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Autore: ___Page    28/05/2018    2 recensioni
«Allora, cosa mi raccontate?!» tiene un braccio sulle mie spalle mentre ci avviciniamo al tavolo. «Il lavoro? Il trasloco?».
«Abbiamo una piccola divergenza di opinioni sul citofono» racconta Ace con un sorrisone.
«Al lavoro tutto bene. Un po’ presi da un nuovo progetto. I Cloth Tattoo vanno alla grande».
«E al Castello?»
Law ghigna, come sempre orgoglioso del suo ospedale pediatrico.
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Ora al posto dello sterrato c’è una gittata di asfalto, per agevolare il transito di macchine e della linea di autobus che il comune di Raftel ha attivato apposta per collegare l’ospedale al centro città, ma, come quasi mai accade, non è una brutta visione. Questa strada è il preludio di qualcosa di così bello da rendere i miei ricordi su questa collina ancora più preziosi.
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«Oh santo…»
«Non t’azzardare» lo ammonisce la voce da dentro la maschera. «Pesa quanto me e caccia un caldo allucinante»
«E dire che sembra così confortevole» commenta bastardo Law.
«Grazie al cielo il resto del costume non mi va. Ma non si poteva dire ai bambini che il Dugongo Kung Fu si è slogato una caviglia. No. Perché avrebbero perso fiducia nelle arti marziali. Capisci, Law?! S’è slogato il cervello, altro che la caviglia!»
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altro Personaggio, Izou, Koala, Sabo, Sanji | Coppie: Nami/Zoro
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Lancio un’occhiata oltre il bordo del pc e faccio roteare l’anello a forma di sole intorno al mio anulare, prima di riprendere a digitare alla velocità della luce. E con un filo di forza più del necessario, forse.
Ma me li sento, i loro occhi addosso. Anche senza guardarli so che si scambiano occhiate tra di loro e ne lanciano a me, molto poco concentrati sul proprio lavoro.
Provo a ignorarli, con tutta me stessa ma è difficile. È difficile ignorare qualcuno con cui condividi un cubicolo poco più grande di uno stanzino per le scope e quel qualcuno si comporta come se fossi un candelotto di dinamite.
Molto, molto difficile.
«Okay adesso basta!» chiudo di scatto il pc. Usopp sobbalza e soffoca un mezzo gemito. Da Nami nessuna reazione registrata. «Finitela di fissarmi!»
Usopp sgrana gli occhi e improvvisamente sembra incapace di distogliere lo sguardo da me, constatazione che mi strappa una sospiro stanco.
«E-ehi ma io… io stavo notando che hai fatto crescere i c-capelli. Ti stanno bene! R-riesci anche a raccoglierli così?»
«Usopp» lo richiama Nami atona.
«Sentite, era precisamente per questo che non volevo dirlo così presto! Ma ho appena passato un weekend da panico, Sabo e Law non mi hanno lasciata da sola neppure mentre facevo la doccia e non mi illudo che stasera le cose andranno molto diversamente, quindi, vi prego, per favore, almeno mentre sono al lavoro, almeno voi, potete non trattarmi come se fossi una bomba pronta ad esplodere?!»
«Ma è quello che sei, Koala» mi fa presente Nami, pacata e ragionevole e dopo un momento di stupore mi rendo conto che ha ragione, che sono appena saltata in aria come un petardo. Nami sogghigna. «Meglio adesso?»
E io lascio andare un sospiro sollevato, la pressione che diminuisce mentre appoggio i gomiti al pc chiuso e la fronte sui palmi. «Sì. Scusate, è stato…»
«Intollerabile?»
«Da neuro?»
«Il weekend più lungo della tua vita?»
«Una cosa del genere» abbozzo un sorriso. «Non fraintendetemi, so di essere fortunata ad averli nella mia vita però…»mi interrompo, a corto di parole.
Non che servano. Sanno benissimo cosa cerco di dire e mi sorridono comprensivi.
«Tieni duro» mi incita Nami, sporgendosi appena verso di me. «Si calmeranno. Cioè, oddio, Sabo forse no ma tanto sta qui per poco. Mentre Law quando vedrà nero su bianco che è tutto okay comincerà a essere apprensivo solo per il bambino»
«Ah beh…» commentò tra il divertito e lo sconsolato.
