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Autore: Shade Owl    27/05/2018    3 recensioni
La musica è un'arte, e chi la coltiva sa bene quanto sia complessa e gratificante. Un violino, poi, è tra gli strumenti più difficili di tutto il mondo della cultura sonora.
Questo lo sa bene Orlaith Alexander, che fin da bambina ha sviluppato un'autentica passione per il violino e la musica. Il giorno in cui Dave Valdéz, uno dei migliori produttori discografici di New York, scopre il suo talento, la sua vita cambia drasticamente, e da lì comincia il successo.
Tuttavia, il successo ha molte facce, proprio come le persone. E per scoprirle, Orlaith dovrà prima conoscere aspetti della sua musica che prima ignorava lei stessa...
Genere: Fantasy, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Epic Violin'
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Orlaith non dormì molto bene quella notte: si rigirò nel letto più e più volte, finendo col disfare completamente le lenzuola. Alle sei del mattino, quando ancora il sole non era sorto, finalmente si arrese e andò in cucina a farsi un po' di caffè.
Mentre aspettava che l'acqua bollisse osservò il proprio appartamento, stropicciandosi un occhio e ripensando ai suoi primi giorni a New York.
Quando Dave le aveva detto che, per facilitare i loro rapporti e avere più opportunità, avrebbe fatto meglio a trasferirsi nella Grande Mela, era stata presa da un attimo di spaesamento: non era mai uscita da Tresckow se non per qualche vacanza fuori città per vedere il Gran Canyon o qualche altro luogo turistico. Era una ragazzina di provincia, non aveva nemmeno compiuto i vent'anni e non era mai andata al college. Cosa ne sapeva lei della grande città?
Ma i suoi genitori l'avevano incoraggiata, e lo stesso i suoi amici, in particolare Annie: un'opportunità come quella non le sarebbe mai più ricapitata, e se ci avesse rinunciato senza fare neanche un tentativo se ne sarebbe pentita amaramente per il resto della vita.
Così era andata, più per evitare un rimpianto che per l'autentica speranza di combinare qualcosa o di sopravvivere in mezzo a tutto quel marasma, e adesso eccola lì a ripensare a quei momenti con tanta nostalgia.
Dave si era occupato di tutti i dettagli per la sua sistemazione, trovandole quel posto al sessantesimo piano della Beekman Tower, che all'epoca non conosceva minimamente. Quando lei e Dave erano arrivati fino lì ricordava di aver fissato l'enorme costruzione di acciaio da ben settantasei piani dal sotto in su a bocca aperta per un minuto intero.
La Beekman Tower non solo era alta, ma aveva anche un aspetto incredibilmente moderno, dalle linee ondulate e morbide che salivano verso l'alto come volute di fumo o i drappi di una tenda leggera. L'intera facciata sembrava increspata, scossa da un refolo di vento che la deformava appena, dandole un'aria estremamente elegante.
Inutile dire cosa aveva provato una volta entrata...
La torre comprendeva il New York Downtown Hospital, situato al livello del suolo; salendo invece c'erano delle scuole, ma la parte migliore erano le due piazze pubbliche, situate sui lati est e ovest della torre, anch'esse al pian terreno. Il resto era occupato da quasi novecento appartamenti.
Mentre salivano Dave le aveva spiegato che ogni unità abitativa, a causa del particolare design della torre, era unica nella forma, e che quindi non ce n'erano due uguali in tutto l'edificio.
Quando era entrata nel suo si era trovata davanti delle ampie finestre che gettavano luce su un pavimento di legno chiaro, mostrando la skyline di New York in tutto il suo splendore. A destra c'era il cucinino, e a sinistra la porta per la camera da letto. L'arredamento era in stile moderno, totalmente bianco o in legno chiaro laccato: un divano a penisola era stato sistemato davanti a un mobile su cui si imponeva un televisore piatto a quaranta pollici, e poco distante c'era un tavolo completo di sei sedie, subito prima della credenza per le stoviglie.
Nel cucinino, oltre ai normali scaffali e al ripiano di preparazione, c'erano gli elettrodomestici più importanti (frigorifero con freezer e macchina per il ghiaccio, forno, fornelli a piastra e lavatrice) a cui lei aveva aggiunto in seguito, con i primi guadagni, un microonde e un frullatore ultimo modello.
Col tempo aveva personalizzato l'ambiente, appendendo alle pareti una sciarpa della nazionale irlandese mentre in camera, sopra il letto, aveva messo la bandiera. C'erano anche quadri e disegni che rappresentavano il Piccolo Popolo, e i libri sugli scaffali erano tenuti fermi da statuine a forma di Leprecauni.
Aveva inoltre ricavato uno spazio nella (gigantesca!) cabina armadio che ospitava il suo (immenso!) guardaroba per conservare una piccola vetrina nella quale riponeva tutti i suoi violini.
Non ne aveva molti, in realtà. Uno era il primissimo violino che avesse mai avuto, così vecchio che ormai le corde e i crini dell'archetto avevano totalmente ceduto e la tastiera era tutta consumata. Era minuscolo, dato che lo usava quando era bambina (era di appena un sedicesimo), quindi non lo teneva perché pensava di poterlo usare ancora. Nel corso degli anni ne aveva acquistati altri sei, metà dei quali era stata già rivenduta durante la sua istruzione. Il motivo era che i violini, anche di quelli economici o di seconda mano, potevano costare parecchio, e la loro manutenzione richiedeva pazienza e attenzione.
Quelli che conservava là dentro erano anche quelli a cui si era più affezionata o che comunque usava ancora: uno era il violino che aveva suonato la prima volta che si era esibita in pubblico, a scuola, all'età di dodici anni; un altro era lo stesso che aveva con sé il giorno in cui aveva incontrato Dave fuori dal Miracle; l'ultimo, infine, era il violino che usava in quegli anni, un modello piuttosto costoso e moderno, il migliore che avesse mai avuto, con il ponticello, le fasce, il fondo e il manico in acero dei balcani e le parti della montatura in ebano, a parte la reggicordiera che era realizzata in osso. Era costato non poco, ma ne era valsa la pena.
Anche l'affitto dell'appartamento non era cosa da poco, ma lo pagava la casa di produzione: secondo Dave erano solo spiccioli, in realtà, soprattutto paragonati ai soldi che facevano con le sue esibizioni e i diritti sui brani, e che lei doveva considerarlo come un modo per sentirsi coccolata e per "convincersi a non lasciare mai la Lightning Tune Records". Quando avrebbe avuto la possibilità sarebbe stata liberissima di pagare tutto di tasca sua, se lo avesse preferito.
All'inizio le era sembrato grandioso. Ora, tuttavia, era solo un'altra fonte di preoccupazione: non scriveva nulla da mesi (o almeno, niente che David fosse disposto ad accettare), e se la cosa fosse proseguita troppo a lungo avrebbe perso non solo il contratto, ma anche la casa.
Mentre sorseggiava il caffè bollente appollaiata su uno sgabello, lo sguardo di Orlaith venne attirato dal telefono: era ancora presto, non erano neanche le sette del mattino, ma dopo le esperienze di quegli ultimi giorni aveva bisogno di sentire una voce che le fosse amica.
Resistette solo per qualche secondo, poi andò fino al divano e, acciambellandosi sui cuscini, prese la cornetta e compose il numero di suo padre

