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Autore: alessandroago_94    23/05/2018    9 recensioni
603 d.C, Italia Settentrionale.
Rufillo ben sapeva che esistevano due realtà quasi contrapposte, due mondi distinti. Ciò che c’era al di là del Limes Tiberiacus, l’ultimo baluardo a difesa di quello che restava della romanità, era qualcosa di travolgente, nella sua immensa barbarie.
O, almeno, così era stato fin all’avvento della regina Teodolinda, prima sovrana cattolica dei Longobardi. Si diceva che ella amasse dedicarsi alla lettura.
Allora, l’ultima missione di una vita lunghissima e resa però resistente dalle continue e tanto desiderate privazioni, sarà quella di far giungere tra le mani di una regnante barbara un preziosissimo testo sacro, così che i suoi occhi così dotti potessero essere per sempre illuminati e guidati dalle parole che avrebbero influenzato per secoli la vita di milioni di persone.
Racconto classificato secondo (a pari merito con FatSalad, Le due cetre) al Contest In Medio Stat Virtus indetto da mystery_koopa sul forum di Efp.
Racconto vincitore di due premi speciali; Rivelazione maschile (miglior personaggio maschile) e Verità o Menzogna (miglior storia di genere giallo/thriller).
Genere: Avventura, Storico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Medioevo
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Capitolo otto

CAPITOLO OTTO

 

 

 

 

 

 

 

“Il problema essenziale, nelle questioni

storiche relative alla religiosità dell’alto Medioevo,

è senza dubbio costituito dal grande fenomeno della conversione

alla confessione cattolica romana dei nuovi popoli

venuti ad insediarsi sulle terre occidentali dell’Impero romano;(…)”.

Paolo Brezzi, Le conversioni dei barbari.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In questi ricordi ripieni di violenza, di diavolerie e di sete di potere, c’erano state cose che l’acuto monaco non era mai riuscito a capire totalmente. Ma il nocciolo della questione era che l’essere umano era stato plasmato da Dio, ma poi tentato dal demonio, per questo era così imprevedibile e così difficile, a volte, da comprendere fino in fondo.

Eppure tutta questa faccenda perdeva importanza di fronte a quello che stava per accadere. D’altronde, ciò che apparteneva al passato era giusto che restasse nei ricordi, senza influenzare il presente.

Rufillo smise di rimembrare e tornò coi piedi ben saldi sulla terra muschiosa che calpestava a passo spedito, nonostante il peso degli anni si facesse sentire su di lui.

Era finito il tempo in cui i Winnili avevano dovuto affrontare un lungo periodo senza autorità; oramai aveva un sovrano e un’amata sovrana, la cristianissima e cattolica Teodolinda, per la quale pregava ogni notte Iddio affinché la salute la preservasse sempre dalle malattie della carne e degli umori.

Adalberto era diventato un uomo forte e abilissimo nel combattimento, molto stimato ed amato all’interno della sua fara, e tenuto in grandissima considerazione anche dalla regina in persona. Infatti, negli ultimi anni, il ragazzo era riuscito non solo a contenere ogni flebile attacco greco, ma era addirittura giunto a saccheggiare tutti i centri abitati Romani lungo la via Emilia. Si era spinto fin verso il limite ultimo, oltre al quale non sarebbe mai riuscito ad andare, con le sue relativamente esigue forze.

“Dormi in piedi, fratello?”. La voce del Vescovo riportò il monaco alla realtà.

Rufillo neanche lo guardò, attento com’era al paesaggio circostante. La Selva Litana ormai era diventata una foresta che si espandeva dalle coste del mare di Ravenna fin oltre Mutina, e la sua omogeneità primigenia non lasciava sfuggire alcun particolare rilevante all’orientamento. Bastava seguire i resti dell’antica strada consolare, e orientarsi grazie alla conta delle rovine che si ritrovavano lungo il cammino.

Ed ormai il monaco avvertiva gli odori di un grande centro abitato, che dopo diversi giorni di cammino altri non poteva essere se non un avamposto longobardo.

“Fiuto l’aria, fratello”, rispose infine in tono molto confidenziale, “sono divenuto come un cane. Un cane fedele solo a Dio, e al buon uomo che gli allunga un pasto al giorno”.

“Queste terre puzzano solo di barbari. Come fai a distinguere queste belve? Tanto, si sa, compiono riti nella foresta e imprimono marchi infuocati sulla pelle dei prigionieri”.

Il monaco sogghignò amaramente alle parole del Vescovo, e socchiuse gli occhi. Se solo Massimo avesse potuto ripercorrere i suoi ricordi, e scoprire qual era il vero aspetto dei Longobardi… ma lui era un uomo che aveva sempre vissuto tra i Romani, nonostante tutto, e certe cose non poteva saperle.

“Se è per questo, bevono anche nei teschi dei nemici uccisi in battaglia”, aggiunse.

