonai ad una risata nervosa.
«Non devi rimediare a nulla, perché non hai fatto nessun errore. Non tornerò a casa. Non ne ho bisogno. Perché è questa la mia casa, adesso» affermai decisa in un’alzata di spalle «Non fraintendermi, desidero ancora tornare dalla mia famiglia, più di ogni altra cosa al mondo, solo che questo non è il momento giusto. Lo farò quando qui si sarà sistemato tutto e quando sarò pronta a tornare».
La Stella tremolò appena. Se avesse avuto un volto, probabilmente avrebbe avuto un’espressione divertita. Data la sua natura dispettosa, non era difficile immaginarsi la sua reazione.
«Perciò, senza indugiare oltre, adesso esprimerò i miei desideri» proclamai. Il cuore mi batteva forte ed il corpo tremava, ma non per il freddo. Per l’emozione.
 
Buttai fuori tutta l’aria che avevo in corpo e cercai di darmi un contegno. Mi asciugai le ultime lacrime con i palmi delle mani.
«Mi dispiace. Per me non è facile. Ma questa è stata una mia scelta e sono fermamente convinta che sia quella giusta. E poi, non è per sempre. È solo per un altro po’» dissi con voce rotta, più per convincere me stessa che la Stella.
Dopo aver espresso i primi due desideri avevo singhiozzato per una decina di minuti, incapace di fermarmi. Non era stato affatto facile rinunciare alla mia famiglia per la seconda volta – e stavolta volontariamente – ma avevo dovuto farlo, per il mio bene. Perché avevo bisogno di stare lì, ancora un po’. Dovevo ritrovare me stessa e realizzare i miei sogni, non potevo e non volevo lasciare in sospeso niente. Non stavolta.
Come primo desiderio, avevo chiesto che tutte le persone che mi conoscevano nel mio mondo di provenienza si dimenticassero di me fino al mio ritorno. Avevo chiesto che la mia esistenza fosse cancellata completamente. Non dovevano esserci più foto, video o documenti con il mio nome o la mia immagine sopra.
Mi ero ricordata dello sguardo sofferente che avevano i miei genitori nel sogno. Non meritavano di soffrire. Nessuno meritava di soffrire, soprattutto per causa mia. Volevo che stessero bene e che andassero avanti con le loro vite. Si sarebbero ricordati di me solo una volta che fossi tornata da loro. In questo modo mi auspicavo che saremmo stati tutti felici. Non volevo che si preoccupassero per me, perché io, almeno così speravo, sarei stata bene. Mi ci era voluto un gran coraggio per pronunciare quelle parole, ma era stato necessario che lo facessi. Per me stessa e per loro. Ci meritavamo di essere felici. Tutti.
Come secondo desiderio, invece, avevo chiesto di ricevere quotidianamente notizie di tutte le persone a cui volevo bene e che erano lontane da me. Dovevo accertarmi che stessero effettivamente bene. Inoltre, quello era anche un modo per sentirle più vicine. Avevo deciso di non tornare, ma ciò non significava che avrei abbandonato i miei amici e la mia famiglia d’origine. Non sapevo come avrei ottenuto loro notizie, ma la Stella aveva tremolato nel momento in cui avevo espresso il desiderio, e questo voleva dire che lo aveva accettato, proprio come aveva accettato il primo, e che lo avrebbe esaudito.
«Bando alle ciance. Ho un altro desiderio da esprimere, giusto?» le chiesi. Lei tremolò di nuovo. In quel momento mi resi conto che non avevo nessun desiderio da esprimere. Non sentivo il bisogno di desiderare altro. Però, proprio come la prima sera in cui la Stella era apparsa, sapevo esattamente cosa fare.
«Credi che sia possibile fare un favore ad un amico?» domandai, lo sguardo fisso su di lei, nella speranza che capisse ciò che intendevo e che acconsentisse. Mi parve di vederla brillare più intensamente e sorrisi. Ormai ci intendevamo al volo. «Lo prendo come un sì».
