CAPITOLO OTTO
“Il problema essenziale, nelle questioni
storiche relative alla religiosità dell’alto Medioevo,
è senza dubbio costituito dal grande fenomeno della conversione
alla confessione cattolica romana dei nuovi popoli
venuti ad insediarsi sulle terre occidentali dell’Impero romano;(…)”.
Paolo Brezzi, Le conversioni dei barbari.
In questi ricordi ripieni di violenza, di diavolerie e di
sete di potere, c’erano state cose che l’acuto monaco non era mai riuscito a
capire totalmente. Ma il nocciolo della questione era che l’essere umano era
stato plasmato da Dio, ma poi tentato dal demonio, per questo era così
imprevedibile e così difficile, a volte, da comprendere fino in fondo.
Eppure tutta questa faccenda perdeva importanza di fronte a
quello che stava per accadere. D’altronde, ciò che apparteneva al passato era
giusto che restasse nei ricordi, senza influenzare il presente.
Rufillo smise di rimembrare e tornò coi piedi ben saldi sulla
terra muschiosa che calpestava a passo spedito, nonostante il peso degli anni
si facesse sentire su di lui.
Era finito il tempo in cui i Winnili avevano dovuto affrontare
un lungo periodo senza autorità; oramai aveva un sovrano e un’amata sovrana, la
cristianissima e cattolica Teodolinda, per la quale pregava ogni notte Iddio
affinché la salute la preservasse sempre dalle malattie della carne e degli
umori.
Adalberto era diventato un uomo forte e abilissimo nel
combattimento, molto stimato ed amato all’interno della sua fara, e tenuto in
grandissima considerazione anche dalla regina in persona. Infatti, negli ultimi
anni, il ragazzo era riuscito non solo a contenere ogni flebile attacco greco,
ma era addirittura giunto a saccheggiare tutti i centri abitati Romani lungo la
via Emilia. Si era spinto fin verso il limite ultimo, oltre al quale non
sarebbe mai riuscito ad andare, con le sue relativamente esigue forze.
“Dormi in piedi, fratello?”. La voce del Vescovo riportò il
monaco alla realtà.
Rufillo neanche lo guardò, attento com’era al paesaggio
circostante. La Selva Litana ormai era diventata una foresta che si espandeva
dalle coste del mare di Ravenna fin oltre Mutina, e la sua omogeneità
primigenia non lasciava sfuggire alcun particolare rilevante all’orientamento.
Bastava seguire i resti dell’antica strada consolare, e orientarsi grazie alla
conta delle rovine che si ritrovavano lungo il cammino.
Ed ormai il monaco avvertiva gli odori di un grande centro
abitato, che dopo diversi giorni di cammino altri non poteva essere se non un
avamposto longobardo.
“Fiuto l’aria, fratello”, rispose infine in tono molto
confidenziale, “sono divenuto come un cane. Un cane fedele solo a Dio, e al
buon uomo che gli allunga un pasto al giorno”.
“Queste terre puzzano solo di barbari. Come fai a distinguere
queste belve? Tanto, si sa, compiono riti nella foresta e imprimono marchi
infuocati sulla pelle dei prigionieri”.
Il monaco sogghignò amaramente alle parole del Vescovo, e
socchiuse gli occhi. Se solo Massimo avesse potuto ripercorrere i suoi ricordi,
e scoprire qual era il vero aspetto dei Longobardi… ma lui era un uomo che
aveva sempre vissuto tra i Romani, nonostante tutto, e certe cose non poteva
saperle.
“Se è per questo, bevono anche nei teschi dei nemici uccisi
in battaglia”, aggiunse.
Il vescovo si lasciò sfuggire un singhiozzo spaventato.
“Stavo scherzando!”, ridacchiò il vecchio amico appiedato(1).
“Sono molto più simili ai Romani di quanto tu possa
immaginare”.
“Io continuo a pensare che tutto questo sia una follia”,
sancì frettolosamente l’interlocutore.
Rufillo non volle correggerlo; non ci provò neppure. Era
consapevole che a breve avrebbe incontrato gli uomini dei suoi incubi, i
barbari giunti dalle terre ignote per porre fine alla romanità, e quindi anche
le sue maggiori paure.
E sapeva che, in qualche modo, la sua opinione su di loro
sarebbe radicalmente cambiata.
