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Autore: Nina Ninetta    08/05/2018    8 recensioni
Viola è una ragazza disposta a tutto pur di conquistare il cuore della persona che ama, anche fare qualcosa di stupido come fraternizzare con il "nemico", ma talvolta ciò che noi detestiamo può rivelarsi un'autentica benedizione. La giovane si ritroverà a fare i conti con i problemi tipici degli adolescenti, un amore a due facce, un'amicizia persa e una madre emotivamente scompensata.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2
 "Che il gioco abbia inizio"

 
 
Jenny mi telefonò quella sera stessa.
Rimasi impalata a fissare lo schermo del cellulare per diversi minuti, prima che la voce di mio fratello, dalla stanza accanto, mi ordinasse di zittire quel telefono o lo avrebbe pestato fino a ridurlo in tante parti.
La mia amica partì in quinta a raccontarmi cos’era accaduto quel pomeriggio. Chiusi gli occhi, ripetendo dentro di me che non stava accadendo veramente, che era solo un incubo dal quale mi sarei svegliata, prima o poi.
«Facciamo un patto»
Sollevai di colpo le palpebre. Avevo udito così nitidamente la voce di Willy che ero convinta fosse in stanza. Poi Jenny riebbe di nuovo la mia attenzione di nuovo tutta per sé:
«Viola, ma hai sentito quello che ti ho detto? Cri-Cri mi ha baciato!»
Cri-Cri? E da quando lo chiamava in quel modo orribile?
«Si, Jenny, ho capito» eccome se avevo capito. «Scusa, ma stavo dando una mano a mamma in cucina. Abbiamo ospiti a cena» strinsi il cellulare con le dita.
Mi sentii una persona orribile.
«Oh…» Jenny mi parve dispiaciuta. Molto probabilmente avrebbe voluto passare tutta la sera al telefono a raccontarmi decine e decine di volte del loro bacio, del modo in cui l’aveva guardata e magari cosa le aveva sussurrato dopo che le loro labbra si erano allontanate.
Ok, la situazione stava degenerando, dovevo darmi una calmata. Il problema era che non riuscivo a smettere di pensare alle loro bocche unite.
Fui sul punto di dirle che anche io avevo un ragazzo, solo per il puro piacere di farle sapere che non era l’unica sedicenne sulla faccia della Terra ad avere un fidanzatino da sbaciucchiare. Tuttavia mi resi conto che sarebbe stato ancor più patetico di quanto già non fosse.
Soprattutto perché io un fidanzato vero e proprio non ce l’avevo.
Inoltre Willy mi aveva raccomandato di tenere la bocca chiusa: l’effetto sorpresa sarebbe stato ancor più devastante per Christian. Non avevo idea di cosa gli passasse per la testa allora, però riuscii a mantenere il segreto con Jenny.
 Proprio con lei, di cui sapevamo vita e miracoli l’una dell’altra, o quanto meno così avevo creduto fino a quel giorno.
Chiusi la conversazione e mi lasciai cadere all’indietro a braccia spalancate, ove ad accogliermi trovai il materasso; presi ad osservare le foto appiccicate al muro con alcuni adesivi divertenti e infantili.
Una di queste ritraeva me e Jenny durante l’estate dell’anno precedente, al mare. Io con i capelli sempre scompigliati che alla luce del sole sembravano ancor più arancioni di quanto non fossero, gli occhi strizzati a causa della luce che mi infastidiva, le lentiggini che oramai spiccavano tragicamente sul volto, in canotta blu e shorts abbinati, ai piedi sandali bassi. Jenny mi stringeva a sé, sempre perfetta in ogni suo aspetto. I capelli lunghi e castani erano trattenuti in una coda laterale, gli occhiali da sole sul capo lasciavano scoperti due occhioni castani e il suo sguardo da cerbiatta; il prendisole floreale le scivolava morbido sui fianchi e suoi seni. Come era accaduto a me, una spallina le era un po’ discesa oltre la spalla, ma mentre personalmente non faceva che donarmi un’aria sciatta, a lei la rendeva schifosamente sexy.
Come potevo solo pensare che Christian mi notasse? O che un ragazzo qualsiasi lo facesse?
Jenny era dolce, delicata, sempre sorridente. Io me ne stavo spesso imbronciata e in disparte e - il più delle volte - rispondevo male o sbuffavo alle domande che mi venivano poste, per nulla autoironica o attenta a non proferire parolacce in pubblico. Soprattutto non avevo gusto nel vestirmi, nel truccarmi, nel pettinarmi. In niente. Trascorrevo le mie giornate in tuta, con le scarpette comode, incurante dei capelli crespi o della matita sciolta. Per me esisteva solo il nuoto.
E Jenny.
E Christian.
Poi, all’improvviso, era rimasto solo lo sport.
 
