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Autore: ___Page    01/06/2018    2 recensioni
«Allora, cosa mi raccontate?!» tiene un braccio sulle mie spalle mentre ci avviciniamo al tavolo. «Il lavoro? Il trasloco?».
«Abbiamo una piccola divergenza di opinioni sul citofono» racconta Ace con un sorrisone.
«Al lavoro tutto bene. Un po’ presi da un nuovo progetto. I Cloth Tattoo vanno alla grande».
«E al Castello?»
Law ghigna, come sempre orgoglioso del suo ospedale pediatrico.
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Ora al posto dello sterrato c’è una gittata di asfalto, per agevolare il transito di macchine e della linea di autobus che il comune di Raftel ha attivato apposta per collegare l’ospedale al centro città, ma, come quasi mai accade, non è una brutta visione. Questa strada è il preludio di qualcosa di così bello da rendere i miei ricordi su questa collina ancora più preziosi.
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«Oh santo…»
«Non t’azzardare» lo ammonisce la voce da dentro la maschera. «Pesa quanto me e caccia un caldo allucinante»
«E dire che sembra così confortevole» commenta bastardo Law.
«Grazie al cielo il resto del costume non mi va. Ma non si poteva dire ai bambini che il Dugongo Kung Fu si è slogato una caviglia. No. Perché avrebbero perso fiducia nelle arti marziali. Capisci, Law?! S’è slogato il cervello, altro che la caviglia!»
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altro Personaggio, Izou, Koala, Sabo, Sanji | Coppie: Nami/Zoro
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Pesto il terreno con la punta della scarpa, le mani in tasca, gli occhi fissi sul tabellone degli arrivi in attesa che esca il binario. Dall’altoparlante si susseguono incessanti comunicazioni a cui non presto la minima attenzione, anche se forse dovrei. Il treno potrebbe essere in ritardo anche se in quel caso mi avviserebbe lei.
Estraggo il cellulare e controllo che non mi abbia mandato qualche messaggio, non si sa mai. Ma non c’è nulla, così rificco il cellulare in tasca e gratto la stoffa interna del pantalone con l’unghia.
In questo momento non so che darei per una sigaretta. Come lo penso, vorrei tirarmi un pugno. Con la fatica che ho fatto per smettere, è proprio da idioti pensare una cosa del genere solo per un momento di nervosismo.
Anzi, è proprio in generale da idioti il mio comportamento.
Forza Sanji, che hai mai da essere tanto teso? In fondo si tratta di tua sorella, santo Roger. La bambina a cui raccontavi le favole della buonanotte, a cui tenevi la mano sulle montagne russe, i cui primi fidanzati hai minacciato di morte per percosse.
Nient’altro che sangue del tuo sangue.
Ma forse il problema è proprio questo. Forse sono tanto agitato perché sono fermo a un’epoca che non c’è più, perché la Reiju che scenderà da quel treno non è la Reiju che mi ricordo io. La Reiju che scenderà da quel treno ora è una giovane donna della cui vita privata degli ultimi anni so molto poco, per non dire niente.
Da quando ha iniziato l’università ed è tornata a vivere stabilmente a casa dell’uomo con cui abbiamo la sventura di condividere parte del nostro D.N.A., tra il catering e i suoi esami, ci siamo sentiti sempre meno e visti praticamente solo a Natale e qualche sporadico weekend in cui, miracolosamente, non lavoravo.
La verità è che ho il terrore di trovarmi di fronte un’estranea. Usopp se n’è accorto, ieri sera.
Figuriamoci.
Come se potessi nascondergli qualcosa.
E dovrei dargli retta, dare retta alla voce nella mia testa che mi ripete che ha ragione lui, che non ho nulla di cui essere tanto preoccupato, che Reiju è quella di sempre e certo lui lo sa perché, porca miseria, la sente più spesso di me.
Mi passo pollice e indice sugli occhi, inspirando a fondo.
«Se non è l’uomo più bello del mondo quello che ho di fronte»
A pochi passi da me, la camicia bianca leggera, un cerchietto nei capelli biondo fragola, una mano infilata nella tasca della gonna-pantalone rossa a vita alta e l’altra intorno alla maniglia del trolley, Reiju mi sorride criptica e perennemente divertita.