«Credevo che fossi già tornata a casa» una voce alle mie spalle rese il mio sorriso ancora più ampio. Aveva avuto un tempismo perfetto, come sempre. Aspettai che il capitano mi fosse accanto prima di rispondere.
«Mi dispiace deluderti, ma non devo andare da nessuna parte» mi voltai verso di lui e notai con piacere che indossava ancora la felpa arancione che gli avevo regalato io per il suo compleanno «Sono già a casa.» gli dissi. Nei suoi occhi percepii un guizzo, forse di divertimento. I miei, invece, erano sereni. Ero in pace con me stessa.
«Hai deciso di tediarci con la tua presenza per sempre?» volle sapere, ghignando.
«Non per sempre. Solo per un altro po’. Te l’ho detto che non ti saresti liberato facilmente di me» mi limitai a dire, alzando le spalle e ridacchiando «E poi, ho un matrimonio da organizzare».
Per un po’ rimanemmo in silenzio. Law non mi chiese nulla, né spiegazioni sul perché avevo preso quella decisione, né quando avessi intenzione di tornare nel mio universo di provenienza. Invece, mi guardò comprensivo. Aveva capito le mie ragioni. Per una volta, apprezzai quella quiete. Dopotutto, lui non aveva bisogno di chiarimenti, ed entrambi sapevamo che non conoscevo la risposta a quelle domande. Lo avrei fatto, sarei tornata dalla mia famiglia, tuttavia il quando era ancora un’incognita. Una grossa incognita. Ma sospettavo che lo avrei capito una volta che fosse arrivato il momento.
«Sai, pensavo che dopo quello che ci è successo con Doflamingo non ci fosse più magia a questo mondo» gli confessai «Ma mi sbagliavo. C’è ancora magia. E c’è sempre speranza» continuai. Feci una pausa per contemplare quel meraviglioso cielo notturno, impreziosito dalla presenza fiera della Stella e da quella della sua più piccola aiutante. Poi posai delicatamente la mia mano sopra alla sua, poggiata sulla ringhiera del ponte. Lui mi guardò compiere quel gesto in silenzio.
«Odio ammetterlo, ma devo essere onesta, perché questa è una cosa che non si può negare. Sei un ottimo capitano. E, nonostante tutto, sei una brava persona. Una persona che sono contenta di aver incontrato e conosciuto lungo il mio cammino» iniziai, pressando appena le mie dita sulle sue nocche tatuate «Sei riuscito in un’impresa impossibile. Mi hai reso una persona migliore, e ti devo molto. Non credo che riuscirò mai a ripagare il debito che ho con te per intero, però, una cosa posso farla».
«Taglia corto» mi interruppe. Tuttavia, invece che infastidirmi per avermi tolto la parola in un momento così serio, mi misi a ridere, anche per sciogliere un po’ di tensione. Non gli erano mai andati a genio i sentimentalismi.
«È tuo» sussurrai, alzando lo sguardo verso il cielo ed indicando le due stelle con un cenno del capo. Sorrisi, mentre Law mi guardava interrogativo.
«Il terzo desiderio. È tuo. La Stella ha acconsentito a cedertelo» gli spiegai con un bagliore negli occhi. Lui alzò un sopracciglio e ritrasse la sua mano da sotto la mia. Mi sembrò infastidito.
«Non mi serve un desiderio. E non mi serve nemmeno la tua pietà» fece con durezza. La sua risposta mi deluse un po’. Pensava davvero che lo facessi per pietà? Non aveva capito niente. Cercai di non arrabbiarmi e rimanere calma. Era stato solo un piccolo fraintendimento, niente di grave.