L'uomo rispose dopo alcuni squilli, in tono stanco e assonnato.
Aaah... pronto?- borbottò Connor Alexander, ancora mezzo addormentato.
- Ciao, papà.- disse Orlaith.
Sentendo la sua voce lui parve esitare per qualche momento, sorpreso dalla telefonata.
Orlaith? Tesoro, sei tu?-
- Perché, quante figlie hai?- ridacchiò lei, stringendo a sé la tazza mentre il sole, finalmente, iniziava a fare capolino oltre l'orizzonte e la barriera di grattacieli. Ecco un altro spettacolo, l'alba a New York.
No, è solo che... non ci sentiamo da mesi. Ultimamente ti limiti ai messaggi su Facebook e qualche sms ogni tanto...-
- Sì, è che... sai, sono molto occupata. David mi ha caricata di lavoro, non riesco a trovare molto tempo.-
Dovresti dirgli di andarci più piano, principessa.- disse in tono di rimprovero suo padre - Non sei una macchina. Anche tu devi riposare. Svegliarti a quest'ora...-
- No, stavolta è colpa mia... non ho dormito molto bene.-
Perché? Qualcosa non va?-
- Ecco...- come poteva spiegarglielo? - Non è facile.- ammise alla fine - A parte il lavoro, da un po' ho difficoltà a scrivere i brani. Sono in blocco, il migliore che mi è venuto è... troppo triste. Non è da me.-
Suo padre, grugnì, invitandola a continuare, e a quel punto il lago frantumò la diga.
- Ho perso i contatti con tutti... noi non riusciamo più a parlare, e non sento Annie da più di un anno... non mi diverto neanche più a suonare, ripeto i vecchi brani o suono quelli di qualcun altro da almeno sei mesi, e devo sorridere anche quando non ne ho voglia... in quattro anni non ho avuto tempo di fare niente, non ho uno straccio di vita sociale, e poi...- non sapeva come dirlo senza sembrare una bambina, ma non poté trattenersi - ... e poi ho conosciuto delle persone che non mi piacciono affatto, e uno è pure il proprietario della casa di produzione, e lo devo incontrare oggi pomeriggio, ma non ho voglia di andarci... però devo, perché è da lui che dipendo, e so che non gli piaccio...-
Si interruppe per strofinarsi gli occhi con la manica del pigiama, tergendosi le lacrime che in un momento non meglio precisato dello sproloquio avevano iniziato a colarle dagli occhi. Suo padre colse al volo l'opportunità di intervenire:
Allora torna qui.- disse serio - Monta sul primo aereo e vieni a farmi compagnia per un po'. Mi manchi da morire, e poi voglio che tu venga con me sulla tomba della mamma.-
Orlaith si lasciò scappare un ulteriore singhiozzo disperato a quel pensiero: la morte di sua madre.
Si era ammalata quasi un anno dopo che lei si era trasferita a New York. Nonostante le numerose analisi e gli accertamenti, i dottori non avevano mai capito cosa la affliggesse. All'inizio non sembrava essere una cosa grave, e anzi le avevano detto di non stare a tornare quando si era offerta. All'epoca lo poteva ancora fare.
Poi le cose si erano fatte più serie, e per ben tre volte l'avevano ricoverata. La prima era tornata a casa per due giorni, il massimo che era riuscita a concedersi. La seconda aveva convinto suo padre a portare il computer in ospedale e aveva parlato con la mamma via Skype, trovandola pallida e un po' smagrita, ma comunque sorridente.
L'ultima volta non era riuscita a telefonare prima di una settimana, ed era rimasta al cellulare per poco più di mezz'ora prima di essere costretta a riattaccare, promettendo di tornare a casa presto.
Una settimana dopo suo padre l'aveva chiamata per dirle che il suo cuore si era fermato. A rispondere era stata la segreteria.

