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Autore: Le VAMP    20/05/2018    0 recensioni
[Aria\\\'s Story]
Quell’infame mietitrice che non si cura di nessuno, dal mantello cucito dalle più oscure notti senza luna, con quella falce argentata privò uno stelo del suo bocciolo prima che questo potesse germogliare in primavera: così, ripensando alla meraviglia perduta di quel bocciolo, un giovane scrittore si struggeva, sacrificando la sua mano.
[“E se mi abbracci non ti stanchi di giocare,
così riesci a far morire un uomo
Con l'innocenza del pudore che non hai”
- Tan Sólo Tú/Sei solo tu, Nek, 2002]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Quell’infame mietitrice che non si cura di nessuno, dal mantello cucito dalle più oscure notti senza luna, con quella falce argentata privò uno stelo del suo bocciolo prima che questo potesse sbocciare in primavera: così, ripensando alla meraviglia perduta di quel bocciolo, un giovane scrittore si struggeva, sacrificando la sua mano.
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Finalmente ho ripescato un brano del ventunesimo secolo
Premessa:
Esatto, in realtà è una canzone italiana. Se ho preferito il lyrics spagnolo, o per lo meno queste poche parole (che non avevo nemmeno idea che Nek elaborasse canzoni anche in spagnolo) non è né per completare la collezione di brani in lingua che sto raccogliendo con le storie (dovrei farlo però, deve essere figo), e nemmeno perché “me duele el corazón” sia meglio della nostra versione originale, ma perché credo che in qualche modo le frasi costruite, soprattutto per il ritornello, siano più significative per dare un senso tragico alla canzone e a questa storia in particolare.
Ho detto “tragico”? Eheh...
Naah, in fondo questa non è nemmeno una song-fic a tutti gli effetti (almeno per come intendo “song fic”) :)

 

Viviendo en mi” – Ovvero come la morte tarpò altre ali

Tan sólo tú viviendo en mí 
siempre tú para mí
Tan sólo tú
y dime que yo también
para ti seré

Era già capitato una volta che tentasse d’eliminarla, strapparne le ultime radici ogni qualvolta cercassero di aggrapparsi alle vene e arterie per far sì che riprendesse a sanguinare: non aveva idea di quanto vasta e profonda fosse tale ferita, ma l’impazienza ch’aveva di distruggerla si faceva più imponente, lasciandosi poi ferire ancor di più da questa pessima consigliera; ed era il motivo per cui gli altri compagni ebbero tale terribile idea.

Aria era stata la sua prima amica.
Ognuno di loro, in quel piccolo team, veniva da una realtà in cui la solitudine era di fedele compagnia; ma talmente avida, si sa, che li allontanava dagli altri bambini. Poi, era venuto quel giorno in cui s’erano conosciuti in biblioteca.
Non c’era voluto molto affinché ognuno prendesse una parte da recitare, così divennero il bibliotecario, la narratrice, lo scrittore e la lettrice; quelle stesse parti che si erano costruiti da un bel gioco –l’idea era stata proprio di Aria, per convincere quella testa dura a farsi piacere almeno un po’ la biblioteca che in futuro sarebbe stata nelle sue mani– poi si cucirono addosso a ciascuno di loro, col filo teso dal tempo, e per alcuni, gli sforzi per immedesimarsi nella parte furono minori di altri, poiché in verità non gli serviva recitare. Quanto si mostrava vivace lei, già da allora.
Lo era molto spesso, anche quando si ritrovavano soli in quella stanza, e sedeva quieta e leggere su quella stessa sedia che ora Lewin osservava, prima che esclamasse d’improvviso verso il suo amico, con nuove luci agli occhi che si andavano a bagnare per colpa dei tragici finali che leggeva, alcune lamentele a riguardo.
Ricordava, a tal proposito, proprio quella prima volta che era accaduto. Quando aveva saputo che in realtà voleva divenire un vero scrittore l’aveva divorata la gioia –che bambina eccentrica–, e lo stesso pomeriggio s’erano trovati nella cameretta a confrontar di una breve storia ch’aveva ideato qualche giorno fa: non l’aveva mai vista tanto calma come allora, ma quando quella tranquillità tramutò i suoi sorrisi in lacrime di compassione qualcosa era accaduto al suo stesso cuore.
Cosicché, alla domanda che gli aveva posto: “Perché è finita in questo modo?”, egli non seppe rispondere diversamente dal sedersi al suo fianco, attendere che stesse meglio, e poggiarle la mano alla spalla come avrebbe fatto ogni buon amico.
«Non è così bella in fondo, non serve piangerci sopra»
Non l’avesse mai detto: il fiume straripò ancora. Farneticava tante cose; diceva che non era vero ed era tanto una storia incredibile quella che avrebbe voluto portarsi a casa il foglio e incorniciarlo in qualche modo, che avrebbe desiderato un suo autografo; ma che quel finale l’aveva commossa. Ne avrebbe voluto semplicemente uno migliore; era questo il desiderio ch’aveva espresso prima di scappare via, e tornare poi giorno dopo giorno. Lewin in fondo non avrebbe voluto che il discorso prendesse quella piega: s’ella avesse compreso che stava solo cercando di asciugar le sue lacrime forse non avrebbe reagito a quel modo. Era stata sincera, allora?
La risposta l’ebbe ottenuta anni dopo, proprio quella notte, l’attimo in cui per una seconda volta le rivelò di essere uno scrittore.
Quando aveva assistito alla rinascita di quel sorriso colmo d’entusiasmo, gli pareva particolarmente bella, e non ne comprendeva il motivo: probabilmente era lo stesso che gli aveva impedito di ucciderla.