La mattina seguente mi svegliai di buon’ora, non che la notte avessi dormito granché, ma avevo comunque puntato la sveglia alle 6. Ciò che mi premeva maggiormente era evitarmi l’incontro quotidiano con Christian sull’autobus delle otto meno un quarto.
Tra qualche mese la scuola sarebbe finita e forse sarebbe stato più facile per me digerire la cosa.
Che illusa!
L’istituto, a quell’ora del mattino, aveva un non so che di misterioso. Chiacchierai con la bidella storica: Concettina, Tina per tutti noi. Era una brava persona, rimasta vedova troppo presto e con la responsabilità di crescere un figlio da sola, che aveva allevato con amore e spezzandosi la schiena di lavoro, solo per fargli avere un futuro degno e lui, di cui mostrava sempre con orgoglio una foto in camice bianco, sembrava aver ripagato i suoi sforzi diventando un chirurgo.
Quando la prima campanella suonò mi avviai verso la mia classe. Avevo potuto evitare Christian, ma non potevo evitare di star seduta tutto il tempo nello stesso banco con Jenny. La cosa risulta difficile quando si è compagne di banco dalla tenera età di undici anni.
E lei non tardò ad arrivare, più smagliante del solito, felice come una Pasqua. La detestai con tutta me stessa, cosa che mi fece salire le lacrime agli occhi.
Come potevo odiare una persona con cui avevo condiviso di tutto e di più?
Non volevo provare quei sentimenti nei suoi confronti, però non riuscivo a smettere di sentirmi tradita. Lei si era presa l’amore della mia vita. E senza permesso.
Dopo le lezioni fui scaltra a rifiutare il suo invito elegantemente. Le dissi che non potevo prendere un caffè con lei e il suo nuovo ragazzo perché avevo promesso all’istruttore di fare qualche vasca addizionale quel pomeriggio, poiché poco più di un mese dopo ci sarebbero state le gare regionali e io non volevo arrivarci impreparata. Ferii ancora una volta la mia amica, questo era un vero record per me: l’avevo ferita due volte in meno di 24 ore.
Bella merda ero!

La piscina era vuota, l’acqua immobile rifletteva il soffitto e il cielo sgombro di nuvole. Mi sedetti sul bordo e immersi le gambe nell’acqua. Mi sentii subito meglio. Incastrai i riccioli rossi nella cuffia, infilai gli occhialini, feci un respiro profondo e, con uno slancio, mi tuffai.
Che goduria. Che piacere essere accarezzata dal tocco vellutato dell’acqua che mi rinfrescava e sembrava lasciarsi dietro la scia dei miei pensieri negativi.
Dopo quattro o cinque vasche - forse erano dieci, non ha importanza - mi sentii decisamente più rilassata; feci le operazioni inverse: tolsi gli occhialini, sfilai la cuffia e mi immersi di nuovo. Fu solo quando riemersi che lo vidi.
Christian.
Chissà da quanto tempo era lì, seduto sulla panca; a destra il mio borsone, a sinistra il suo; le gambe distese, le braccia conserte, l’espressione seria. Si alzò, afferrando il mio accappatoio rosa e avvicinatosi me lo porse, mentre io me ne stavo a bordo piscina, a testa china e gocciolante come una spugna. Farfugliai un grazie e lo indossai.
«Non ti ho visto stamattina nel pullman» disse.
«Ho preso quello precedente.» Perché improvvisamente era diventato così difficile parlargli? Proprio noi, che fino al giorno prima ridevamo insieme delle cose più buffe.
«Ho bisogno di parlarti.»
“Ecco, ci siamo” pensai, non potevo più sottrarmi dall’affrontare la realtà.
«Devo farmi la doccia e asciugarmi i capelli, se hai da fare…» provai a farlo desistere.
«Ho gli allenamenti fra più di un’ora. Ho tutto il tempo.»
Bella fregatura!
Presi le mie cose e mi accinsi a raggiungere gli spogliatoi femminili. Non volevo sentire quello che aveva da dirmi, non volevo sapere dei suoi sentimenti per Jenny. Non volevo che loro due stessero insieme.
 
