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Autore: alessandroago_94    07/05/2018    10 recensioni
603 d.C, Italia Settentrionale.
Rufillo ben sapeva che esistevano due realtà quasi contrapposte, due mondi distinti. Ciò che c’era al di là del Limes Tiberiacus, l’ultimo baluardo a difesa di quello che restava della romanità, era qualcosa di travolgente, nella sua immensa barbarie.
O, almeno, così era stato fin all’avvento della regina Teodolinda, prima sovrana cattolica dei Longobardi. Si diceva che ella amasse dedicarsi alla lettura.
Allora, l’ultima missione di una vita lunghissima e resa però resistente dalle continue e tanto desiderate privazioni, sarà quella di far giungere tra le mani di una regnante barbara un preziosissimo testo sacro, così che i suoi occhi così dotti potessero essere per sempre illuminati e guidati dalle parole che avrebbero influenzato per secoli la vita di milioni di persone.
Racconto classificato secondo (a pari merito con FatSalad, Le due cetre) al Contest In Medio Stat Virtus indetto da mystery_koopa sul forum di Efp.
Racconto vincitore di due premi speciali; Rivelazione maschile (miglior personaggio maschile) e Verità o Menzogna (miglior storia di genere giallo/thriller).
Genere: Avventura, Storico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Medioevo
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Capitolo 3

CAPITOLO TRE

 

 

 

 

 

 

 

 

“Erat hoc mirabile in regno Langobardorum: nulla erat violentia,

nullae struebantur insidiae; nemo aliquem iniuste angariabat,

 nemo spoliabat; non erant furta, non latrocinia; unusquisque

quo libebat securus sine timore pergebat”.

Paolo Diacono, Historia Langobardorum.

(C'era questo di meraviglioso nel regno dei Longobardi: non c'erano violenze,

non si tramavano insidie;

nessuno opprimeva gli altri ingiustamente, nessuno depredava;

non c'erano furti, non c'erano rapine;

ognuno andava dove voleva, sicuro e senza alcun timore).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mentre il vento sempre più forte sferzava il viso di Rufillo, e la Selva Litana ancora non accingeva a smetterla di inquietare gli intrepidi viaggiatori, resi coraggiosissimi solo dal loro importante scopo finale, Flavio Massimo, il Vescovo di Nursia, osservava il volto inflessibile dell’amico d’infanzia.

Che arduo compito che era stato loro affidato! Consegnare un libro sacro a delle creature che lui stentava a vedere come uomini al pari dei Romani. Si affidava tuttavia all’esperto ed anziano amico, sapeva che doveva fidarsi di lui. Era un uomo pio e devoto, mai avrebbe mentito sulla realtà dei fatti.

Socchiuse gli occhi e tornò a pregare, mentre il cavallo proseguiva la sua lenta marcia.

 

Rufillo, ignaro di tutte le perplessità del vecchio amico romano, era invece sereno e la sua mente continuava a frugare tra i ricordi, così da sentirsi meno solo e da avvertire meno freddo, giacché tali pensieri avrebbero senz’altro scaldato il suo anziano animo.

Con una mano guidava il cavallo del Vescovo, stanco e spossato, e con l’altra si attorcigliava di tanto in tanto i peli della lunga ed inselvatichita barba, molto simile a quella di Rhotar, il Duca della fara(1) dei Winnili stanziatisi a Mutina.

Quando, dopo averlo catturato, i suoi fedeli guerrieri l’avevano portato al suo cospetto, aveva capito subito che aveva di fronte a lui un uomo di grande intelligenza. Gli occhi chiari erano vivaci, e dal suo viso non traspariva disgusto per quello che doveva apparire un miserabile e cencioso ragazzo di stalla, conciato com’era.

Il monaco non aveva avuto paura di quello sguardo arguto, ed aveva sorriso, senza prostrarsi al suo cospetto. Era abituato a prostrarsi solo davanti a Dio, sugli altari.

Si era presentato ed aveva spiegato il motivo del suo arrivo in quel luogo ritenuto ormai remoto dalle autorità greche, ed il Duca, contrariamente a quel che si erano aspettati i suoi guerrieri, aveva gradito. O, meglio, aveva accettato che il giovane e strambo romano che aveva dato sfoggio di grande padronanza del latino e delle lingue al di là del Limes potesse restare nelle sue terre.

