CAPITOLO TRE
“Erat hoc
mirabile in regno Langobardorum: nulla erat violentia,
nullae
struebantur insidiae; nemo aliquem iniuste angariabat,
nemo spoliabat; non erant furta, non
latrocinia; unusquisque
quo libebat securus sine timore pergebat”.
Paolo Diacono,
Historia Langobardorum.
(C'era
questo di meraviglioso nel regno dei Longobardi: non c'erano violenze,
non si
tramavano insidie;
nessuno
opprimeva gli altri ingiustamente, nessuno depredava;
non
c'erano furti, non c'erano rapine;
ognuno
andava dove voleva, sicuro e senza alcun timore).
Mentre il vento sempre più forte sferzava il viso di Rufillo,
e la Selva Litana ancora non accingeva a smetterla di inquietare gli intrepidi
viaggiatori, resi coraggiosissimi solo dal loro importante scopo finale, Flavio
Massimo, il Vescovo di Nursia, osservava il volto inflessibile dell’amico
d’infanzia.
Che arduo compito che era stato loro affidato! Consegnare un
libro sacro a delle creature che lui stentava a vedere come uomini al pari dei
Romani. Si affidava tuttavia all’esperto ed anziano amico, sapeva che doveva
fidarsi di lui. Era un uomo pio e devoto, mai avrebbe mentito sulla realtà dei
fatti.
Socchiuse gli occhi e tornò a pregare, mentre il cavallo
proseguiva la sua lenta marcia.
Rufillo, ignaro di tutte le perplessità del vecchio amico
romano, era invece sereno e la sua mente continuava a frugare tra i ricordi,
così da sentirsi meno solo e da avvertire meno freddo, giacché tali pensieri
avrebbero senz’altro scaldato il suo anziano animo.
Con una mano guidava il cavallo del Vescovo, stanco e
spossato, e con l’altra si attorcigliava di tanto in tanto i peli della lunga
ed inselvatichita barba, molto simile a quella di Rhotar, il Duca della fara(1)
dei Winnili stanziatisi a Mutina.
Quando, dopo averlo catturato, i suoi fedeli guerrieri
l’avevano portato al suo cospetto, aveva capito subito che aveva di fronte a
lui un uomo di grande intelligenza. Gli occhi chiari erano vivaci, e dal suo
viso non traspariva disgusto per quello che doveva apparire un miserabile e
cencioso ragazzo di stalla, conciato com’era.
Il monaco non aveva avuto paura di quello sguardo arguto, ed
aveva sorriso, senza prostrarsi al suo cospetto. Era abituato a prostrarsi solo
davanti a Dio, sugli altari.
Si era presentato ed aveva spiegato il motivo del suo arrivo
in quel luogo ritenuto ormai remoto dalle autorità greche, ed il Duca,
contrariamente a quel che si erano aspettati i suoi guerrieri, aveva gradito.
O, meglio, aveva accettato che il giovane e strambo romano che aveva dato
sfoggio di grande padronanza del latino e delle lingue al di là del Limes
potesse restare nelle sue terre.
Ad una condizione soltanto, però; che si fosse dedicato
all’educazione dei suoi figli.
Rufillo, quando aveva udito quelle parole, le uniche che il
saggio capo barbaro avesse pronunciato, limitandosi perlopiù a lasciar parlare
il nuovo arrivato, aveva immediatamente capito che il problema tra i Longobardi
e i Romani era basato su semplici incomprensioni; poiché l’uomo sincero che
aveva di fronte era qualcuno di mentalmente più aperto rispetto a quasi la
totalità dei funzionari dell’Esarca a Ravenna.
Rhotar capiva bene il latino, anche se non lo parlava quasi
mai, ed era desideroso che i suoi figli diventassero, un giorno, dei buoni
governanti per quei territori da poco conquistati, e chissà, anche re, seppur
questo non avesse mai avuto il coraggio di dirlo a voce alta.
Così, per anni il buon monaco aveva seguito la crescita di
Agilulfo e Adalberto, primo e secondogenito del Duca.
I due bambini erano separati da soli dieci mesi di
differenza, erano nati nello stesso anno del Signore. Ed erano anche orfani di
madre, e desiderosi di tutto l’affetto che avessero potuto ricevere dalle
persone che li circondavano. Anche se con il padre si sforzavano di dimostrarsi
già valorosi e di cuore intrepido, come i protagonisti dei racconti che la sera
udivano dai più anziani del loro popolo, prima di andare a dormire.
Rufillo si era sinceramente affezionato ai bambini fin da
subito, e Rhotar a lui, poiché scovare un sapiente che sapesse leggere,
scrivere ed insegnare era cosa estremamente rara in quei tempi e in quelle
lande.
Fiducia e onestà erano stati i capisaldi dei loro rapporti.
Il romano non aveva mai visto il Duca comportarsi in modo scorretto con i suoi
sudditi, e i suoi figli assieme a lui; i Romani non erano considerati
arimanni(2) non erano uomini liberi, e dovevano sottostare alla legge dei
conquistatori, tuttavia Rhotar non aveva problemi a punire i suoi stessi
uomini, se risultava che si erano comportati in modo indegno.
Per questo tutti coloro che non portavano armi(3) non
dovevano subire percosse dai guerrieri, poiché era ritenuta cosa infame infierire
su chi non poteva difendersi.
Rufillo quindi visse il momento d’oro di uno dei primi Duchi
di Mutina, e crebbe i suoi figlioli nutrendoli con l’adeguata istruzione,
essendo già da soli predisposti all’apprendere nozioni con facilità e ad essere
scaltri nel ragionare.
Ricordava bene quei giorni floridi, ben lungi dall’idea che
avevano i Romani della dominazione barbarica.
Fu la dolcezza di tali ricordi che lo spinse a sorridere tra
sé, senza neppure accorgersi di averlo davvero fatto e di aver mostrato a chi
lo circondava quanto fosse a suo agio, in quella vita ritenuta così villana dai
popoli più antichi ed evoluti.
NOTE
(1)termine longobardo molto simile al tedesco fahren, con significato di andare,
marciare. I Longobardi erano infatti organizzati in fare(gruppi familiari
armati) che si spostavano con carri e bestiame, ai tempi del nomadismo. Il
sistema delle fare continuò a persistere anche in Italia, quando essi divennero
stanziali. A capo di ogni fara c’era un Duca(un condottiero, in pratica),
eletto dall’assemblea dei suoi arimanni.
(2)termine che indicava gli uomini liberi.
(3)la popolazione romana preesistente non poteva portare
armi(i Romani conquistati erano chiamati aldii, cioè uomini semiliberi). Solo
gli arimanni, e cioè i guerrieri di origine longobarda, potevano avere armi con
loro ed essere addestrati e preparati fin dalla più tenera età all’arte della
guerra. Questo solo in un primo periodo, poiché in seguito, quando la fusione
tra le due culture sarà più avanzata, anche i Romani saranno sottoposti alla
leva militare.
Nel racconto, continuerò a identificare genericamente come
Romani tutto il substrato italico preesistente all’arrivo dei Longobardi, come
tuttavia si faceva già all’epoca.
NOTA DELL’AUTORE
Grazie mille per essere giunti fin qui. Vi stimo tantissimo!