Ricambio, prima di riuscire a schiodarmi e andarle incontro. «Che avrai mai da sghignazzare sempre» constato ma non glielo domando per davvero. Più gli anni passano meno sono sicuro di voler sentire la risposta. Poso una mano sul suo fianco e mi piego per salutarla con un bacio sulla fronte. «È andato bene il viaggio?»
«È stata, come ogni volta, un’autentica esperienza» risponde, permettendomi di portare il trolley per lei verso il parcheggio esterno della Central. Dopotutto, Reiju è abituata a essere trattata secondo l’etichetta. Farsi portare i bagagli, aprire la portiera, scostare la sedia al ristorante è normalità per lei. Non aspettatevi nemmeno che faccia anche il più pallido tentativo di opporsi e sappiate che, se non doveste fare una sola di queste cose, ci penserà da sola ma ve lo farà in qualche modo notare e non perché sia viziata o capricciosa. Come dicevo è, semplicemente, abitudine. Ma non è comunque un problema che dovete porvi visto che, prima di uscire con lei, dovrete passare sul mio cadavere. «C’era un delizioso vecchino che continuava ad occhieggiare verso le mie cosce e credo che verso fine viaggio abbia preso il mio educato sorriso come un invito, perché ha fatto anche un tentativo di allungare le mani. Spero di non avergli fratturato il polso» riflette ad alta voce, ignara dell’aura omicida che già mi circonda e che mi affretto a dissolvere con rapidi movimenti della mano.
«In macchina ci avresti messo molto meno, sai?» le faccio notare, fulminando truce un passante che la squadra con interesse mentre le apro la portiera.
«Interessante. Vito mi ha ripetuto la stessa identica cosa per giorni e giorni» sgrana gli occhioni blu, in un’espressione di finta sorpresa, fatta apposta per schernirmi.
«Io intendevo che forse sarebbe ora che prendessi la patente» metto in chiaro una volta salito dal lato del guidatore e chiusa la portiera. «Così da essere indipendente» aggiungo a scanso di equivoci.
«Non avere la patente non significa che non sono indipendente» mi fa pacatamente notare. «Vado comunque  dove voglio e quando voglio, che sia con il treno o con Vito» La faccia mi si contrae in una smorfia di puro disgusto nel pensare a quel buono a nulla di uno chaffeur, capace solo a guidare e leccare i piedi all’uomo che, biologicamente parlando, sarebbe mio padre. «E poi non c’è più spazio in garage, ora che anche Yonji si è comprato la macchina» storco la bocca per trattenere un commento riguardo al fatto che spero che abbia avuto più buon gusto di quello che dimostra con le donne e Reiju sembra leggermi nel pensiero quando aggiunge, in un soffio quasi malizioso: «Una Winch verde del ‘66»
Come immaginavo, una cosina da niente. Sarà costata un rene, come la Electric blu di Niji e la Sparking rossa di Ichiji. «Fottuti bastardi» sibilo, abbastanza piano da concedermi di sperare che Reiju non mi abbia sentito, e poi mi schiarisco la gola. «Comunque come stanno?»
«Bene. Ogni tanto controllano la tua pagina Facebook»  
«Ah. Davvero?» smuovo le spalle un po’ a disagio. Non ammetterò mai, nemmeno sotto tortura, che lo faccio anche io con le loro. A volte. Solo a volte. Molto sporadicamente.  
«E nostro padre?»
Reiju solleva un sopracciglio «Ti interessa davvero?» mi schernisce senza rimprovero.
«Cercavo di essere educato» ammetto con un’alzata di spalle.  