«Dai è meglio di niente» insiste Nami con una risata che contagia anche me.
«Okay, okay, hai ragione» concedo, rovistando nella mia borsa alla ricerca di un fazzoletto.
Dopotutto, è come ha detto lui. Non posso pretendere che non si preoccupi per la sua famiglia. Il solo ripensare alle sue parole mi fa sentire come avvolta in una coperta, calda e al sicuro. È strano, non sono ancora riuscita a entrare nell’ottica, a concretizzare il pensiero astratto di me e Law che diventiamo a tutti gli effetti una famiglia.
E non perché finora non lo fossimo stati. Anzi, il punto è che lo siamo da sempre. Dalla casa-affido, attraverso le nostre adozioni, per tutti questi anni, siamo sempre stati una famiglia, in costante espansione. Ma una famiglia ben strana, atipica, senza alcun legame di sangue.
Finora. Ma ora c’è un legame tangibile, una creatura che avrà il sangue di entrambi, metà del mio D.N.A. e metà del suo. Di qui a pochi mesi diventeremo genitori ed è così str… Che… che cos’è?
La mia mano cozza contro qualcosa di rigido e squadrato, che non richiama nulla alla mia memoria tattile. Sembra la batteria portatile del mio cellulare, molto probabilmente lo sarebbe se quella non fosse già sulla scrivania, insieme al cellulare, appunto. Non è nemmeno la confezione di mentine, quella la tengo in una tasca esterna.
Afferro saldamente l’oggetto tra le dita e lo estraggo. Perplessa mi ritrovo a fissare una scatolina rettangolare e nera, con pochi pulsanti e uno schermo a cristalli liquidi stretto e allungato. Sgrano appena gli occhi quando lo riconosco e me lo rigiro tra le mani. Sul retro c’è appiccicato un post-it fucsia con scritto sopra “REPERTO C”.
Chiudo gli occhi rassegnata. Oh Eris! Proprio con il cercapersone dello zio, dovevi giocare all’archeologa?
«Ehi che succede?» domanda Nami.
«Il cercapersone di Law» spiego mentre mi alzo e raccatto i miei effetti essenziali. «Eris me lo ha messo nella borsa, devo portarglielo. Per fortuna oggi inizia dopo pranzo, ma portava Sabo a fare un giro al Castello, quindi devo andare comunque fin là» constato, lanciando uno sguardo all’orologio. «Prendo un’ora di permesso»
«Che?! No!» esclama Usopp, balzando in piedi. «Nemmeno per idea!»
Scambio un’occhiata incredula e sinceramente stupita con Nami che si stringe nelle spalle, altrettanto stranita.
«Perché?»
«Sei incinta! Non puoi nemmeno mettere piede in un ospedale pediatrico, hai idea di quanto sia alto il rischio biologico?!»
Sento i muscoli della faccia contrarsi in una smorfia disperata. Ti prego, anche lui no!
«Usopp…» lo imploro quasi. «Non anche tu…»
«Koala riflettici. Dovresti fare di corsa, ha iniziato già a fare un caldo cane e in un posto del genere basta uno starnuto. Non è saggio»
«Hai paura che Law ti vivisezioni per non averla tenuta qui con ogni mezzo possibile, vero?»
«Certo che sì!» ribatte con il suo tono da “non è ovvio”, lanciando a Nami un’occhiata da sopra la spalla.
«Oh santo cielo» impreco sottovoce, scansandolo per uscire dall’open-space ma ancora una volta Usopp  fa sfoggio delle proprie atletiche capacità e, non so come, mi si para di nuovo davanti prima che io possa andarmene.
«Ehi! No!» mi punta contro il dito, tenendo d’occhio ogni mio minimo movimento. «Non… Koala!»
«Usopp, fammi passare. Posso consegnarglielo anche senza entrare all’ospedale se è quello il problema. E comunque il rischio biologico non è così alto se non entro in contatto con i bambini!»
«Non mi interess… Ehi!» protesta contro il mio ennesimo tentativo di sgusciare via. «Smet… Glielo porto io!» esclama alla fine, prendendomi in contropiede.