«Non lo faccio per pietà. Questo è un modo per ripagare parte del debito che ho nei tuoi confronti e per ringraziarti per tutto ciò che hai fatto per me» chiarii cautamente, ricominciando a sorridere. Se lo meritava, e glielo dovevo. Mi aveva accolto sul suo sottomarino, nonostante avesse tutte le ragioni del mondo per non farlo, mi aveva salvato la vita in un paio di occasioni, mi aveva fatto appassionare alla medicina, mi aveva fatto da mentore e mi aveva insegnato buona parte di ciò che sapeva. E poi, aveva trovato il modo per farmi tornare nel mio mondo. La lista era lunga, ma a parte questo, se lo meritava e basta. Perché era una bella persona, dentro e fuori, molto di più di come appariva, o di come voleva apparire. Aveva a cuore i suoi uomini, e me lo aveva dimostrato ancora una volta, quel giorno.
«Riesci a vedere la Stella, il che significa che credi a lei. È giusto così, Law. Per una volta, permettimi di fare qualcosa per te ed accetta questo mio dono» lo sollecitai «Inoltre, tutti hanno bisogno di un desiderio. Non sprecarlo» mi raccomandai poi, dandogli una lieve pacca sulle spalle.
Senza dargli il tempo di obiettare o di replicare, mi tolsi il cappotto e glielo restituii, dopodiché mi diressi verso l’ingresso del Polar Tang. Qualunque fosse stato il suo desiderio, non mi sembrava corretto rimanere ad ascoltare. Lui con me non lo aveva fatto. Tuttavia, a metà strada ci ripensai. Gli corsi incontro e, senza esitare, gli cinsi la vita con le mani da dietro. Per un breve secondo il suo corpo si irrigidì, per poi tornare a rilassarsi. Lo strinsi più a me, la mia guancia era premuta contro le sue scapole. Non potevo credere che me lo stesse lasciando fare. Dopo due anni, ero finalmente riuscita nel mio intento. Ero riuscita ad abbracciarlo! Non mi sembrava neanche vero, mi sembrava di stare sognando. Era un sogno lontano dagli incubi che avevano infestato il mio sonno pochi mesi prima. Un sogno bello e surreale. Io, abbracciata a lui, in quella notte scura illuminata solo dal forte bagliore della Stella. Inspirai il suo odore a piene narici. Aveva un profumo buonissimo, che mi era mancato molto. Sorrisi nel pensare che per un altro po’ non avrei dovuto farne a meno. Avrei continuato a sentirlo. Chiusi gli occhi e, dato che non potevo vederlo in faccia, mi immaginai che Law stesse sorridendo. Non con il solito ghigno strafottente, ma con un semplice sorriso sincero, forse perfino grato. Nonostante non avessi più il suo cappotto a ripararmi dalla frescura di quella notte, non sentivo freddo. Il mio corpo, stretto al suo, era caldo. Mi sentivo al sicuro. Mi sentivo a casa.
Non avevo idea di quanto tempo rimanemmo in quella posizione, ma finché me lo avesse permesso sarei rimasta abbracciata a lui. Non ci servivano parole per comprenderci. Ci servivano più momenti come quello. Tanti di più. Quella sera, magia e poesia si erano incontrate e avevano creato una perfetta armonia.
Alla fine, un po’ riluttante, mi decisi a staccarmi da lui. La Stella non era molto paziente e temevo che potesse decidere di sparire da un momento all’altro se avessi tergiversato ancora.
«Spero che la tua scelta di rimanere non sia interamente dovuta al Capo di Stato Maggiore dell’Armata Rivoluzionaria» commentò il chirurgo ad un certo punto, facendomi sbuffare una risata. Non gli risposi. Non subito, almeno.
Iniziai a camminare verso l’ingresso del sottomarino. Lui si girò a guardarmi, ghignando. Sospettavo che provasse piacere ad avermi lasciato senza parole. Povero ingenuo.
«Non essere geloso, capitano. La gelosia è una brutta bestia» lo rimproverai, sogghignando e continuando a camminare all’indietro. In risposta, lui allargò il suo ghigno.
Mi domandai che cosa stesse per chiedere alla Stella. Poi, però, mi dissi che non aveva importanza. O meglio, che non erano affari miei. Sapevo che qualsiasi desiderio stesse per esprimere sarebbe stato significativo.
 