Ah, se solo non avesse visto quella foto.
Com’era buffo sapere che con un solo colpo avrebbe mandato a monte tutto quello che con gli altri aveva costruito pur di non perderla, e poi nemmeno trascorse poche ore con lei aveva cambiato idea, di nuovo.
Già notava spesso quel cambiamento nella camera quando tornava ad essere l’unico rimasto, solo, circondato da quelle pareti che troppo gli parevano gelide dopo che veniva inondato da quel nuovo flusso di calore, come quando si pone la mano in acqua dapprima bollente e poi di temperatura mite, ma che la si percepisce più fredda di quanto non sia nella realtà: medesima sensazione che provava da bambino, ora vi dico, che da ragazzo questo getto diveniva sempre più gelato, poiché di mezzo c’era la consapevolezza della morte.
Ed il giorno passava e veniva la sera, e col buio che avanzava anche presto divenne tale la mente che cresceva nel silenzio che non si sarebbe più rinnovato.
Furono sufficienti poche parole a convincerlo, per ben due volte, a riportarla in vita: cominciando dai suoi compagni preoccupati, e poi l’argomento definitivo che sostenevano verso la fine di quel viaggio: “Se tornerà indietro con noi, potrà sostituirsi a lei”.  

Quello avrebbe eliminato ogni rimpianto che continuava ad accumulare.
Per ogni volta che non riuscì a ricambiar uno stupido sorriso, per ogni volta che tratteneva quei pochi istanti in cui scorgeva tristezza dal suo esile volto e non riusciva a consolar, per ogni momento in cui avrebbe potuto stringer di lei la mano e non ne teneva conto, dando fede al tempo che un giorno, sapeva, gli avrebbe suggerito esso stesso quando sarebbe stato il momento di farlo; ma quei segni non erano mai giunti.

