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Autore: carachiel    12/05/2018    5 recensioni
E' noto che fare patti con qualsivoglia creatura non umana porta solo che a grandi macelli.
Ma se proprio bisogna aprire il Vaso di Pandora delle recriminazioni, beh...
“Non è attestato quanta energia contenga in totale il corpo umano, ma dalle nostre indagini è venuto alla luce che sarebbero comunque livelli altissimi.”
“Quindi sarebbe possibile?”
“Sì. Il sacrificio volontario permetterebbe in passaggio tra le due energie, essendo esse di matrici opposte. Inoltre, ma credo che tu lo sappia, è necessaria una buona intesa fra donatore e ricevente.”
“…Sulla Terra lo chiamiamo trapianto.”
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Byron Arclight/Tron, Christopher Arclight/ Five, Michael Arclight/ Three, Thomas Arclight/ Four
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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- Questa storia fa parte della serie 'Impulso–verse'
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San Tommaso: Fui l’unico a dubitare

“Forse scorre dentro il silenzio e il senso
e il profilo della vita è tra le cose
e anche il buio serve ad immaginare”
Nomadi, Io voglio vivere

 
 
Attenzione: presenza di linguaggio volgare nella parte finale del capitolo
 

L’unico rumore che sentiva era un fruscìo leggero e costante. Come di stoffa o carta.                       
Fantastico.
Il suo pensare fu interrotto da una serie di passi, mentre l’altra persona si alzava e deponeva quello che doveva essere un libro, dedusse V, per raggiungere chi era entrato, probabilmente un’infermiere?
I due parlavano a bassa voce, ma non abbastanza da impedirgli di sentire le loro voci. La persona che era accanto a lui fino a un attimo prima aveva una voce calda, ma dal tono piuttosto concitato.
“Allora, come sta?”
“Le sue condizioni sono stabili. Se si sveglia e non ha particolari complicazioni potrebbe riportarlo a casa in serata.”
“Per quanto… per quanto dovrà tenere le bende?”
“Non saprei dirlo. Questo dovrebbe chiederlo al primario che l’ha operato.”
“D’accordo.”
L’uomo tacque e si tornò a sedere finchè i passi dell’infermiere non si attutirono e scomparvero.
E a quel punto V era ormai certo di chi avesse accanto. Già. Ma cosa si potesse dire a una persona che non vedeva da cinque anni e con simili recenti trascorsi, non era cosa da sottovalutare.
 
A risolvere l’inghippo fu proprio quest'ultimo, che lo sfiorò appena.
“Sei sveglio?”
Avrebbe potuto continuare a fingere di dormire, ma a conti fatti non avrebbe fatto differenza quel confronto inevitabile affrontato in quel momento o un’ora dopo.
“Sì.”
Non aveva comunque fretta di parlargli, affatto.
“Come ti senti? Sei stato in sala operatoria per… tanto tempo. Più di sei ore.”
“Bene.”
Che in fin dei conti non era una menzogna, era sveglio e non aveva sensazioni particolari, quindi era tutto okay.
Suo padre tacque e si alzò, annunciato dallo scricchiolìo della sedia contro il linoleum del pavimento.
Five sospirò, del resto non poteva esserci di meglio, nelle attuali condizioni.
E si rese conto di un dettaglio: gli aveva parlato in inglese.
La cosa non era sorprendente, in fondo erano entrambi bilingue, ma per lungo tempo in casa loro padre gli aveva parlato solo in giapponese, un po’ per fare allenamento. L’inglese era rimasto qualcosa di relegato, una specie di lingua segreta solo per loro.
Ma da parte di una persona come Byron Arclight, che non era uomo da tralasciare dettagli, era sicuramente qualcosa a cui far caso.
 
Il suo pensiero fu interrotto da qualcuno che senza ammettere delicatezza lo rimise dritto, gli sfilò gli aghi delle flebo dal braccio e gli tastò le bende, assicurandosi fossero ben strette.
“Se vuole può andarsene. Le lascio al banco di accettazione una lista di farmaci da prendere.” disse l’infermiera, sbrigativa.
“Okay.”
“Come al solito la sanità naviga in cattive acque.” mormorò suo padre, quasi in tono di scuse, quando la donna si allontanò “A proposito, ti ho portato dei vestiti puliti.”
“Grazie.”
L’uomo li tolse da un borsone poggiato vicino alla sedia su cui era seduto e glieli poggiò accanto, restando un attimo incerto se allontanarsi.
“Vuoi…?”
Five capì “No, non mi serve aiuto. Puoi allontarti?”
L’altro annuì e si allontanò di una decina di passi.
Mentre lo guardava rivestirsi gli venne spontaneo pensare che era veramente dimagrito. Era sempre stato più alto della media, del resto aveva preso da lui, ma sembrava non avesse toccato cibo per anni, tanto era sciupato.
 