Il vescovo si lasciò sfuggire un singhiozzo spaventato.

“Stavo scherzando!”, ridacchiò il vecchio amico appiedato(1).

“Sono molto più simili ai Romani di quanto tu possa immaginare”.

“Io continuo a pensare che tutto questo sia una follia”, sancì frettolosamente l’interlocutore.

Rufillo non volle correggerlo; non ci provò neppure. Era consapevole che a breve avrebbe incontrato gli uomini dei suoi incubi, i barbari giunti dalle terre ignote per porre fine alla romanità, e quindi anche le sue maggiori paure.

E sapeva che, in qualche modo, la sua opinione su di loro sarebbe radicalmente cambiata.

 

Per il Vescovo di Nursia(2), non esisteva timore più grande di quel che stava per accadere. Anche lui nell’aria percepiva l’odore di qualcosa di nuovo, di sconosciuto e ignoto.

Non era mai andato al di là del Limes Tiberiacus(3), che delimitava il mondo romano da quello barbaro, dove le foreste dominavano ogni paesaggio. Era una realtà da brividi per uno come lui, abituato agli agi della vita ecclesiastica.

Eppure, Rufillo era così tranquillo; forse avrebbe dovuto imparare qualcosa da lui.

L’ansia lo pervadeva, così come essa stessa aveva irrigidito in maniera innaturale i loro pochi accompagnatori armati, che dovevano vigilare sulla loro incolumità, anche se era stato garantito che non sarebbe accaduto nulla.

Non sapeva quanto realmente crederci.

Per questo, l’unica cosa che poteva aiutarlo era parlare, non lasciando spazio al nervosismo e alla tensione crescente che in cuor suo voleva spadroneggiare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

 

 

 

(1)pare proprio che i Longobardi, durante il lungo nomadismo, perseguissero la tradizione di utilizzare i teschi dei nemici come se fossero attuali stoviglie. Ci ricavavano addirittura coppe. Tale usanza è divenuta ben presto conosciutissima nei territori appena conquistati, diffondendosi rapidamente anche grazie alla vicenda riguardante Alboino(se non la ricordate, consultate le precedenti note).

Comunque, dopo lo stanziamento in Italia, non risulta che i Longobardi avessero continuato a portare avanti tale tradizione; anzi, essi si adattarono molto rapidamente agli usi e costumi della nostra penisola, per questo ancora oggi molti storici li reputano “barbari non troppo feroci”(C. Azzara, L’Italia dei barbari, Il Mulino, 2002).

(2)Norcia all’epoca era già molto conosciuta, per tutto ciò che riguardava San Benedetto(sicuramente il santo che influenzò di più la cristianità in questo periodo storico).

Tuttavia, il centro abitato era qualcosa di davvero esiguo. Dilaniato tra Greci e Longobardi, i secondi l’ebbero vinta. Comunque, il nostro Vescovo era abituato agli agi dell’alto clero, quindi non ha mai realmente conosciuto la vita in queste realtà.

Ho ritenuto importante inserire, di tanto in tanto, brevi frammenti in cui appare qualche suo sporadico pensiero; infatti, il protagonista assoluto e indiscusso della vicenda resta Rufillo, ma mi sono chiesto cosa potesse pensare l’importante compagno di viaggio. Non solo, era anche colui che portava con sé anche un significato simbolico non irrilevante. Ho ritenuto corretto inserire qualche scorcio riguardante il suo pensiero, quindi. Anche per comprendere meglio la differenza di pensiero, tipica dell’epoca che stiamo affrontando.

Il motivo della grande complicità tra i due lo conosceremo a breve.

 

(3)il Limes Tiberiacus era un sistema di fortificazioni che attraversava l’odierna Romagna, separandola dal resto del settentrione, ormai in mano longobarda. L’odierna Faenza era uno dei capisaldi più importanti. Tale Limes si spingeva fin nel cuore dell’odierno Appennino Tosco-Romagnolo.

Sappiamo con certezza che i Longobardi riuscirono a violare molte volte queste fortificazioni, distruggendo intere città e giungendo a devastare anche l’importante porto di Classe(alle porte di Ravenna), però non riuscirono mai a sconfiggere definitivamente i Greci, fintanto che essi riuscirono ad opporre una minima resistenza.

Se andate a consultare una qualsiasi cartina dell’epoca, proposta su un qualsiasi libro di Storia, potrete notare che anche i territori bolognesi sono evidenziati come possedimenti bizantini. È corretto, naturalmente, ma va tenuto presente che, al di là del Limes Tiberiacus, era solo la popolazione locale a combattere contro i Longobardi, non ricevendo all’epoca più alcun rinforzo dai Greci.

Anche Bologna cadrà, poi, più avanti. Ma solo quando non ci saranno più occasioni di riscatto.

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Grazie mille, non finirò mai di ringraziarvi, miei coraggiosissimi lettori ^^

 

   
 
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