E in quell’istante come allora continuava a fissar la sedia vuota su cui non poggiava nemmeno un’ombra, gli stessi pensieri si cambiavano tra loro nei tempi tanto simili erano le situazioni vissute, e nascevano dalle righe rimaste in sospeso da qualche mese di quella pagina sporca il cui titolo riportava: “Aria’s Story”. Ancora non riusciva a scrivere una dedica da poggiarle sulla tomba.  
Gettate lì a terra, da qualche parte, vi erano ancora le carte stropicciate su cui aveva imposto la propria ira: erano storie destinate ad una speranzosa conclusione che nella verità non sarebbe stata mai raggiunta, poiché la protagonista di tali novelle era già deceduta dapprima che queste potessero cominciare; così venivano spazzate via.
Una di queste parlava del suo futuro lavoro: non era difficile da immaginare. Sarebbe stata una grande critica, una di quelle a cui tanti altri lettori si sarebbero affidati.
Ne aveva immaginate molte si scene simili tra loro: per certo l’avrebbe vista, in quel futuro, correre via da una parte all’altra di lunghi corridoi di una libreria alla ricerca dei fogli persi, magari alla ricerca di un paio di occhiali da lettura, che avrebbe confuso col paio di Dahlia? Ebbene, non se ne sarebbe stupido: Aria a volte sapeva essere particolarmente sbadata.
E poi, ancora, come sarebbe fiorita nella sua gioventù?
Non riusciva ad avere tanta fantasia a proposito; la immaginava più alta probabilmente, coi medesimi lunghi capelli che aveva prima, coi medesimi occhi gentili, e col medesimo sorriso. Ma allora, cosa sarebbe cambiato?
Ci aveva pensato a lungo un giorno: la voce. Sarebbe maturata bene quella voce, sì, meno acuta di quanto non fosse prima trasformandosi nella meravigliosa voce d’un angelo.
In quel bel futuro poi immaginava tutti assieme lì che si continuavano a riunire per i loro studi –che scelte avrebbero preso su quelli?
– e poi perder tempo con i giochi come facevano una volta.
Forse un giorno di quelli sarebbe riuscito a batterla a scacchi, e di certo ella non avrebbe risparmiato sui sorrisi d’orgoglio.
E ancor gli venne in mente d’improvviso il pomeriggio in cui aveva tentato come un folle avventuriero di scriver su qualcosa di sconosciuto, uno strano argomento –forse l’unico con cui non riusciva a descriver con parole–, derivato da un altro ricordo: avendo sentito strani rumori provenire dai corridoi più bui della biblioteca i due s’erano allarmati. Dahlia non era con loro e Clyde troppo indaffarato, poiché quel giorno doveva esser presentato un nuovo libro e la folla chiedeva attenzioni, così li ebbe mandati a controllare pensando che qualche tana di coniglio desse problemi alle librerie –a tal proposito Aria s’era procurata perfino una carota con cui attirar le bestiole–, tuttavia quando s’affacciò furtivamente per cercar di non spaventare i conigli qualcosa l’aveva fatta sobbalzare, e com’era rossa in viso!
Curioso di tal reazioni tentò di veder anch’egli, ma la compagna glielo impedì. Riusciva a cogliere le continue domande ch’ella si poneva: “Che fare? Che fare? Sarà giusto interromperli?”
E pensando che si riferisse a qualche coniglio, non sapeva nemmeno poiché se ne preoccupasse a tal punto da ignorare i suoi amati libri.
«Non ti importa di tutti i libri che potrebbero rovinare?»
Al ché la ragazzina chinò appena il capo, congiungendo gli indici in un segno di perplessità
«Sì, però...»
Lewin sfruttò quell’occasione per superar l’ostacolo e poter finalmente venire a conoscenza di quanto stava accadendo: assistendo a ciò per la prima volta ne fotografò alcuni istanti che, sapeva, non sarebbero più sbiaditi dalle sue memorie. E le pupille si fecero più vivaci, e la sorpresa non gli impedì di tener, anche se per un tempo assai breve, appena dischiuse le labbra, prima che tutto ciò venisse distrutto da una specie d’innata disapprovazione.[1]
Anzitutto poté attestare che non si trattava di conigli, ma di due studenti del sesto anno che avevano ben deciso di usar una delle librerie come sostenitrice dei loro scambi d’amor appassionato e vivace, descritto da famelici baci, e abbracci tanto furenti che nemmeno le loro gambe riuscivano più a sostenerli, tant’era che s’appoggiavano a quella povera libreria! Alcuni dei libri erano a terra.
Fu distratto dall’amica che accennava a sogghignare, mentre affermava quell’ovvia constatazione: per l’appunto non erano affatto dei conigli.[2]
Ci volle poco perché riacquistasse i suoi freddi atteggiamenti che per un attimo credeva d’aver perduto, e s’avvicinò ai due intrusi che quando s’accorsero della sua presenza sobbalzarono come prima loro avevano fatto.
«Prima di tutto vorrei farvi notare che siete in un luogo pubblico, e poi quest’area della biblioteca è chiusa: vi pregherei di tornare al piano inferiore»
Lewin era inflessibile. Braccia incrociate, petto in fuori e mento in alto; sembrava voler porsi come un genitore che educava i propri ragazzi. Come fu buffo veder poi quegli impetuosi giovani comportarsi come due buoni scolaretti, che immediatamente si separarono, scusarono –con i dovuti inchini!– e fuggirono pieni di vergogna dagli occhi dei due ragazzini che erano venuti fin lì per rimproverarli.
Prima che scomparissero, Aria aveva notato di più. Lo faceva sempre oramai, Lewin ne era abituato: aveva visto degli occhi insaziabili, ch’attendevano di riprendersi quell’attimo che gli era stato rubato, e dei piccoli sorrisi in loro che la dicevano lunga sull’oggetto dei loro desideri nascosto da quel rinnovato senso del pudore rivelato dalle loro guance: fu questo che la spinse a seguirli con lo sguardo, fino a sorridergli a sua volta da lontano, quando non poté più raggiungerli.
«Oh, che carini!»
Non fu dello stesso parere il suo compagno, che invece già era tornato ai suoi sbuffi facendole notare il disordine ch’avevano fatto –probabilmente presi così alla sprovvista si erano dimenticati di sistemare i numerosi libri caduti a terra, lasciando a loro tutto il lavoro–, cui l’altra rispose ponendogli una domanda nascosta da un finto sospiro che mascherava la sua inspiegabile gioia:
«Perché devi fare sempre il difficile?»
Aveva perfino scosso il capo!
Se solo avesse saputo delle mille domande e dubbi che l’avevano investito da allora...sì, credeva che il suo turbamento in fondo era giustificato.
Ciò che aveva cominciato a chiedersi il ragazzo, sin dal primo istante ch’aveva avvistato quei comportamenti nuovi e strane pose, se in futuro anche per loro sarebbe accaduto lo stesso.
Lewin in fondo era un giovinetto curioso, ed il pomeriggio successivo all’accaduto, pronto con carta e penna alla mano, aveva deciso di serrar le palpebre per un istante e approfondir anche di poco l’idea che voleva nascere su quel tipo di abbracci e affanni.
S’erano formate poco alla volta immagini che non dovevano esser viste, così come la silenziosa camera si riempiva di suoni cui non si doveva riempire; allora quando si destava da tali sogni tanto confusi s’avvicinava al foglio col groppo in gola, inghiottiva qualcosa, e poi con la carta ancora bianca d’inchiostro ma già impregnata di nuovi sensi che imprimevano quelle dita sudate veniva gettata via senza nemmeno venir utilizzata, trattata al pari di un ridicolo fazzoletto.
Per quello sarebbero bastate le sue fantasie, se mai le avesse liberate.