Corrugo le sopracciglia. «Davvero?»
Ora, non fraintendiamo. Non mi sarebbe pesato andare al Castello e non è che non mi faccia piacere vederlo. Ma forse, e solo forse, sono lievemente in overdose dopo il weekend appena passato e l’idea di evitarlo fino a stasera e non rischiare un terzo grado anticipato – condito di rimprovero per essere andata al Castello senza precauzioni, in questo, lo ammetto, Usopp ha fatto centro – è più allettante di quanto mi piaccia ammettere.
Tutt’al più che, appunto, oggi portava con sé anche Sabo per fargli vedere i progressi dell’ospedale e, per quanto sia molto, ma davvero molto, felice di averlo avuto intorno e tutto per me per due giorni, se sento ancora un  “Koala non fare questo e non fare quello” potrei seriamente smettere di rispondere di me stessa.
«Certo che sì!» spinge il petto in fuori, le mani sui fianchi. «Non lo sai che ogni parola pronunciata dal grande Usopp Sharpshooter è una promessa?» si pavoneggia.
Ma a differenza del solito e per suo dissimulato disappunto, io, come nemmeno Nami, non mi metto a ridere. «Okay, grazie!» gli schiaffo in mano il cercapersone e torno a sedermi per lavorare alla campagna dei nuovi biscotti per bambini.
Usopp rimane immobile e interdetto, quasi che non capisse cosa gli ho consegnato. «O-okay» si riscuote dopo un attimo. «Allora… allora io vado a consegnare questo a…. a Law che vorrà sapere esattamente come stai e c-cosa stai facendo e me lo chiederà con la sua aria minacciosa, immagino e i-io…»
«Yyyyyy-HA!»
«Ci vediamo dopo!» smette di balbettare, arraffa le chiavi della Kabuto e si precipita fuori dall’open space prima che Iva arrivi a cercarlo.
Io e Nami ci concediamo una risata e scuotiamo entrambe il capo con affettuosa disapprovazione.
«Quando si dice prendere due piccioni con una fava, eh?»
«È un paraculo» ribatte Nami, ancora sghignazzante.
«Senti chi parla!» continuo a ridere.
«Potrei dire lo stesso di te, sai?»
«E lo prenderei come un complimento»
«Eccole qua, le mie tre punte di diam…» Iva fa irruzione nell’open space con la forza di un uragano ma si blocca di fronte alla scrivania vuota. «Che fine ha fatto naso-boy?»
«È dovuto uscire per un’emergenza, Iva»
«Ha detto che poi le segna come ore di permesso» spieghiamo, rilassate.
Ancora mi stupisce come siano cambiate le nostre interazioni da quando le abbiamo salvato posto di lavoro e chiappe, tre anni fa. Non che ce ne siamo mai approfittati, chiariamo, anche se certi giorni penso seriamente che dovremmo.
«Uhm» Iva schiocca la lingua, pensierosa. «Dovrò trovare qualcun altro da importunare allora. Ci vediamo, pasticcine! Yyyyyyy-ha!»
«A dopo Iva!» la saluto, pur sapendo che tanto non ci sta già più nemmeno prestando attenzione, e poi mi rigiro verso Nami, stavolta indagatrice. «E tu invece? Che succede?»
Si irrigidisce appena sulla sedia e fa un pallido tentativo di nascondere lo stupore ma le riesce male con me.
«Solo perché sono esasperata, non significa che non ho notato quanto sei tesa. E sei stata taciturna durante tutta la colazione. Non hai minacciato Izou nemmeno una volta»
Sospira, sconfitta da questa mia ultima, inconfutabile argomentazione. «Non so esattamente cosa succede» ammette e io mi acciglio. «Sono preoccupata per Zoro…»
Inarco le sopracciglia, sorpresa. Questa proprio non me l’aspettavo. Intreccio le dita e poso il mento sulle nocche, sporgendomi appena verso di lei. «Ti ascolto»

 
§

 
Tengo gli occhi fissi sulla strada quando Law imbocca il curvone, una strada che ho fatto tante di quelle volte in bicicletta, sulla terra nuda, zigzagando e annaspando per la fatica quando la mettevamo sulla competizione, pur di arrivare primo.