Si chiese e provò a immaginare che tracce avessero lasciato quegli anni su di sé. Se, visto dalla prospettiva inversa, tornare a casa insieme avesse avuto quella naturalezza propria dell’abitudine, o se ci fosse stata quella commozione inespressa di quando lo riabbracciava dopo giorni di assenza.
Se fosse rimasto qualcosa del ragazzino che aveva lasciato.
 
E cos’erano quei segni che aveva sulle spalle?
Senza fare un fiato gli si avvicinò, sembravano dei graffi, solo che erano lunghi e irregolari, situati tra il collo e la schiena.
E in quel preciso istante la sua razionalità cedette, per far spazio a una visione.
 
Un ragazzino con una lunga treccia bionda in una stanza buia dal pavimento a scacchi bianchi e e neri che, con calma e precisione, armato di catene che sarebbero sembrate quasi eteree se non fosse stato che, ogni volta che colpivano il bersaglio, questi sussultava violentemente.
Il bersaglio era un ragazzo dai lunghi capelli, inginocchiato sul pavimento di marmo freddo.
Sembrava quasi non sentire i colpi, se non fosse stato che quando le catene lo colpivano, stringeva i denti per non urlare. Sudava. O forse piangeva.
 
La visione si interruppe bruscamente come era iniziata, lasciandolo tanto spiazzato da doversi appoggiare al muro per non crollare al suolo.
Avrebbe scommesso tutto quel che aveva, con certezza matematica il ragazzo della visione era Five.
Dio, se capiva perché era così schivo. Chiunque, dopo simili e ripetuti trattamenti l’avrebbe evitato.
O desiderato morto, nella peggiore delle ipotesi.
 
“Se vuoi io sono pronto. Ah, e per la cronaca, mi hai preso una camicia di Four, mi sta corta.” disse Five.
Il padre annuì e lo prese sottobraccio.
“Guarda che so camminare comunque.”
Non rispose, ma Five lo intese comunque come un segno di lasciarsi guidare. E a malincuore si lasciò portare.
 
C’era una sorta di serenità nel modo in cui quell’uomo gli parlava, priva di incredulità, con solo il senso ispiegabile del tempo fra loro, un tempo senza interruzioni.
 
Passarono dal primario, che li avvertì che doveva tenere le bende almeno per novanta giorni, in modo da permettere alla retina di stabilizzarsi e tornare lì ogni quindici giorni per cambiare le bende. Anche se le tempistiche, come ammise poco dopo, dipendevano in larga parte da come sarebbe andato il decorso post operatorio.
Tornarono alla reception e ritirarono le ricette dei farmaci, per poi puntare verso casa nel più completo silenzio salvo Byron che ogni tanto lo avvertiva per un gradino o un ostacolo.
Del resto, andava bene così.
 
Erano fermi a un semaforo quando questi gli domandò “Toglimi la curiosità: che cosa hai raccontato ai tuoi fratelli per non farli preoccupare?”
“Ho imbastito di andare a trovare per qualche tempo un vecchio amico che mi ha retto il gioco. O sarebbe stato troppo semplice scoprire la verità.”
“Ah. E come pensi di spiegargli… tutto questo?”
Five non rispose.
Avrebbero capito da soli. Non c’era bisogno di spiegare nulla all’infuori del vero.
“Siamo quasi arrivati a casa.”
“Prendi il mio mazzo per aprire.”
“Non è necessario” mormorò l’uomo, estraendo un mazzo di chiavi dalla giacca.
“Lo hai conservato… per tutto questo tempo?”
“A volte i ricordi non bastano.”
 
Five si fermò un attimo per analizzare la frase, mentre il padre armeggiava con le chiavi del cancello.
E a malincuore devette ammettere che l’altro aveva ragione, che alla lunga di soli ricordi non si sopravviveva.
 