Chiusi la zip della maglia, lunga sui pantacollant, attorcigliai i capelli in una crocchia, borsone a tracolla, inspirai profondamente e uscii.
Inizialmente non lo vidi e tirai un sospiro di sollievo. Forse era andato via, forse Jenny gli aveva telefonato all’improvviso, forse l’avevo scampata.
«Viola.»
No, lui era lì, in un cono di luce che lo aveva nascosto alla mia vista. Lo salutai alzando un palmo e abbozzando un sorrisetto. Mi dovetti concentrare per non fuggire via.
«Viola» ripeté il mio nome e io adoravo il modo in cui lo faceva, con quella cadenza che era tipica di lui.
Come potevo non essere io la sua ragazza?
Come poteva avere un’altra?
Mi poggiò le mani sulle spalle, forti e salde, mi sorrise e io mi sentii svenire:
«Sono così felice, Viola!» Eccoci qua, pensai, ci siamo mia cara. «Jenny te lo avrà già detto, ma ci tenevo a farlo anche io. Ci siamo messi insieme, Viola! Ieri finalmente sono riuscito a dirle quanto la amo.»
È come essere trapassati da una spada, credo, non che io sia mai stata trapassata veramente da una spada, ma penso che la sensazione sia più o meno la stessa. All’inizio non si sente nulla, il dolore, lo shock, quelli arrivano dopo. Per un attimo non zampilla neanche il sangue, per un attimo tutto sembra uguale, e invece è una sentenza di morte bella e buona.
Fu quando stavo per balbettare un «congratulazioni, siete due pezzi di merda» che mi sentii afferrare per la vita e stringere forte, mentre due labbra calde si posavano sulla mia guancia.
«Ciao amore!»
Era l’idiota.
Feci per scrollarmelo di dosso, poi il nostro patto mi tornò in mente e, più di tutto, l’espressione di Christian - che da sorriso di felicità si era trasformata in una smorfia di dissenso - mi arrestarono, portandomi a schiacciarmi ancor di più contro di lui.
«Christian» lo salutò il mio finto fidanzato.
«Wi-William» gli fece eco lui, spostando poi il suo sguardo confuso su di me. «Cosa succede?»
«Ah, scusami, stavo per dirtelo» risposi, prendendo a carezzare la guancia di Willy, la barbetta mi solleticò il dorso della mano. «Cris, lui è il mio ragazzo.»
Christian non rispose, rimase a bocca aperta, raccolse il suo borsone da terra e caricandoselo sulle spalle si allontanò, affermando di avere gli allenamenti, ai quali tra l’altro avrebbe dovuto prender parte anche Willy che, tuttavia, non sembrava avere la sua stessa fretta.
 
Quando il mio – ex? – migliore amico fu scomparso in lontananza, sciolsi l’abbraccio che ci legava, voltandomi a guardarlo male:
«Non ti avevo raccomandato niente baci e niente abbracci?»
«E anche niente carezze, se non sbaglio…» controbatté Willy, riferendosi giustamente al fatto che gli avevo sfiorato la guancia per diversi secondi. «Comunque anche io sono felice di vederti, Verdina» roteai gli occhi al cielo. Fra tanti idioti perché proprio lui? «Sembra che il tuo amichetto abbia incassato un bel montante.»
«Che?»
«Un pugno Cappuccetto, un pugno» odiavo il suo modo di fare più della sua consuetudine a sfottermi. «Allora abbracci, baci e carezze sono consentiti ora?»
«Lo faresti in ogni caso, anche se ti dicessi di no» lui fece spallucce, acconciandosi meglio il borsone da calcio e controllando l’orario sul telefonino, quindi gli porsi la più stupida delle domande. «Non dovremmo scambiarci i numeri?»
«Mi stai chiedendo il numero di telefono?» Alzò il sopracciglio sinistro, quello tagliato alla punta. «E domani cosa mi chiederai, Azzurra? Un appuntamento?»
«Sai una cosa? Vai a farti fottere!» Lo oltrepassai e mi incamminai lungo il sentiero costeggiato di alberi, nella frescura della sera che stava calando piano.
«Anche io ti amo, Stellina rossa!»
Gli mostrai il dito medio.
  
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