Per il Vescovo di Nursia(2), non esisteva timore più grande
di quel che stava per accadere. Anche lui nell’aria percepiva l’odore di
qualcosa di nuovo, di sconosciuto e ignoto.
Non era mai andato al di là del Limes Tiberiacus(3), che
delimitava il mondo romano da quello barbaro, dove le foreste dominavano ogni
paesaggio. Era una realtà da brividi per uno come lui, abituato agli agi della
vita ecclesiastica.
Eppure, Rufillo era così tranquillo; forse avrebbe dovuto imparare qualcosa da lui.
L’ansia lo pervadeva, così come essa stessa aveva irrigidito
in maniera innaturale i loro pochi accompagnatori armati, che dovevano vigilare
sulla loro incolumità, anche se era stato garantito che non sarebbe accaduto
nulla.
Non sapeva quanto realmente crederci.
Per questo, l’unica cosa che poteva aiutarlo era parlare, non
lasciando spazio al nervosismo e alla tensione crescente che in cuor suo voleva
spadroneggiare.
NOTE
(1)pare proprio che i Longobardi, durante il lungo nomadismo,
perseguissero la tradizione di utilizzare i teschi dei nemici come se fossero
attuali stoviglie. Ci ricavavano addirittura coppe. Tale usanza è divenuta ben
presto conosciutissima nei territori appena conquistati, diffondendosi
rapidamente anche grazie alla vicenda riguardante Alboino(se non la ricordate,
consultate le precedenti note).
Comunque, dopo lo stanziamento in Italia, non risulta che i
Longobardi avessero continuato a portare avanti tale tradizione; anzi, essi si
adattarono molto rapidamente agli usi e costumi della nostra penisola, per questo
ancora oggi molti storici li reputano “barbari non troppo feroci”(C. Azzara, L’Italia
dei barbari, Il Mulino, 2002).
(2)Norcia all’epoca era già molto conosciuta, per tutto ciò
che riguardava San Benedetto(sicuramente il santo che influenzò di più la
cristianità in questo periodo storico).
Tuttavia, il centro abitato era qualcosa di davvero esiguo.
Dilaniato tra Greci e Longobardi, i secondi l’ebbero vinta. Comunque, il nostro
Vescovo era abituato agli agi dell’alto clero, quindi non ha mai realmente
conosciuto la vita in queste realtà.
Ho ritenuto importante inserire, di tanto in tanto, brevi
frammenti in cui appare qualche suo sporadico pensiero; infatti, il
protagonista assoluto e indiscusso della vicenda resta Rufillo, ma mi sono
chiesto cosa potesse pensare l’importante compagno di viaggio. Non solo, era
anche colui che portava con sé anche un significato simbolico non irrilevante.
Ho ritenuto corretto inserire qualche scorcio riguardante il suo pensiero,
quindi. Anche per comprendere meglio la differenza di pensiero, tipica
dell’epoca che stiamo affrontando.
Il motivo della grande complicità tra i due lo conosceremo a
breve.
(3)il Limes Tiberiacus era un sistema di fortificazioni che
attraversava l’odierna Romagna, separandola dal resto del settentrione, ormai
in mano longobarda. L’odierna Faenza era uno dei capisaldi più importanti. Tale
Limes si spingeva fin nel cuore dell’odierno Appennino Tosco-Romagnolo.
Sappiamo con certezza che i Longobardi riuscirono a violare
molte volte queste fortificazioni, distruggendo intere città e giungendo a
devastare anche l’importante porto di Classe(alle porte di Ravenna), però non
riuscirono mai a sconfiggere definitivamente i Greci, fintanto che essi
riuscirono ad opporre una minima resistenza.
Se andate a consultare una qualsiasi cartina dell’epoca,
proposta su un qualsiasi libro di Storia, potrete notare che anche i territori
bolognesi sono evidenziati come possedimenti bizantini. È corretto,
naturalmente, ma va tenuto presente che, al di là del Limes Tiberiacus, era
solo la popolazione locale a combattere contro i Longobardi, non ricevendo
all’epoca più alcun rinforzo dai Greci.
Anche Bologna cadrà, poi, più avanti. Ma solo quando non ci
saranno più occasioni di riscatto.
NOTA DELL’AUTORE
Grazie mille, non finirò mai di ringraziarvi, miei
coraggiosissimi lettori ^^