Ora al posto dello sterrato c’è una gittata di asfalto, per agevolare il transito di macchine e della linea di autobus che il comune di Raftel ha attivato apposta per collegare l’ospedale al centro città, ma, come quasi mai accade, non è una brutta visione. Questa strada è il preludio di qualcosa di così bello da rendere i miei ricordi su questa collina ancora più preziosi. Non sono parole mie, lo ammetto. È una citazione di Koala ma esprime alla perfezione come ci sentiamo tutti – io, Ace, Robin, lei e Law – al riguardo. Grazie al Castello, moltissimi bambini non verranno derubati della propria infanzia, così come non lo siamo stati noi.
«Grazie per avermi proposto di venire»
Law mi lancia una rapida occhiata, lo intravedo con la coda dell’occhio.
«Figurati. Sono contento che ti faccia piacere»
«Non ti ho mai ringraziato per esserti occupato della mia macchina» aggiungo, senza riflettere e stavolta Law si gira apertamente a guardarmi mentre entra nel parcheggio – quello sì sterrato – con la un tempo mia e ora sua Firefist blu.
«Non ti ho mai ringraziato per avermela lasciata» ribatte con un tono che so benissimo nascondere una domanda retorica. “Ma sei scemo?”.
E la risposta è: sì, sono scemo. Mi sto comportando in modo troppo strano, lo so anche io. Per dire, stamattina l’ho ringraziato per avermi lasciato fare la doccia e se continuo così finisce che mi tiro la zappa sui piedi.
Perciò ora, Sabo, è arrivato il momento di darti un contegno. Che nel mio caso significa sfoderare un sorriso smagliante e una faccia da culo e rispondere: «È stata dura separarmi da lei. Ma per te, questo e altro» gli do una pacca sulla spalla, fingendo un’espressione contrita e coraggiosa.
Law mi scruta ancora un istante e poi, per mio sollievo, ghigna. E vai così, che l’abbiamo scampata!
Mi sgancio la cintura che sta ancora facendo manovra e salto giù dalla macchina, gli occhi puntati alla struttura di fronte a me. Rispetto alla strada, il Castello è costruito di spalle, così da nascondere le macchine e non rovinare l’insieme suggestivo e, per poter entrare, dobbiamo fare il giro a piedi. Il giardino lo abbraccia su tre lati, disseminato di panchine e alberi e anche qualche fazzoletto più spianato per permettere a chi ce la fa di giocare all’aria aperta.
La costruzione è semplicemente pazzesca. Di base è come qualsiasi altro ospedale, squadrato, asettico. Ma l’enorme ed ordinato parallelepipedo di stanze e corridoi è infilato dentro una custodia che ha veramente la forma di un castello, con tanto di torri e feritoie, nonché un finto ponte levatoio tra le torri. Tutto finto, nulla di realmente agibile, ma che fa il suo dovere. Mi stupisco ogni volta che lo vedo e se fa quest’effetto a me, chissà a un bambino.
Finisco la panoramica e mi concentro di nuovo su Law, che sta scandagliando attento il parcheggio. Non fosse mio fratello, mi chiederei che gli prende ma, essendo mio fratello, so benissimo che sta facendo. Controlla chi c’è di turno e, molto probabilmente, sta già mentalmente organizzando la giornata sulla base di chi lavora oggi.
Ho sempre pensato che sia un leader naturale.
Sposto gli occhi da lui alle macchine di nuovo a lui, curioso di studiare le sue reazioni e mi accorgo del suo sollievo – perché appunto sono suo fratello – quando posa gli occhi su una Megalo con il cofano e le portiere posteriori a righe nere e panna e il bagagliaio e le portiere anteriori lilla. Corrugo le sopracciglia e il sorriso di scherno che mi spunta sulle labbra stavolta è sincero.
«Chi conosci con una Megalo a righe nere e lilla?» già rido.
Law mi guarda atono, impassibile. «Non siamo un po’ adulti per giudicare le persone dalla macchina?»