«Sta come al solito, come al solito non ha chiesto di te. Ah e forse Niji viene anche lui in città tra qualche settimana» me la fa breve mentre si accomoda meglio contro il sedile, braccia incrociate sotto al seno. «Ma parlando di cose più piacevoli, come stai tu? Raccontami! Non ho aggiornamenti sul catering da un pezzo, a parte quelli che mi hanno dato Usopp e la mamma»    
Mi rilasso anche io contro il sedile, ora che mi trovo sul tragitto che faccio tutti i giorni per tornare a casa, e sorrido al vento. «Sto bene. Il catering va a gonfie vele e non solo»
Un sorrisetto saputo crepita sulle sue labbra e non mando gli occhi al cielo solo perché sto guidando. La cosa singolare è che è praticamente identico al sorriso di Robin-chwan ma quando è la sua bocca a tendersi in quella meravigliosa e morbida curva senza difetti, la sensazione che provo è totalmente diversa.
Quando lo fa Reiju, anziché provare ammirazione e devozione, mi sento scoperto e messo a nudo in ogni senso possibile tranne che quello letterale. Come se mia sorella fosse in grado di aprirmi il petto e leggerci dentro tutti i miei sentimenti e non è una sensazione facile da gestire.
Posso sembrare senza filtri e senza vergogna quando si tratta di esprimere ciò che provo ma questo accade solo con le donne. Se si parla dei miei veri sentimenti, la faccenda è ben diversa. Forse perché ho passato tanto tempo a reprimerli, finché mamma non ha finalmente lasciato la casa di Judge, portando me e Reiju con sé – non capirò mai perché quei tre idioti sono voluti restare –. Forse perché io stesso quando ho capito di essere bisessuale ho faticato inizialmente ad accettarlo. Forse perché quando si ha una cosa bella come Usopp, la paura di perderla è talmente tanta che essere prudenti diventa questione di sopravvivenza.
E sì, so che ci sono già passato, so cosa ha comportato la prima volta, questa mia paura, e non ho intenzione di permettere che succeda di nuovo. Sto imparando a non nascondermi, a non reprimere ciò che sento almeno nei gesti ma aprirmi a parole è tutt’altra faccenda.
Ci sto provando però.
«Siamo forse pronti per il grande passo?»
«Che?! No!» esclamo, tagliando una curva un po’ troppo dritta. «No, io non mi riferivo a quello» ripeto con tono fermo e deciso. Che non si faccia strane idee e non le metta in testa ad Usopp. Non ho intenzione di perderlo per una proposta di matrimonio che non arriva perché semplicemente non è ancora in programma.
«Beh meno male allora che i tuoi amici sono così generosi. Se aspetto te, per andare a un matrimonio devo sposarmi io!»
Le lancio un’occhiata atona, in parte perché, santo Roger, ho solo trent’anni, in parte perché non penso che mi piaccia affatto l’idea di mia sorella che si sposa con chicchessia. Sarà meglio che, quando verrà il momento, si tratti di qualcuno che se la meriti davvero e questa è una delle poche verità su cui Yonji, Ichiji, Niji ed io ci troviamo in sintonia. 
«Sono stati davvero gentili a invitarmi. Spero che i vestiti che ho portato siano adatti all’occasione»
«Reiju, un qualunque vestito che metti normalmente per uscire il sabato sera con le tue amiche sarebbe già adatto a un matrimonio»
«Ehi!» protesta, accigliandosi con un sorriso «Non esagerare adesso»
«Intendevo solo dire che hai classe» mi spiego, orgoglioso. «Ad ogni modo, per rispondere alla tua domanda, gli affari vanno davvero molto bene. Mi sto anche mettendo in società con la nipote di Zeff, da solo non riesco a gestire tutto»
«Usopp mi ha accennato qualcosa ma non è sceso nei dettagli» annuisce Reiju, alla ricerca di maggiori informazioni.
«Tecnicamente, è la figlia di suo cugino ma ha la mia età quindi per Zeff è come se fosse una nipote. La conosco da tanto e abbiamo lavorato insieme al Baratie per un bel po’, finché non è partita per frequentare una scuola di cucina all’estero. È una cuoca fenomenale, dovresti assaggiare il suo filetto di maiale con aligot. Sublime»
«Dev’essere davvero molto brava. Non è facile sentirti tessere le lodi di qualcuno, quando si parla di cucina» commenta Reiju, senza mostrarsi troppo sorpresa, un sopracciglio alzato. «Ma all’estero dove ha studiato?» domanda poi, come colta da un pensiero improvviso.