Il resto della telefonata fu relativamente breve e si concluse con la promessa, da parte di entrambi, di risentirsi il prima possibile. Connor le fece anche giurare di prendersi alcuni giorni dagli impegni di star della musica per tornare a casa, pena il tormento eterno dei goblin.
Dopo aver riattaccato, Orlaith si fece una doccia bollente, scacciando così gli ultimi residui di sonno e i brividi e lavandosi via le lacrime dal viso. Si sentiva un po' meglio, adesso.
Dopo quanto successo alla mamma, il rapporto con suo padre era stato teso e freddo per molti mesi. Lei stessa si sentiva in colpa ancora adesso per non esserci stata in quel momentocosì difficile, e solo dopo un lungo periodo erano riusciti a parlarsi di nuovo come prima. Era bello sapere di poterlo chiamare in caso di bisogno... sentirlo di nuovo vicino, anche se solo per telefono.
Alle nove Dave venne a prenderla per la registrazione di una traccia in collaborazione con i Doctors che sarebbe poi finita nel suo prossimo album (se mai fosse riuscita a inciderlo), cosa che si protrasse fino alle quattro del pomeriggio. Un'ora più tardi aveva l'appuntamento con Vaněk, nell'East Side.
La segretaria dell'affarista aveva contattato David la sera prima per prendere un appuntamento, che lui aveva confermato prontamente prima ancora di pensare di avvertirla. Il tutto si era svolto nella più completa esclusione, e quando lo aveva saputo si era sentita di nuovo spettatrice della sua vita.
Papà ha ragione... Pensò, mentre si avviavano in taxi fino al luogo dell'appuntamento. Mi serve una maledetta vacanza.
La società di Vaněk aveva sedi distaccate un po' in tutto il mondo, e lui non risiedeva a New York, pur avendo una casa lì (stando a quanto le spiegò Dave), di conseguenza la sede legale della compagnia era altrove, ma possedeva un ufficio nel Chrysler Building, dove si sarebbero incontrati.
- Ah, un'altra cosa...- aggiunse, mentre arrivavano in vista del grattacielo - Ha chiesto di vederti da sola. Io torno in studio.-
- Cosa? Come, da sola?- esclamò Oraith.
Quella era una completa novità per lei: perché non glielo aveva detto prima?
- Sì, qualsiasi cosa voglia dirti io non sono invitato.- rispose con leggerezza David, più interessato all'agenda elettronica che a lei - Tranquilla, non ti mangia.-
- Già, perché l'altra sera siamo diventati amiconi!- sbottò Orlaith - Grazie tante, Dave... proprio una bella giornata mi hai organizzato.-
- Oh, andiamo, piccola, domani sarà meglio... e per la prossima settimana ti ho procurato un ingaggio per il compleanno di un bambino.-
- Adesso suono alle feste per bambini?-
- Sì, se i genitori hanno un reddito annuo a sei zeri.- disse il produttore, strizzandole l'occhio - Tranquilla, starai sul palco, farai un paio di pezzi, augurerai buon compleanno, firmerai qualcosina e poi di nuovo a casa. E per il resto della serata ti libero da ogni impegno, contenta?-
- In estasi...- rispose senza passione lei.