“Che giornata incredibile!” pensai mentre percorrevo il corridoio a ritroso per tornare in camera. Stentavo ancora a credere a tutto ciò che era successo. Temevo che per riprendermi da quel tripudio incredibile di emozioni mi ci volesse una settimana di sonno. Eppure, adesso, non mi sentivo stanca. Il mio corpo vibrava, sentivo di avere energie da vendere. L’adrenalina scorreva nelle mie vene e si irradiava in tutto il corpo. Non potevo dire di essere pienamente felice, perché sarebbe stata una bugia. La mia famiglia mi mancava terribilmente, e il pensiero di aver tardato ancora il nostro incontro mi rendeva malinconica. Lo avevo scelto io, ma era comunque doloroso rinunciare una seconda volta ai miei cari. Però non ero neanche troppo dispiaciuta. Non dopo l'abbraccio con Law.
«Ti ho detto che i piatti vanno asciugati in senso orario!» il grido Ryu mi ridestò dai miei pensieri.
Mi affacciai in cucina. Quando vidi la scena che avevo davanti, non potei fare a meno di scoppiare a ridere. Cercai di non farmi sentire, altrimenti Jean Bart non mi avrebbe mai perdonato. Una pila di piatti giaceva in precario equilibrio nel lavello. Il cuoco li stava lavando a velocità record, mentre l’enorme addetto alla sala macchine era stato obbligato – o almeno, così supponevo – a dargli una mano nell’asciugarli. Ryu, quando si trattava di cucina, aveva una precisa metodologia per tutto, perfino per asciugare i piatti. E a quanto pareva, il povero Jean Bart stava sbagliando tutto.
Vidi il burbero chef strappargli il piatto e lo straccio dalle mani e mostrargli – a suo dire per l’ennesima volta – il metodo corretto per asciugarlo.
«Ecco, vedi? È così che si fa!» esclamò concitato, mentre l’omone, senza farsi vedere, alzava gli occhi al cielo e scuoteva la testa, sconsolato.
Risi nel pensare che con il suo temperamento il cuoco dei Pirati Heart avrebbe potuto sottomettere persino Akainu.
Proseguii ed arrivai alla cabina di Shachi e Penguin. I due, in pigiama ed assonnati, stavano ultimando gli ultimi preparativi prima di andare a letto. Quando mi videro mi rivolsero un ampio sorriso.
«Vuoi unirti a noi?» mi chiese il pinguino, l’espressione maliziosa. L’orca gli diede una gomitata. Risi e scossi la testa. Quei due non sarebbero mai cambiati. Per fortuna. A me piacevano così com’erano.
«Magari un’altra volta» scherzai. I loro occhi si illuminarono, pieni di speranza.
«Buonanotte, ragazzi» feci, ricambiando il sorriso.
«Buonanotte, Cami!» mi augurarono all’unisono. Facevano quasi tenerezza a vederli così. Erano ignari di tutto ciò che era successo nell’ultima ora, e sarebbe stato meglio lasciarli nella loro ignoranza.
Passai davanti ai bagni comuni, l’unica stanza di tutto il sottomarino, anzi, di tutto l’universo di One Piece, capace di terrorizzarmi più delle prigioni sotterranee dell’Armata Rivoluzionaria in cui era stato rinchiuso Doflamingo.
Bepo, ancora nella sua divisa arancione, si stava lavando i denti e la faccia. Era stato l'unico ad aver indossato la divisa, quella sera, pur non essendo obbligato, confermando ancora una volta quanta dedizione avesse per i Pirati Heart e per il nostro capitano. Decisi di non disturbarlo e continuai a camminare. Davanti alla cabina di Maya, lei ed il suo fidanzato si stavano scambiando un bacio passionale, simile ai baci che ci scambiavamo in privato io e Sabo. Quando mi videro ridacchiarono complici e si ritirarono nella loro cabina chiudendo rumorosamente la porta.
Le luci dell’infermeria erano ancora accese e dal suo interno provenivano delle voci. Feci capolino dalla porta e sbirciai la situazione. Kenji e gli altri medici stavano parlottando intensamente.
«Cami!» mi richiamò il ragazzo dopo che si fu accorto della mia presenza. Poi si avvicinò a me con in mano una radiografia di un torace.
«Secondo te di cosa si tratta?» mi domandò. Presi le lastre in mano e le osservai per qualche secondo.
«Si dovrebbero fare ulteriori esami, ma direi che si tratta di un edema polmonare acuto. Le dimensioni cardiache sono aumentate e c’è una redistribuzione del flusso verso l’alto. Vedi?» gli indicai con l’indice il punto a cui mi riferivo «È presente un importante versamento pleurico bilaterale».
«Bentornata tra noi» disse compiaciuto uno dei medici, sorridendo ed allargando le braccia. Mi strinsi nelle spalle. Mi sentivo lusingata. Non sapevo se sarei stata in grado di riprendere la mia attività di medico, ma per quella sera preferii non pensarci. Una cosa era certa: avrei fatto di tutto affinché il mio sogno si realizzasse. Era anche per quello che avevo deciso di rimanere lì.
«Grazie. Ne stavamo discutendo da parecchio tempo e ci serviva un’altra opinione» confessò Kenji, leggermente in imbarazzo.
«È il mio dovere» risposi, piegando la testa da un lato «Buonanotte, colleghi».
Li salutai con la mano e loro ricambiarono il saluto.
Finalmente arrivai alla mia camera. Mi richiusi la porta alle spalle e presi un respiro profondo. Nel vedere i miei compagni svolgere le loro attività quotidiane e coinvolgermi in parte di esse, avevo acquisito una nuova consapevolezza. Sorrisi.
Adesso ne ero sicura. Era quella, la strada che mi avrebbe portato verso il Sole.
 