Lui stesso e i suoi fratelli avevano lottato a denti stretti, per continuare.
Per continuare a sopravvivere, cibandosi dei pochi ricordi che, salvifici, li avrebbero tenuti fuori da quel marmoreo confine che era la loro condanna, il loro passato.
Ma da quando Tron era stato sconfitto, avevano preferito smettere di correre per sopravvivere al dolore. Non avevano fretta.
Si erano rinchiusi nel loro fasto per non sapere, non vedere, non ricordare.
E Five non si era mai fatto illusioni di poter spezzare una simile prospettiva.
 
Il rumore metallico e sferragliante del cancello interrruppe il filo dei suoi pensieri.
“Andiamo.” mormorò Byron prendendogli la mano, stringendola come per dargli un coraggio che in quel momento nessuno dei due aveva.
“Serviranno dei litri di tè per spiegare tutto quello che è successo, dato che a momenti riusciamo a parlare solo davanti ad esso...” pensò Five
Poteva solo augurarsi che i suoi fratelli non fossero in casa, in modo da rimandare almeno di un poco l’inevitabile, ignorando che in quel momento i suddetti erano entrambi in casa.
Entrarono in casa con una discrezione che pareva stessero rientrando a notte fonda, anziché in pomeriggio inoltrato.
“Digli qualcosa, Chris… Sembriamo due ladri!” gli sussurrò suo padre, indeciso dall’assurdità di quella situazione.
“Non chiamarmi… non importa. Sono a casa!” esclamò Five in un tono che si augurò suonasse il più possibile naturale.
“Non posso continuare a chiamarvi come numeri per sempre. Del resto tu non mi chiami certo Nove*, quindi…” ribattè seccamente
“Sei tornato presto niiiiii…” esclamò Three comparendo dal salotto e congelandosi sul posto.
Four replicò dall’altra stanza “Pulce, hai imparato una vocale nuo- Oh no.” concluse raggiungendolo.
Rimasero per un secondo a fissarsi l’un l’altro, completamente immobili.

“E’ uno scherzo?” esalò Four fissando il padre. “E’un fottutissimo scherzo? Non può essere vero! Questo… non può essere vivo, oh no! Non qui, non ora!! E soprattutto… NON DI NUOVO! ” esplose, avvicinandosi a quest’ultimo.
Three singhiozzava piano, guardando la scena con gli occhi sgranati “Papà…”
L’uomo lentamente alzò lo sguardo, fino a quel momento tenuto ìnchiodato a terra.
“E lui?” disse Four fissando il fratello maggiore appoggiato alla parete “Co-cosa sono quelle bende? Che gli hai fatto? Che cazzo gli hai fatto, stronzo?? L’hai obbligato a fare cosa, eh? Voglio delle spiegazioni!!” urlò alzando i pugni come a volerlo colpire.
“Fermati!” lo interruppe Three prendendolo per i polsi
“Three, spostati.”
“Io… io non sono certo se questa persona… Ma anche se fosse… Vero?” balbettò il quindicenne, fissando il padre come ad avere una certezza.
 
Ma quest’ultimo non riuscì a rispondere.
 
La verità era che essi per anni avevano visto in modo molto parziale loro padre: pensando che lui risolvesse i guai, finendo i problemi senza nascondere polvere sotto al tappeto, non importava cosa fossero.
Ma adesso era ben diverso rimuovere le ombre del passato, del presente e del futuro, rientrando nelle loro vite.
Evitare ogni reticenza, senza foderare di parole ogni atto.

E farlo senza dubitare l’uno dell’altro.
 
 
 
*Nove è il numero, secondo la religione ebraica, di verità ed eternità. Attraverso la moltiplicazione indica il limite invalicabile a cui ogni uomo si assoggetta nel mondo della materia.
Dunque è il numero perfetto per Tron.  

Angolo Autrice:
In primis, grazie per tutto il sostegno. In una sezione morente ricevere una recensione vale il quadruplo.
Uno speciale grazie a stellaskia e Selena Leroy per aver inserito la storia nelle seguite.
Ma torniamo alla storia. Il titolo del capitolo dice già tanto, vero?
Notate come tutti, Five in primis, hanno una visione molto parziale, a volte quasi errata, di sé stessi e dei familiari?
Diciamo che è un aspetto che ritornerà nei prossimi capitoli. E sempre tanti, tanti flashback.
E niente, ci vediamo al prossimo capitolo.
   
 
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