Rimasta sola col suo violino, Orlaith alzò lo sguardo verso la cima del Chrysler, stagliato contro il cielo grigio e, soprattutto, i grattacieli che lo fiancheggiavano. Cercò di scorgerne la cima, ma rinunciò quando sentì una fitta di torcicollo. Una goccia d'acqua le cadde in mezzo agli occhi, facendole sbattere le palpebre per riflesso. Rapidamente, le gocce aumentarono, e nel giro di pochi secondi divennero una pioggia battente.
Individuò il riparo più vicino che non fosse il Chrysler Building (non aveva tanta fretta di entrare, a essere onesta), il piccolo antingresso del Grand Hyatt, e fece per correre da quella parte. Appena mosse un passo venne spintonata da un pony express che le fece perdere l'equilibrio. Cadde sul fianco, riuscendo a salvare il violino ma finendo in una pozzanghera accanto al marciapiede.
- Merda!- esclamò furiosa, ritrovandosi fradicia come un pulcino.
Il parka era zuppo, e la pioggia stava diventando più forte, neanche ce l'avesse con lei. Nel giro di pochi secondi fu più bagnata di quando era sotto la doccia a casa.
Si rialzò, furiosa e rassegnata al tempo stesso, e attraversò la strada strascicando i piedi non appena il semaforo glielo permise. Quando entrò nel Chrysler Building, stanca, gocciolante e avvilita, oltre che infreddolita, sentì di essere di nuovo a terra.

Povera, povera Orlaith... un periodo non proprio felice, per lei.
Ringrazio come sempre John Spangler, che mi segue. Vi anticipo che sto lavorando a qualcosa di nuovo e inedito, che spero di postare presto.
Alla prossima settimana!

 

   
 
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