Eppure, tornando a quel terribile e nostalgico dì, ebbe maledetto i cieli per avergli impedito di giungere a quei giorni in cui avrebbero rubato il nascondiglio dei due studenti.

Quel groviglio di rimpianti e depressione in verità cresceva giorno dopo giorno. Da quasi un mese era parte della sua vita, divenendo una voragine sempre più grande ch’inghiottiva non solo foglio e calamaio: ben presto la fame venne meno, e poi il sonno, perché spendeva molte ore delle sue giornate a macchiare il bianco di nero e poi accartocciare e buttar tutto via alla prima insoddisfazione, al primo errore irreparabile, al primo tentativo d’approcciarsi con quell’emozione che gli era sconosciuta chiamatosi “felicità”, e quando sentiva di esser giunto al bilico di quel profondo crepaccio allora andava a raccogliere materiali e libri alla biblioteca in cui vi trovava i compagni. Faceva il possibile per evitarli: dar risposte alle loro domande sarebbe stato frustrante poiché da tempo non riusciva ad averne nemmeno per se stesso, e di quelle ne era avido.
L’ultima cosa che sapevano delle sue intenzioni era quella di scrivere un libro sulla loro amica perduta: se non fosse stato per quella nuova speranza che ricercavano da giorni avrebbero interrotto l’affranto scrittore da molto tempo prima.
Ciò che speravano era di far più in fretta della morte che vegliava attentamente il loro compagno. Dal viso pallido e gli occhi divenuti minuscoli, tanto era fatta flaccida e rugosa la pelle sotto questi...oh, era da quell’istante che i due si erano decisi a cercare quell’insidiosa scorciatoia.

