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Autore: lsir    16/05/2018    2 recensioni
Avete mai pensato di poter passare del tempo con i BTS?
E se la BigHit stesse cercando qualcosa?
E se voi foste ciò che la BigHit cerca?
Dal prologo:
Quando ho saputo che la BigHit voleva aggiungere una figura femminile ai Bangtan Boys la prima cosa che ho pensato è stata che non avesse alcun senso, non solo perché con una 'girl' i Bangtan Boys non sarebbero più stati tanto 'boys', ma anche perché con Jimin e le sue manine una pseudo donna ce l'avevano già'.
La seconda cosa che ho pensato è stata che io ero una donna.
La terza cosa che ho pensato è stata che io, essendo donna ed avendo capacità canore non indifferenti, potevo essere ciò che la BigHit cercava.
Non posso mettere più di cinque personaggi, ma i ragazzi ci sono tutti, tranquilli.
Genere: Comico, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Kim Namjoon/ RapMonster, Kim Taehyung/ V, Nuovo personaggio, Park Jimin
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Quando ho saputo che la BigHit voleva aggiungere una figura femminile ai Bangtan Boys la prima cosa che ho pensato è stata che non avesse alcun senso, non solo perché con una ‘girl’ i Bangtan Boys non sarebbero più stati tanto ‘boys’, ma anche perché con Jimin è le sue manine una pseudo donna ce l’avevano già.

La seconda cosa che ho pensato è stata che io ero una donna.

La terza cosa che ho pensato è stata che io, essendo donna ed avendo capacità canore non indifferenti, potevo essere ciò che la BigHit cercava.

Subito dopo aver formulato questa serie di pensieri oltremodo intelligenti ho chiamato il mio agente e gli ho chiesto con voce calma e composta (non è vero, ero isterica ma hei! Devo comunque tenere su la mia dignità in qualche modo) di iscrivermi al provino per il nuovo membro dei BTS.

Non credevo che il provino fosse andato bene, sinceramente.

Il viaggio Italia-Corea è stato lungo e stancante e, per me, che non riesco a dormire se non su un letto apertamente dichiarato di mia proprietà, le poltrone dell’aereo parevano piene di spine che mi pungolavano impedendo di stare ferma o di dare pace alla hostes con i capelli biondi che ho assillato per tutto il tempo.

Quando sono scesa dall’aereo ho acquistato una mappa di Seoul ed ho cominciato a cercare la sede della casa discografica perdendosi tre volte e ritrovandosi costretta a chiedere indicazioni all’unica persona di tutta la città che parlava inglese (sul serio, in Corea sono delle capre per quanto riguarda l’inglese! Ho chiesto indicazioni a ventimila persone ma nessuno sapeva rispondermi): una vecchietta di un negozio di fiori.

Quando sono, finalmente, arrivata alla BigHit ero stanca, sudata e irritata e ho mandato, poco gentilmente, a farsi un giro il tizio che mi ha accolta con un: 
“lei è in ritardo signorina” in un perfetto inglese per poi dirigersi verso la porta che il suddetto ometto mi ha indicato.

Ho fatto appena in tempo a scansarmi per non essere travolta da un’ orda di ragazze magre, perfette e con gli occhi a mandorla.

È stato un po’ avvilente vedere quanto lontano il mio aspetto fisico fosse dai canoni di ricerca, anche se, ho pensato, era proprio quello il mio punto di forza.

Ho preso un grosso respiro e sono entrata dalla porta che mi ha indicato il coreano ritrovandosi in un piccolo teatro che dava l’impressione di essere moderno e che era pressoché vuoto se non fosse stato per tre persone sedute sedute sulle poltrone in prima fila.

Credevo che l’uomo che mi aveva accompagnato se ne sarebbe andato invece, con mio grande rammarico, si è seduto nella poltrona vuota accanto ai tre.

Ho incassato la testa nelle spalle rendendomi conto di aver andato a quel paese uno di coloro che avrebbero deciso del mio futuro.

Facendo buon viso a cattivo gioco sono salita sul palco e la canzone che avevo scelto di cantare è partita ed io le sono andata dietro dimenticandosi di essere su un palco e di avere altre persone ad ascoltarmi.

Ho finito di cantare e ho riportato gli occhi ai giudici i quali mi hanno guardata senza dire nulla. 
Ho ghignato fra me e me sapendo di averli stupiti. Di certo non si aspettavano una voce così potente da una ragazzina bassa, paffutella e chiassosa.

Uno dei giudici ha preso in mano un microfono e mi ha chiesto: 
“Ok, hai davvero una voce interessante ma… dicci un po’: perché vuoi entrare nei BTS?”

E a quel punto avrei voluto dargli milioni di motivi: avrei voluto dirgli che era perché amo cantare, perché volevo che il mondo conoscesse la mia voce, perché volevo assicurare ai miei futuri figli un buon futuro, perché volevo finire di pagare il mutuo dei miei genitori, perché volevo baciare Rap Monster, per la fame nel mondo e per decine di altre cose sensate ma alla fine l’unica cosa che sono riuscita a dire è stata: 

“perché no? E poi il numero sette è dispari e a me i numeri dispari non piacciono. Se fossimo in otto sarebbe tutto più simmetrico.” 

E giuro che avrei voluto colpirmi in testa con un martello. 