Mi acciglio. «Non lo so con precisione. Perché?»
«No nulla, stavo solo pensando una cosa…» riflette e scuote appena il capo. «Comunque, sono davvero molto curiosa di conoscere questa…?»
«Cosette» rispondo alla sua domanda inespressa. E poi mi viene un’idea. «Sai, se vuoi posso presentartela anche ora. La sede è qui vicino e posso prepararti qualcosa da mangiare là, visto che è ora di pranzo. Che ne dici?»
Reiju socchiude le palpebre, gli occhi accesi da una luce che conosco bene. È la luce che glieli accende quando capisce che la vacanza è ufficialmente iniziata, che a partire da ora e per un bel po’ di settimane non dovrà più seguire i dettagliati programmi di Judge che scandiscono le sue giornate, che è libera e che da adesso si può improvvisare anche ogni minuto della giornata. Mi piace vedere quella luce negli occhi di mia sorella. Mi piace molto.  
«Ti dico…» sorride come un gatto del Cheshire. «…yummi»

     
§

 
Picchietto con le unghie sul bancone dell’accettazione, in attesa che l’infermiera finisca di registrare i miei dati per l’esenzione degli esami cardiaci e mi restituisca i documenti. Ho voglia di uscire da qui e prendere una boccata d’aria.
Alla fine per fare tutto è andata via la mattinata ma era necessario e Pen mi ha anche fatta morire dal ridere con quei due aneddoti sul suo weekend con Lamy. Ora che sono di nuovo da sola, però, ho ricominciato a pensare troppo. E non dovrei. So che non dovrei.
Mi hanno chiaramente detto che non c’è alcun bisogno di allarmarsi prima del tempo, che posso stare tranquilla, Gerth si è anche raccomandata che non mi stressi troppo per il bene del bambino.  
Ci vorrà un po’ per avere gli esiti e se comincio a pensare negativo ora, non ne usciamo sani, né io né lui. Fortuna che fino a sabato posso tenere la testa impegnata con il matrimonio oltre che con il lavoro, e dopo si vedrà. Credo che mi butterò a capofitto nel progetto dei biscotti e a programmare la serata di beneficenza del Castello, anche se di tempo ce ne sarebbe ancora. E finito con i biscotti sarà tempo di reclamare una nuova campagna pro-bono. Francamente, non vedo l’ora, anche se Law comincerà di sicuro a dirmi di rallentare e delegare tutto ciò che posso. E suppongo che a un certo punto lo farò. Ma non ancora. Per il momento, ho bisogno di non pensare troppo.
«Ecco i suoi documenti, signorina Surebo» l’infermiera dell’accettazione mi risveglia dalle mie riflessioni, tendendomi la carta elettronica e l’esenzione plastificata. «Passi una buona giornata»
Le sorrido sincera. «Grazie mille. Anche lei» la saluto con un cenno del capo e mi sbrigo ad uscire.
Dovrei andare al lavoro ma ho già il cellulare in mano per chiamare e avvisare che mi serve la giornata libera. Sarebbe comunque inutile andare in ufficio, non caverei un ragno dal buco, non senza aver parlato prima con Law.
Scendo i gradini di corsa e in punta di piedi, mentre scorro la rubrica con una mano e con l’altra chiudo la borsa. E più o meno a metà rampa vado a sbattere contro qualcosa.
Qualcosa che impreca, si scusa e mi chiede subito come sto. Qualcuno.
Qualcuno che mi tende immediatamente una mano per aiutarmi ad alzarmi, una mano callosa. Qualcuno con una voce famigliare. Qualcuno che, scopro quando alzo gli occhi per guardarlo in viso, conosco e anche molto bene.
«Zoro?»