Quella era la notte in cui era successo.[3]
Era sicuro perlomeno che lo fosse: da giorni che quella finestra non veniva aperta. Teneva una mano che forzava e torturava il suo capo a tenersi ritto, mentre l’altra trasformava ogni lettera scritta qualche ora prima in un semplice scarabocchio, e dei tanti segni che cominciò presto a segnar con frenesia c’erano tante di quelle macchie nere che rendevano la carta più umida e fragile.
Un’altra goccia.
Un’altra goccia ancora!
La sua mano fu strappata via dal braccio.  
E ancora la pupilla divenne vivace, lo sguardo attento, e cominciò a contar i minuti che passavano da quando il rosso crescente nel polso diveniva nero; come nera continuava a esser la camera che non gli dettava più alcuna speranza.
Allora, lasciò finalmente andar il suo capo, sbattendo contro il tavolo in legno mentre veniva svuotato d’ogni lacrima accumulata nel corso del tempo.
Con quelle bugie non riusciva a tener tranquilli né i suoi zii, tantomeno i compagni che continuavano a chieder di lui, e ancora meno se stesso.
Tanto, non sarebbe più tornata.
Senza che potesse renderne conto, poiché s’era abbandonato ad un sonno profondo essendo troppo stanco per soffrir ancora qualche ora in più, qualcosa stava soffiando alle sue spalle, ed una voce che avrebbe riconosciuto fra mille continuava a ripetere parole che venivano confuse dal vento che dominò la stanza decorando con aria da neve il buio in cui questa era immersa:
«Non ho bisogno di questi finali»
L’istante in cui si risvegliò turbato quella gelida brezza era scomparsa, ma la fiamma della candela che aveva illuminato la scrivania per tutta la notte continuava a danzare ancora per poco, prima che la cera si consumasse del tutto.
Seppur chiusa, dalla finestra si scorgevano degli spiragli di luce: ora sapeva con certezza che s’era fatto giorno, la casa continuava ad esser deserta.