Ad una condizione soltanto, però; che si fosse dedicato all’educazione dei suoi figli.

Rufillo, quando aveva udito quelle parole, le uniche che il saggio capo barbaro avesse pronunciato, limitandosi perlopiù a lasciar parlare il nuovo arrivato, aveva immediatamente capito che il problema tra i Longobardi e i Romani era basato su semplici incomprensioni; poiché l’uomo sincero che aveva di fronte era qualcuno di mentalmente più aperto rispetto a quasi la totalità dei funzionari dell’Esarca a Ravenna.

Rhotar capiva bene il latino, anche se non lo parlava quasi mai, ed era desideroso che i suoi figli diventassero, un giorno, dei buoni governanti per quei territori da poco conquistati, e chissà, anche re, seppur questo non avesse mai avuto il coraggio di dirlo a voce alta.

Così, per anni il buon monaco aveva seguito la crescita di Agilulfo e Adalberto, primo e secondogenito del Duca.

I due bambini erano separati da soli dieci mesi di differenza, erano nati nello stesso anno del Signore. Ed erano anche orfani di madre, e desiderosi di tutto l’affetto che avessero potuto ricevere dalle persone che li circondavano. Anche se con il padre si sforzavano di dimostrarsi già valorosi e di cuore intrepido, come i protagonisti dei racconti che la sera udivano dai più anziani del loro popolo, prima di andare a dormire.

Rufillo si era sinceramente affezionato ai bambini fin da subito, e Rhotar a lui, poiché scovare un sapiente che sapesse leggere, scrivere ed insegnare era cosa estremamente rara in quei tempi e in quelle lande.

Fiducia e onestà erano stati i capisaldi dei loro rapporti. Il romano non aveva mai visto il Duca comportarsi in modo scorretto con i suoi sudditi, e i suoi figli assieme a lui; i Romani non erano considerati arimanni(2) non erano uomini liberi, e dovevano sottostare alla legge dei conquistatori, tuttavia Rhotar non aveva problemi a punire i suoi stessi uomini, se risultava che si erano comportati in modo indegno.

Per questo tutti coloro che non portavano armi(3) non dovevano subire percosse dai guerrieri, poiché era ritenuta cosa infame infierire su chi non poteva difendersi.

Rufillo quindi visse il momento d’oro di uno dei primi Duchi di Mutina, e crebbe i suoi figlioli nutrendoli con l’adeguata istruzione, essendo già da soli predisposti all’apprendere nozioni con facilità e ad essere scaltri nel ragionare.

Ricordava bene quei giorni floridi, ben lungi dall’idea che avevano i Romani della dominazione barbarica.

Fu la dolcezza di tali ricordi che lo spinse a sorridere tra sé, senza neppure accorgersi di averlo davvero fatto e di aver mostrato a chi lo circondava quanto fosse a suo agio, in quella vita ritenuta così villana dai popoli più antichi ed evoluti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

 

(1)termine longobardo molto simile al tedesco fahren, con significato di andare, marciare. I Longobardi erano infatti organizzati in fare(gruppi familiari armati) che si spostavano con carri e bestiame, ai tempi del nomadismo. Il sistema delle fare continuò a persistere anche in Italia, quando essi divennero stanziali. A capo di ogni fara c’era un Duca(un condottiero, in pratica), eletto dall’assemblea dei suoi arimanni.

 

(2)termine che indicava gli uomini liberi.

 

(3)la popolazione romana preesistente non poteva portare armi(i Romani conquistati erano chiamati aldii, cioè uomini semiliberi). Solo gli arimanni, e cioè i guerrieri di origine longobarda, potevano avere armi con loro ed essere addestrati e preparati fin dalla più tenera età all’arte della guerra. Questo solo in un primo periodo, poiché in seguito, quando la fusione tra le due culture sarà più avanzata, anche i Romani saranno sottoposti alla leva militare.

Nel racconto, continuerò a identificare genericamente come Romani tutto il substrato italico preesistente all’arrivo dei Longobardi, come tuttavia si faceva già all’epoca.

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Grazie mille per essere giunti fin qui. Vi stimo tantissimo!

 

   
 
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