«Koala!» esclama, preso in contropiede, e, nonostante la mano ancora tesa, sobbalza all’indietro, neanche gli stessi puntando contro una pistola. «Ah i-io non ti avevo riconosciuto» mormora e dopo pochi secondi sgrani gli occhi, quando realizza che sono ancora seduta sul gradino dove sono scivolata di sedere un attimo fa. E in effetti lo realizzo solo ora pure io e mi decido finalmente ad afferrare la sua mano. «Mi dispiace, non ti ho visto. Tutto bene?» si informa mentre mi tira su.
«Oh sì tranquillo» indico oltre la mia spalla con il pollice. «Quel gradino è insospettabilmente comodo» sgrano appena gli occhi e abbasso il tono per suonare confidenziale e sorpresa e Zoro sghignazza divertito. «Tu come stai? Che fai da queste parti?»
È una frazione di secondo, un gesto quasi impercettibile, ma non mi sfugge l’occhiata che lancia verso l’ingresso dell’ospedale, anche se fingo di non notarla. «Sono venuto a riportare le spade a un cliente che vive qui in zona»
«Ma dai, fate anche servizio a domicilio? Non ne avevo idea»
«A volte capita» minimizza con un’alzata di spalle. «Dipende dal cliente. N-Nami non lo sa» aggiunge poi e qualcosa dentro di me si destabilizza.
Oh santa merda, Zoro. Cosa stai combinando? E perché proprio io dovevo beccarti?
«Sai com’è fatta? Mi attaccherebbe la pezza per farmi dare più soldi per il servizio, eccetera, eccetera...»
«Posso solo immaginare…» commento e lo studio attenta mentre si passa una mano sul coppino. Ghigna, fiero e bellissimo come sempre, ma è nervoso. Lo vedo bene. È molto nervoso. «E posso chiedere il sesso di questo cliente?» proseguo, abbandonando preamboli, giri di parole e finta prudenza. Fortunatamente Zoro avrà carenze in altri campi ma l’intuito non gli manca.
Capisce cosa gli sto realmente domandando, me ne accorgo da come squadra le spalle, da come mi guarda quasi indignato.
Ma spero possiate capirmi. Dovevo domandare.
«Uomo» risponde lapidario. E anche se so che siamo ben lontani da una risoluzione semplice, provo sollievo. So da sempre che Zoro non la tradirebbe mai, ma preferisco averne avuto conferma e il fastidio con cui mi ha risposto, quasi che lo abbia insultato e offeso, non lascia spazio a dubbi.
Certo, ciò non toglie che ci sia sotto qualcosa e il fatto che Zoro stia cercando così disperatamente una spiegazione che suoni plausibile ne è la prova. Se si fosse perso, si lamenterebbe che non capisce perché ogni due per tre spostano le fermate degli autobus, non cercherebbe una scusa. Non sarebbe da lui, oltre il fatto che è davvero convinto di non essere affatto privo di senso dell’orientamento.
E quello che dice subito dopo, non fa che consolidare i miei sospetti.
«E comunque, già che ero da queste parti, ho pensato di venire a fare un checkup» si stringe di nuovo nelle spalle.
Sorrido.
Certo. Perché per fare un checkup completo basta presentarsi in ospedale quando capita…
«Tenersi controllati è importante» annuisco il mio appoggio. «Poi uno sportivo come te» aggiungo indicandolo a due mani.
E il lampo che gli attraversa gli occhi non mi piace neanche un po’. Per un momento – un brevissimo momento – penso che avrei preferito l’amante.
«E immagino…» proseguo, scegliendo con cura le parole. «…considerato quanto costa una visita completa, che Nami non sia informata nemmeno di questo» mormoro serissima, guardandolo dritto negli occhi. Zoro trattiene il fiato. «Zoro…»
«Non è una cosa grave. Non voglio farla preoccupare» smette di tentennare, torna lo Zoro di sempre, solido come una roccia, fermo nelle sue decisioni.
«Non è grave?» domando per ulteriore conferma. Ora che è di nuovo sincero, ho bisogno che me lo ridica.
«Non lo è» ripete deciso.
Sì, ma devo crederti davvero? Li conosciamo tutti i tuoi parametri, Zoro?
Purtroppo però, per quanto io voglia bene ad entrambi, per quanto Nami sia una delle mie più care amiche, questi non sono affari miei.