Prima che calasse il sole s’era recato nella biblioteca delle meraviglie, e quando fu vito in quelle condizioni dai compagni continuavano a rinnovar quel senso d’amicizia che li aveva tutti legati poiché si precipitarono a sorreggerne il corpo morto prima che cascasse a terra, tra gli sguardi perplessi di alcuni lettori che s’erano distratti per osservar quella scena di soccorso.
Così si rifugiarono al piano superiore, dietro al bancone dove lo fecero seder e si preoccuparono di trovare le bende per quella bolla scura che si poneva tra polso e dorso.
Per la prima volta, dopo giorni di solitudine, s’era ricordato di come sorridere.
Passarono l’intero pomeriggio a discutere sulla nuova storia di Aria che aveva in mente di scrivere e non aveva più nulla a che fare con quella dolorosa dedica: quella sarebbe stata scritta dalla mano di Clyde, che reggeva una penna dalla piuma dorata, tracciando su nuovi fogli le parole di Lewin.  
Egli aveva in mente di cominciarla in tal modo: «Aria si sveglierà in una nuova biblioteca, ma questa sarà magica: i libri le parleranno»
«Vuoi che sia...in un posto diverso?» non scrisse ancor nulla: prima aveva dato priorità a quella domanda. 
«Non ha più nulla a che fare con questo mondo»; eppure Clyde non tracciava alcun segno. Ci stette a pensare a lungo, prima di indirizzarlo verso una controproposta:
«E se cominciasse qui la sua storia, e poi dalla nuova biblioteca cercasse di tornare al nostro mondo? Dopotutto le piacevano le storie d’avventura, no?» e con quel riso con cui trattava i suoi affari come un buon mercante vendeva la sua roba, evocando i ricordi della loro amica, riuscì a convincerlo su quel particolare.
Si diedero molto da fare per l’invenzione dei nuovi corridoi e aree da creare: commedie, favole, horror, ebbero perfino l’idea di inserire un piano sui libri romantici! C’era qualcosa che però mancava in tutto ciò, e fu Dahlia a prendere la parola a tal proposito:
«Aspettate! Saremo insieme a lei quando tornerà nel nostro mondo, vero?»
Ma se la risposta per il bibliotecario era sicura e quasi banale, non tanto lo era per l’infausto scrittore che d’un colpo solo era tornato mogio e pallido.
«Non so se dovrebbe tornare»
Prima che potesse terminar di guardar a terra quasi a voler osservare un’improvvisa ira nascente dai suoi piedi come le radici nutrono un albero, Dahlia dovette sentire ancora un’altra oscenità prima di intervenire:
«Non credo nemmeno sia giusto che ci ricordi» e non ebbe pietà di quella schiena ricurva come quella d’un vecchio, né del pallore ch’indossava la pelle, e nemmeno delle bende dapprima messe che coprivano l’oscuro segno della mano: al contrario la giovane rivelò ciò che erano i suoi reali pensieri
«Non ti sarai ridotto così credendo che fosse colpa tua, vero?
Tu potrai anche rinunciare alla sua amicizia se preferisci rimanere in questo stato, ma io non intendo farlo!»
A quell’impetuoso, nuovo atteggiamento della ragazzina nessuno dei due rimase indifferente, solo che uno, continuando a scrivere rapidamente qualcosa, non lo dava a vedere, mentre al contrario il compagno infortunato la fissò gelido.
«Perché continui a parlarne come se fosse viva? È morta ora!»
«Non dirlo» e così, Dahlia si coprì le orecchie
Per quella frase, il ragazzo si alzò: «Non tornerà mai più da noi!»
«Smettila!» ancora, scuoteva il capo: perché doveva ascoltar quelle parole?
«Dobbiamo rassegnarci, lo vuoi capire?»
Fu l’ultima volta in grado di dibattere il giovane Lewin, poiché uno schiaffo in pieno viso gli impedì di usar ancora le labbra. Così ebbe modo di affinare il proprio udito, per quelle dure parole della compagna con le quali si concluse la loro aspra conversazione:
«Perché non vuoi renderla felice nemmeno nella sua storia? Non può rimanere da sola per sempre in quel mondo, non se lo merita»  
Solo in quel modo, provando nuovo dolore, poté riflettere mentre continuava a far nulla, apprestandosi a guardar Dahlia lacrimare al cospetto del suo padrone, il silenzio, a cui prima aveva disobbedito.
Per un attimo poi quegli occhi si fecero vuoti e fissarono il nulla: fu un attimo solo, prima che li chiudesse e stette per cader addormentata.
Fortuna volle che Clyde lì vicino avesse i riflessi pronti per coglierla al balzo prima che si trovasse a terra, preoccupandosi invece di farla adagiare sulla sedia, stando ben attendo a trattarla con riguardo, mentre tentava di tener tranquillo il compagno rimasto desto
«Sarà stata la tensione. Non è abituata ad agitarsi così»
Lewin ebbe modo di dare un’occhiata al foglio: c’erano delle vistose correzioni ora, e delle frasi aggiunte ai margini.
«Niente di importante» gli aveva detto Clyde quell’ultima volta, ben attendo a mostrare quel sorriso rassicurante di cui andava tanto fiero «sono appunti che ho preso prima».
Alla fine avevano raggiunto un accordo: Aria sarebbe rimasta lì per sempre solo se si fosse ricordata di loro, ma se non li avesse riconosciuti e avesse potuto continuar la sua vita anche senza la loro compagnia, allora ci sarebbe stato un lieto fine.

Poi s’era risvegliato nella loro biblioteca, nuovamente al buio. Quelle tenebre lo confusero, poiché credette che quella giornata appena trascorsa fosse solo un sogno, e che in realtà nulla fosse cambiato dalla notte precedente in cui aveva perso l’uso della mano.
Ah, la mano! La vide: era stata curata. Questo voleva dire che aveva avuto modo di incontrarli...
Ma allora, perché all’improvviso era caduto addormentato?
Decidendo di vagar in giro per cercare l’uscita si rese presto conto che tutte le porte erano chiuse, tranne una: lì comprese qualcosa di terribile.
In quel immenso portone che si stendeva al di sopra del suo capo, in quel corridoio di cui non si vedeva la fine, Lewin riconosceva ogni dettaglio che aveva descritto di quella storia che avevano progettato insieme, e questo voleva dire che lei stava cercando la via del ritorno a casa.
Ma se c’era una cosa che aveva imparato, era che cambiare le sorti del passato, così come quelle di qualsiasi storia, voleva dire condurre tutto alla rovina; e gli venne in mente l’unico sciagurato modo per impedire a quella “Aria” di giungere fino a loro.