Sono tornata a casa sconsolata pensando di non essere stata scelta eppure non riuscivo a staccarmi dal telefono aspettando la chiamata che avrebbe cambiato la mia vita. 

La suddetta chiamata è arrivata due settimane dopo e, contro ogni previsione, sono stata selezionata fra quindicimila ragazze per fare parte dei Bangtan Boys. 

Ho cercato di mantenere la voce calma fino alla fine della chiamata ma non appena ho messo giù mi sono scatenata correndo a preparare i bagagli per trasferirmi a Seoul. 

Se nel viaggio precedente sono stata assillante con le hostess, nel secondo lo sono stata il triplo. Tali erano la mia euforia e la mia agitazione che non riuscivo a stare ferma e buona per più di trenta secondi; ho richiesto e bevuto dieci bicchieri di aranciata solo nelle prime tre ore di viaggio. 

All’arrivo sono stata praticamente cacciata dall’aereo ma non me la sono presa, io stessa non riesco a 
sopportarmi a volte.

Ho recuperato il mio bagaglio preparandomi psicologicamente al terribile traffico di Seoul e al fatto che avrei speso tutti i soldi che avevo in taxi. 

Mi è quasi venuta da piangere quando, all’uscita del gate, ho visto un tizio un giacca camicia e occhiali da sole che teneva un cartello col mio nome sopra. 

Con le lacrime agli occhi mi sono avvicinata e, abbandonando il mio bagaglio, gli ho circondato braccia e petto in un unico abbraccio stringendo forte a lui. 

“Oh James” mugolo ritirando fuori la mia abitudine di affibbiare nomi con la J a chi non conosco “sei venuto a prendermi” 

L’uomo, che non si era professionalmente mosso di un centimetro, si limita ad abbassarsi ,piegando le ginocchia, e a prendere il mio bagaglio tirando lo su con una facilità incredibile considerando che è quasi più alto di me (non che ci voglia molto eh!). Una volta che si è assicurato in mano il mio vailgione,  mi ha agganciato il braccio libero -non dalla mia stretta- attorno alla vita e, alzandomi di peso, si è incamminato verso l’uscita. 

Ho squittito quando mi ha sollevata da terra, sono molto insicura del mio corpo quindi non permetto mai a nessuno di prendermi in braccio. 

Dopo il momento di smarrimento iniziale ho agganciato le gambe al Busto solido di ‘James’ e ho liberato le sue braccia spostando le mie intorno al suo collo, ritrovandosi davanti il suo viso dalla pelle scura come i suoi occhiali e la sua testa pelata. Il suo cranio era talmente scuro e lucido che mi ci sarei potuta specchiare. 

L’uomo, sul quale ero arrampicata, si è diretto verso una grande macchina nera, ha aperto il bagagliaio e vi ha gettato dentro la mia valigia. Per un attimo ho pensato che volesse mettere anche me nel bagagliaio invece, dopo averlo chiuso, ha aperto la portiera posteriore e mi ha dato un colpetto sulla schiena per farmi scendere. 

Sono salita sull’auto e siamo partiti verso una meta a me sconosciuta. 

Invece di portarmi direttamente alla mia nuova casa, James mi ha riportata alla sede della BigHit. Appena sono entrata sono stata travolta da uno sciame di stilisti e truccatori che mi hanno rivoltata come un calzino, poi sono stata spedita in un’altra stanza dove sono stata accecata dai flash. 

Sono stata fortunata che nessuno in quella stanza parlasse italiano, perché la quantità di parolacce che ho detto, mentre sorridevo amabilmente ai fotografi, avrebbe fatto impallidire il peggior scaricatore di porto. 
Solo in un secondo momento mi sono accorta di avere i BTS a due passi. 

Per poco non sono svenuta nel ritrovarmi davanti tutti e sette con dei bei sorrisi cosi… reali! 

Cazzo! Avevo i Bangtan Boys a due passi da me! 

Mi sono auto-imposta un po’ di controllo e ho preso un profondo respiro prima di iniziare a stringere mani e sorridere dolcemente. 

Per tutta la conferenza stampa non ho capito un tubo. 

Parlavano tutti in coreano e l’interprete che mi avevano assegnato parlava con un accento talmente strano che ero obbligata a farmi ripetere le domande diverse volte. 

Non ricordo molto di quella giornata, ricordo solo che sono stata sballottato da un photo shoot a un intervista (in cui non capivo nulla) senza un attimo di respiro. 

Era già buio fuori quando mi sono ritrovata in macchina con il mio amico James-la-guardia-del-corpo-che-non-parla. 

“Hei!” ho iniziato sperando che parlasse un minimo di inglese “come ti chiami?” 

L’uomo di colore mi ha lanciato un’occhiata dallo specchietto retrovisore. 

“Willson” sono rimasta piacevolmente sorpresa dalla risposta. 
Ho storto un po’ il naso. 

“Willson” ho detto rigirando il nome sulla lingua è soppesandolo. “non è un nome da guardia del corpo” ho protestato debolmente pensando che quel nome però gli si addiceva, tutto sommato. 

La guardia del corpo non ha risposto nulla continuando a continuando a guidare ed io ero troppo stanca per continuare a tenere gli occhi aperti, quindi mi sono lasciata andare crollando addormentata sui sedili posteriori di pelle dell’auto di Willson. 
   
 
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