 
 
 
Mom and Dad,
Don’t worry about your son.
I’ll be ok,
I’ll take these days one by one.
Though the times are hard,
I still know where I belong.
I keep looking up,
So I know where I belong.
 
For now,
I’ll choose this life I live.
And for now,
I’ll choose to take my hits.
‘Cause at the end of the day
All we have is who we are.
 
Life, hurry now,
I’m running out of time.
And I’m growing weak,
As are these dreams that are mine.
Though the days are long,
I’m still running strong.
 
For now,
I’ll choose this life I live.
And for now,
I’ll choose to take my hits.
‘Cause at the end of the day.
All we have is who we are.
 
For now,
I’ll choose this life I live.
And for now,
I’ll choose to take my hits.
‘Cause at the end of the day.
All we have is who we are.
 
And at the end of the day,
All we have is who we are.
 
 
 
Fine terza parte.



 
Angolo autrice
E con questo capitolo, si conclude la terza parte della Fanfiction. Come sempre, spero che vi sia piaciuto e invito chiunque ne abbia voglia a lasciarmi un parere. :)
Cami ha preso la sua decisione, finalmente. Ma... avrà fatto la scelta giusta? Suppongo che solo il tempo potrà dircelo. Nel frattempo, ringrazio tutti coloro che hanno letto, seguito e recensito "Lost girl" fino a questo punto. Sappiate che siete fantastici, vi adoro! Grazie davvero a tutti per la pazienza e la dedizione che mostrate nei confronti di questa storia. <3 Vi chiedo di resistere ancora un po', prima o poi "Lost girl" finirà, lo prometto!
A questo punto, non mi resta che dire... alla prossima!
Un bacio,
WillofD_04 <3

P.s. La canzone alla fine del capitolo è "Who we are" di Ryan Calhoun, in caso vi andasse di ascoltarla. :) Ho scelto di inserirla perché oltre, a piacermi molto, il testo, secondo me, in parte descrive la situazione di questo capitolo ed il modo in cui si sente Camilla. E poi, un po' di musica ci sta sempre bene! :)
   
 
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