Quanto la odiava quei momenti in cui la seguiva –quasi non credeva che fosse solo una copia!–; l’adorava e la odiava allo stesso modo, perché altrimenti non poteva fare con quella che era la sua grande debolezza e che avrebbe finalmente estirpato dal cuor che già si faceva più rancido e duro.
Anche dopo che fu scoperto e costretto a viaggiare al suo fianco, più la vedeva essere in sé: spolverar scaffali e sorridere ai libri, e aiutarli con tanto affanno, più l’affetto ritornava e diveniva più forte dell’odio, e capì d’essere spacciato quando quel fuoco apparse ai loro occhi attorno al tavolo.
Poco alla volta si stava convincendo che forse aiutare la protagonista a riuscire nella sua impresa potesse dar vita a quel finale felice che tanto sperava di donarle, poiché forse si trattava della vera Aria, in fondo.
Peraltro i suoi dubbi, prima nati quando aveva visto Dahlia coinvolta nella faccenda –ebbe modo di porre fine ai loro malintesi tenendo per sé la sua identità, offrendole quella speranza di realizzare il desiderio che apparteneva a tutti: riscrivere Aria nelle loro vite–, s’erano chiariti quando trovò Clyde gestir anche quella libreria di fantasia, spiegando perché fosse accaduto tutto.
Per il suo stesso bene, e la serenità degli altri suoi amici, aveva architettato quel congegnoso piano che riguardava la creazione di una nuova Aria, e mai avrebbe permesso che questa sua copia potesse far danno nel loro mondo: prima doveva superare delle prove, e per tenerla d’occhio si sarebbe servito dell’attenta veglia di una Narratrice dall’animo nobile mascherato da un’armatura di ferro.
Tutto pareva andare per il meglio, e ci voleva così poco: questo finché ella stessa non aveva distrutto in pochi attimi tutte le loro speranze.
Lewin credeva di aver compreso tutto e accettando oramai la sua scomparsa; così, trascorso un anno, era giunto a scrivere il finale di quella storia: tornarono tristi ricordi alla mente, consapevole che avrebbe dovuto narrare il loro ultimo addio.
La mano che da lì a poco sarebbe stata privata delle bende già si mostrava tesa, come a temere il suo padrone.
Quella mano, unica testimone dei suoi deliri e unica sua sottoposta, da cui dipendeva l’esistenza delle storie che nella mente sua si elaboravano, gli stava domandando pietà. Quella mano l’aveva distrutta solo per colpa sua, Aria non c’entrava nulla, e probabilmente in quel momento lo vegliava per assicurarsi che non accadesse di nuovo.
La fortuna le fu amica! Si rivelò magnanimo nei confronti della sua povera mano.
Nel mentre però, la sua mente era una scapestrata bambina che preferiva vagar con i pensieri e tornare sempre alla sua cara amica, soprattutto mentre ripensava a quella bella voce che avrebbe avuto se fosse cresciuta: egli non poteva far a meno di credere che, in fondo, era vero che lei doveva essere proprio un angelo se per il suo finale felice desiderava la gioia di qualcun altro.
Porse un sorriso al raggio di luce ch’irradiava quell’ultima riga del foglio bianco, dove poi ci pose l’ultima parola con cui tutto sarebbe terminato.
“Fine”

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In tre giorni me la sono cavata, non male.
Ammetto che scrivere tenendo questa canzone in considerazione non è stato semplice: c’è stato dietro un lavoro sull’interpretazione per non considerare la cosa in maniera troppo banale.
Questi sono quei tipi di storielle che mi vengono da un paio di complessi fatti giusto per gasami un po’, che non comunicano nulla di importante, e che poi alla fine cambio tutto per costruire qualcosa di decente.
L’idea è partita quando, risentendo questo brano dopo anni (davvero, dopo anni anche questo –in fondo è anzianotto–) ho iniziato a immaginare roba di quello che sarebbero stati questi due fanciulli finché non ho pensato a un finale che cominciava a dirmi qualcosa: la sedia vuota.
Da qui ho cercato di sviluppare meglio il tutto.
Con quella frase bella: “E poi sai fare morire un uomo”, cioè lo fa crepare. Schiatta.
Che mai capirò che mi rappresenta questa ‘innocenza del pudore’.
Questo applicato a loro mi fa ridere. No, davvero, immaginate la cosa; non se po’ proprio sentì: questa frase tanto accattivante; una frase che intriga, poi ti ritrovi questi marmocchietti. Eh già.
Ma la canzone in sé comunque l’ho sempre apprezzata: la parte alla chitarra non mi dispiace e nemmeno le strofe, forse hanno un po’ esagerato verso la parte finale (inteso magari come melodia a un certo punto...non so, troppo “pompata”), ma non la trovo affatto male davvero.  