Sollevo un sopracciglio insieme a un angolo della bocca, fermandomi di fronte a una Flamingo nera, parcheggiata vicino al camminamento che costeggia il Castello. «Sicuro?» domando, indicando la vettura con il pollice, e poi mi acciglio. «Sono veramente cuori, quelli sul fianco?»
L’espressione impassibile lascia spazio a una soddisfatta. «Eustass-ya ha quasi vomitato quando gli ha chiesto di dipingerli» ricorda, prima di tornare serio. «Sarebbe dovuto rimanere a casa» mormora, pensieroso. «Andiamo»
In pochi minuti abbiamo fatto il giro e stiamo entrando. L’ultima volta che ho visto il Castello è stato alla sua inaugurazione, quando una sua intera ala era ancora in costruzione e, nonostante all’epoca l’atrio fosse già finito, è come vederlo per la prima volta. E no, non sembra un ospedale.
Sì certo, ci sono medici che girano dappertutto, con cartelline in mano, stetoscopi al collo e quelle orribili ciabatte ai piedi, ma le divise sono tutti di colori diversi, un paio di loro hanno in testa una di quelle corone fatte con i palloncini. Le pareti sono dipinte con colori sgargianti, su una c’è un gigantesco murales e sul muro dietro al bancone dell’accettazione una lavagna di sughero a cui sono affissi disegni di ogni genere, da quelli stilizzati a dei piccoli capolavori. Sul bancone dell’accettazione due vasi con dentro quei fiori giocattolo che cantano e dietro ai fiori giocattolo e al bancone, davanti alla lavagna di sughero, in piedi, un plico di fogli in mano, una donna con la pettinatura più strana che abbia mai visto.
E io conosco Franky.
I capelli castani sono raccolti in un gigantesco chignon sul capo e in due ciuffi laterali e cilindrici ai lati che, nel complesso, ricordano il muso di un pesce martello, uno strato abbondante di quella roba per truccarsi le palpebre di un viola acceso e una collana di rose di stoffa. Soggetto singolare.
«Praline» Law si avvicina a passo di carica e io lo seguo a ruota.
Praline, solleva gli occhi dai fogli, vede Law, torna a guardare i fogli, registra anche la mia presenza e solleva di nuovo gli occhi dai fogli, stavolta puntandoli su di me. Sorride e io mi concedo un istante per studiarla, prima di ricambiare. Ha denti particolarmente appuntiti e occhi di un azzurro quasi verde. Dulcis in fundo, una spruzzata di lentiggini sulle guance e ora che la vedo bene, al di là del suo strano modo di acconciarsi, è una gran bella donna. Anche se forse sono di parte perché mi piacciono le lentiggini.
Però sono certo che non sia per colpa delle lentiggini l’impressione che mi stia guardando come se volesse volentieri mangiarmi.
«E lui chi è?» Si appoggia al bancone con un braccio e mi fissa, interessata, così interessata che il mio sorriso diventa incerto e nervoso. No, sul serio, è inquietante. 
«Mio fratello»
«Mh» continua a radiografarmi. «Mingherlino» conclude alla fine e il mio orgoglio ha la meglio sull’inquietudine.
Come sarebbe, “mingherlino”? Sì, è vero, non sono pompato e tutto quello che vuoi ma di certo non sono “mingherlino”! Non lo è Law, “mingherlino”, che è il più asciutto di noi, figuriamoci io! Okay, forse Ace è più grosso di me ma, insomma, lui è un pompiere e…
«Non farci caso, suo marito è palestrato all’inverosimile e ha tutta una sua strana scala di parametri»
«In compenso, grande lato B» prosegue Praline, ora chiaramente intenta ad ammirare il mio sedere con soddisfazione.
«Non fare caso nemmeno a questo» sussurra ancora Law. «Praline, Cora doveva restare a casa oggi»  lo dice quasi come se fosse colpa di Praline ma in realtà so che sta solo cercando di scoprire che succede senza dare a vedere che la cosa lo preoccupa. E forse lo sa anche Praline, che non se la prende minimamente.
O forse è perché è troppo impegnata a sporgersi oltre il bancone per guardare meglio le mie chiappe.
«Sì, lo so, ma dice che la caviglia va meglio e ne approfitta per fare un po’ di lavoro d’ufficio che nessuno vuole mai fare» conclude, ora girata di spalle, la schiena completamente inarcata, guardandoci da sotto in su.