Non è qualcosa in cui mettere il naso e non è sicuramente il momento adatto, per me, per preoccuparmi degli affari degli altri. Non sono mai stata una persona egoista ma ora più che mai è necessario che lo diventi. Per il bene del mio bambino, devo imparare ad esserlo.
Non mi renderei neanche conto di aver portato una mano all’addome se Zoro non la seguisse con lo sguardo. «È tutto okay?» domanda con un mezzo sorriso che non posso fare a meno di ricambiare, anche se un po’ tirata.
«Potrebbe esserci qualche complicazione» ammetto. «Dobbiamo aspettare i risultati degli esami»
Non si aspettava questa risposta, lo capisco dalla sua reazione. E non lo biasimo. Nessuno si aspetterebbe mai questa risposta perché, anche se non tutto procede nel modo giusto, si tende sempre a fingere che sia tutto a posto. Il fatto è che a me è bastato mentire sul mio problema cardiaco all’epoca per sapere fin troppo bene che, certe cose, è meglio tirarle fuori che tenersele dentro. Anche se non è facile dirle ad alta voce. Anche se mettono gli altri in difficoltà o li preoccupano.
«Mi spiace» afferma sincero e – gli sono grata per questo – senz’ombra alcuna di compassione. Soprattutto perché non ce n’è alcun bisogno.
«Sì ma non è ancora detto niente eh. Sono solo controlli un po’ più approfonditi»
«Beh certo. Quindi…» torna ad esitare per un momento. «Quindi ora cosa pensi di fare?»
Lo guardo, per un attimo stranita. «Vado a casa e ne parlo con Law» mi stringo nelle spalle. «Che altro dovrei fare?»
Di nuovo, Zoro sembra essere colto alla sprovvista e, se l’ho fatto sentire a disagio, mi dispiace davvero ma per me non è contemplata nessun’altra gestione per questa “crisi”. Ho risposto senza pensare, con onestà.
«Giusto» annuisce, di nuovo nervoso.
«Non voglio farti fare tardi per il tuo checkup» decido di sbloccare la situazione e gli sorrido con affetto. Mi avvicino di un passo, gli occhi socchiusi, e gli poso una mano sulla guancia con fare materno. «Io sto bene, davvero» affermo di nuovo.
«Ci vediamo presto allora»
«Contaci» confermo e lui riprende a salire i gradini. Mi trattengo un momento ancora, giusto per essere sicura che continui fino alla porta dell’ospedale e non cambi direzione di colpo, finendo chissà dove. E mentre lo osservo allontanarsi, agile e perfettamente sano almeno all’apparenza, di nuovo il ricordo di quando io ho tenuto nascosto a tutti il mio problema e di quanto orrido sia stato mi assale. Non parlarne lo aveva reso più grosso di quel che era anche a me. Ho vissuto nello sconforto per non so più nemmeno quanto, convinta di non avere che un timer acceso davanti a me, anziché uno splendido futuro da vivere come qualsiasi altra persona, perfettamente in salute a patto di ricordarmi quella stupida pastiglietta ogni mattina. Un piccolo prezzo da pagare, dopotutto.
E ricordo anche molto bene il sollievo quando l’ho finalmente confessato a Law, la sua determinazione a non lasciarmi andare a fondo, a trovare una soluzione a qualunque costo. La sensazione che, finché ci fosse stato lui, avrei potuto fare comunque e ancora qualsiasi cosa.
Una sensazione per niente sbagliata, a quanto pare.  
«Zoro!» lo richiamo e salgo verso di lui, così da non costringerlo a tornare indietro e annullare i suoi progressi nel conquistare la propria meta. «Senti non sono affari miei e ti credo quando dici che non è grave ma… non sei da solo, okay?»
Zoro mi fissa una manciata di secondi prima di annuire, ringraziarmi e voltarmi di nuovo le spalle per entrare in ospedale. E solo quando le porte scorrevoli si richiudono dietro di lui lascio andare un sospiro.
Decisamente, oggi è meglio se me ne torno a casa.
  
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