Comunque la cosa che ho voluto fare qui alla fine non era nemmeno troppo legata alla canzone, che in sé non ha nulla di particolarmente speciale, soprattutto per quanto riguarda il testo: due ragazzi che si piacciono e poi arriva l'innamoramento. Quello che mi restava da fare per personaggi come questi era reinventare il significato della canzone e provare a proporla in toni molto più malinconici (avete capito che con le storie tristi ci sto prendendo la mano, eheh) e nostalgici, con qualche insegnamento finale che non potrebbe mai mancare. Nemmeno se il più banale del mondo, il messaggio che si vuole mandare alla fine diventa sempre il nucleo di ciò che scriviamo, almeno così penso.

Qui ho preferito concentrarmi proprio su quella "banalità" che per loro viene a mancare, e come la morte difatti abbia privato ad altre vite di crescere, e mozzi le ali in questo caso a una ragazzina prima che questa potesse costruirsi il proprio futuro.
Poi entrano in gioco i rimpianti.

A proposito: il gioco sì l’ho apprezzato, un RPG tranquillo, anche se mi sono un po’ esaurita per colmare alcune lacune di trama tra cui di che morte è morta la fringuella –o meglio, dei paradossi– ci ho messo un po’... il punto era: se già aveva scritto la storia della libreria, la penna l’hanno data dopo? Oppure prima gli ha parlato dell’idea e poi l’ha scritta con quella penna? E come ha fatto quello lì a inserire anche loro se la penna non ce l’aveva più? Cioè: se le cose le aveva già scritte, poi vuol dire che sono state riscritte. Per non considerare del fattore slogatura, che sarebbe un altro evento da collegare cronologicamente.
Un po’ per rispondere a queste domande, un po’ per cercare di costruire un climax convincente, alla fine mi sono dovuta attenere alla prima soluzione narrativa che più o meno riuscisse a incastrare bene gli eventi (e le loro decisioni, visto che anche Lewin mi aveva confuso parecchio: prima era d’accordo? Sapeva delle intenzioni degli altri? E se lo sapeva, perché poi pensava ad ucciderla e poi invece si è convinto? Niente, l’unico espediente era che non sapeva delle loro intenzioni semplicemente)...un parto. L’importante è avercela fatta.   


 


[1] Consigliato l’intervento del commento musicale “Sei solo tu/ Tan Sólo Tú” in una cover strumentale e con la chitarra elettrica che propone la melodia portante

[3] Abbinato l’ascolto della theme principale del gioco



Secondo me nel finale hanno aggiunto troppa carne a cuocere; e non potevano risolverla in un mezzo dialogo come hanno fatto.
Se trattavano meglio l'argomento, magari spiegandoci anche la morte della vuagliona, e perché ci stava questo "desiderio" da parte dell'"autore" che non si ricordasse di loro.
Potevano gestirsela meglio, maronn.
__
Comunque tornando a parlare seriamente a proposito della struttura di questa storia: verso la fine non mi convince. Più che la fine, l'ultimo step che c'è prima: cercate di capire che oggi pomeriggio, arrivata a quel punto, mi stavo impanicando perché si stavano facendo le sei e ancora non avevo aperto un libro (considerate che oggi mi era venuto un lampo per cui avevo iniziato alle due e mezza e da pochi appunti poi alla fine ho concluso il tutto)..eh già. Credo di essere andata di fretta, e per questo seondo me poi il ritmo è troppo accellerato, sopratutto la parte in cui ci sta il confronto verbale tra i tre personaggi (cosa pensata al momento) che poteva essere curata di più. 
Sicuramente questo, assieme a Lonely Avenue, è un altro di quei testi che revisionerò e aggiungerò delle parti; che dire: metterò nelle note eventuali aggiornamenti (le note-autore le avevo scritte ieri quando ancora ero soddisfatta del lavoro che stava uscendo fuori, vi assicuro che rileggerle fatte queste considerazioni è triste). 

Continuerò a far ciò che posso per perfezionare questi lavori!
   
 
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