Law si irrigidisce – sono abbastanza certo che non sia perché come me ha appena realizzato che Praline è un caso neurologico – «Lavoro d’ufficio? Intendi negli uffici dove non andiamo mai?»
«M-mh»
«Completamente da solo»
«È un’evenienza molto probabile» si raddrizza finalmente.
Law riflette ancora pochi istanti prima di chiedere: «Si riesce a organizzare una prova antincendio entro il pomeriggio?»
«Si riesce a organizzare una prova antincendio prima di pranzo?» domanda una voce ovattata. Ci giriamo e tutti e due sobbalziamo e, una volta tanto, non mi stupisco che mio fratello abbia avuto una reazione normale perché, nonostante questo è il posto dove qualsiasi cosa può accadere, sfido chiunque a non spaventarsi nemmeno un po’ ritrovandosi faccia a faccia con un dugongo.
Il fatto che sia solo la maschera di un dugongo, marrone con un berretto verde, e che sotto ci sia un corpo chiaramente femminile, con addosso una divisa dello stesso verde del berretto e le mani sui fianchi, rende tutto ancora più surreale.
Ma a differenza mia, che sto ancora cercando di dare un senso a ciò che vedo, Law sembra rimettere insieme i pezzi molto più in fretta e – e stavolta sì che mi stupisco – pare anche fare fatica a trattenere una risata.
«Oh santo…»
«Non t’azzardare» lo ammonisce la voce da dentro la maschera. «Pesa quanto me e caccia un caldo allucinante»
«E dire che sembra così confortevole» commenta bastardo Law.
La ragazza solleva una mano e apre la bocca del dugongo, da cui spuntano due occhi scuri e nient’altro. Due occhi scuri che lanciano saette. «Grazie al cielo il resto del costume non mi va. Ma non si poteva dire ai bambini che il Dugongo Kung Fu si è slogato una caviglia e non poteva esserci. No, perché avrebbero perso fiducia nelle arti marziali!» gesticola nell’aria. «Capisci, Law? Nelle arti marziali! S’è slogato il cervello, altro che la caviglia!»
A questo punto devo trattenere anche io una risata, soprattutto perché sospetto possa trasformarsi in una questione di vita o di morte.
Law si piega sulle ginocchia, mani sulle cosce, per guardarla direttamente negli occhi attraverso la bocca aperta del dugongo, serissimo. «Il tuo sacrificio sarà ricordato, te lo prometto»  
«Ti odio»
«Ma davvero?» sogghigna lui.
«Sì, ti odio ma non ho tempo di dimostrartelo perché devo andare in sala ricreazione. Praline, è ora» annuncia con autorità.  
Praline fa il giro del bancone e si ferma un momento di fronte a noi. «I turni di clown therapy del mese» annuncia, allungando a Law una cartellina. Poi si gira a squadrarmi e la tentazione di indietreggiare è fortissima. Mi squadra e mi si avvicina. «Buona visita» mi augura e rimango di pietra quando mi strizza la chiappa destra. Come se nulla fosse si allontana e raggiunge la ragazza-dugongo in pochi agili passi. Hanno un modo di camminare simile, noto, aggraziato quasi che, non so, che stiano fluttuando come se fossero in acqua.
«Che figata la tua acconciatura!» le dice la ragazza-dugongo, sinceramente colpita. «Come hai fatto?»
Ma non sento la risposta perché mi accorgo che Law è già partito verso gli ascensori e mi sbrigo per recuperarlo in poche falcate. «Ti porto a salutare Cora» mi avvisa quando lo raggiungo.
«Così già che ci sei controlli che non stia facendo danni?» domando e lui mi risponde con un’occhiata eloquente. Le porte si chiudono e ci appoggiamo alle pareti opposte dell’ascensore, io allungo una mano verso Law che, in automatico, mi passa la cartellina.
È più forte di me, mi viene naturale controllare tutto ciò che è in qualche modo organizzato per scoprire da solo i criteri di suddetta organizzazione. Scruto l’elenco di nomi, affiancati a date e turni, evidenziati con due diversi colori.
«Dicevi che usate poco gli uffici» constato mentre il mio cervello elabora.
Ci metto poco a capire che i due colori indicano uno lo staff interno dell’ospedale e l’altro i volontari esterni. Infatti quelli dello staff interno hanno turni molto più frequenti di clown therapy mentre quelli esterni non ne hanno mai al mattino.
«Nessuno di noi ha molto tempo per le scartoffie non strettamente essenziali»
«La burocrazia sarà un bel casino» gli lancio una rapida occhiata.
«Non me ne parlare…»
Adesso che so chi viene da fuori e chi no, sono piuttosto certo di aver anche indovinato alcuni dei soprannomi clown. Non ho comunque dubbi su chi sia Torao e mi azzarderei a dire che Mirtillo e Lenticchia sono Chopper e Ace.
«Chi è Forchetta?» mi acciglio. Magari non lo conosco, è uno degli esterni. Ma da come Law sospira, sono piuttosto certo che, invece, lo conosco – o la conosco – eccome.
«Robin» geme quasi, attirando ancora di più la mia attenzione.
«E perché Forchetta?» domando e già rido. Sento che la spiegazione mi piacerà, almeno tanto quanto non piace a Law l’idea.
«Perché è una persona molto posata…»
Resisto circa mezzo secondo prima di scoppiare a ridere.
«Sai, sapevo che lo avresti trovato divertente eppure non posso fare a meno di domandarmi: come? Perché?!» protesta ma io continuo a ridere e gli passo un braccio intorno alle spalle, mentre usciamo dall’ascensore.
«Dimmi di più sulle scartoffie»
«Beh sono un gran casino. Abbiamo assunto una studentessa di archivistica per qualche settimana per cercare di mettere un po’ d’ordine ma ci manca proprio un modello base da seguire. Me ne occuperei io se ne avessi fisicamente il tempo» si gira a guardarmi con una sincerità che solo poche persone hanno il privilegio di vedere. «Ci vorresti tu»
Rimango per un attimo interdetto, quasi mi manca il fiato. Un lavoro. Questo sarebbe un lavoro per me che…
«Peccato che ti fermi solo fino a domenica»
«B-beh sì però potrei comunque dare un’occhiata e vedere se trovo una qualche soluzione!» esclamo, un po’ troppo in fretta e un po’ troppo agitato. Lo vedo dalla sua espressione e mi schiarisco la gola per darmi, di nuovo, un contengo. «Se vuoi, ovviamente»
«Sarebbe fantastico» mormora piatto Law e continua a scrutarmi anche quando distolgo lo sguardo. «Ma credevo dovessero essere delle specie di ferie»
«Naaaa! Sai che per me è rilassante fare certe cose!» minimizzo, facendo il gradasso.
«E non volevi passare un po’ di tempo anche con papà, Ace, Rufy…» lascia l’elenco in sospeso.
«Senti, fammi dare un’occhiata e io ti dico se posso fare qualcosa senza bruciarmi completamente la settimana dietro al vostro archivio» decido di prendere in mano al situazione, fermandomi in mezzo al corridoio per poterlo guardare in faccia. «Senza impegno. Se non si può fare, te lo dico» lo vedo che è combattuto e gli afferro goliardicamente la spalla. «Ehi fratello, dai. Fatti aiutare» insisto e finalmente si rilassa.
Abbozza un ghigno e ricambia la stretta. «È bello averti di nuovo a casa» lo stomaco mi si contrae fino a quasi fare male. Speravo di sentirglielo dire ma al tempo stesso non so cosa rispondere. «Anche se per poco» aggiunge, levandomi dall’impiccio.
Sorrido, sicuro di me. «Beh, meglio di niente» gli faccio notare, un attimo prima che una serie di tonfi tutt’altro che rassicuranti risuonino nel corridoio.
Ci giriamo verso la fonte del rumore e Law sospira quando una voce che urla a non è chiaro chi che sta bene e di non preoccuparsi. Nonostante sia lontana e leggermente soffocata non faccio alcuna fatica a riconoscere Cora.
«Forse è meglio se andiamo a controllare»
Law sospira di nuovo. «Sì, andiamo»
  
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