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Autore: Francine    30/05/2018    3 recensioni
You remember me when the west wind moves
Upon the fields of barley
You'll forget the sun in his jealous sky
As we walk in fields of gold

È giunto il tempo di pagare i debiti. Do ut des, dicevano i romani. Ed è giunto anche per Saori il momento di saldare i suoi, di debiti. Cominciando col riscuoterne uno che risale a qualche anno addietro...
Genere: Avventura, Fantasy, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo Personaggio, Saori Kido
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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See the west wind move like a lover so
Upon the fields of barley
Feel her body rise when you kiss her mouth
Among the fields of gold

 
 


È una cena silenziosa, rotta solo dal tintinnio delle posate contro la ceramica sbeccata dei piatti, quella che si svolge nel giardino interno. Volano sguardi, battiti di ciglia lievi come l’aria e pesanti come piombo, sorrisi a mezza bocca, ma nemmeno un fiato. È solo quando Layla ha portato via i piatti ed ha lasciato sul tavolo un cestino strabordante di ciambelle all’anice ed una bottiglia di un vino bianco frizzante, che l’incantesimo si spezza.
E Lui le chiede: «Vuoi davvero farlo?».
Saori lo fissa come se gli fosse spuntata una seconda testa.
«È una domanda retorica. Lo sai. Ma sei sicura di volerlo fare in questo modo?»
«Ne conosci altri?»
«Potresti chiedere allo Sconosciuto.»
«L’abbiamo sconfitto. E la situazione è al di là delle sue possibilità. Quindi, come vedi, non ho altra scelta.»
«Potresti concedere loro requie. Il riposo del guerriero, si dice così, no? Se lo meritano, non credi?»
«Sono rinchiusi in una roccia. Me lo chiami riposo, questo?»
«Ah. Si usa così dalle tue parti?» Prende una ciambella, la spezza e gliene offre un pezzo. «Dalle mie parti si è più creativi. Si beve, si mangia, si canta. Si costruiscono navi…»
«Navi?»
«Naglfar. Costruita con le unghie dei morti. È la nave che darà inizio alle danze… Storia pittoresca. Ricordami di parlartene, un giorno…»

Sorride, le labbra nascoste dietro al bordo del bicchiere. Storna lo sguardo dal suo e lo posa sull’incannucciata sopra alle loro teste. Filtra uno scampolo di cielo tra gli interstizi.
«Perché li hai permesso che li rinchiudessero lì dentro?»
«Non ho potuto oppormi. È stato il Citaredo a convincere il Padre.»
«Fammi indovinare. Tu sei la figlia prediletta, ma lui è il cocco di papà…»
«Possiamo metterla così.»
Lui sorride, uno di quei lampi abbaglianti tra le labbra sottili capaci di farti sbandare e uscire di strada. «Non sarà facile, e questo già lo sai. Non posso garantirti che mia figlia ti accoglierà a braccia aperte. Anzi, conoscendola…»
«Non mi spaventa. Siamo donne. Troveremo il modo di capirci.»
«Se ne sei convinta tu…»
Saori gli sorride, come a dirgli: «Scommettiamo?» e Lui alza le mani, in segno di resa.
«E va bene. Va bene. Hai vinto tu. Vinci sempre tu.» Abbandona il tovagliolo sul tavolo. «Però, ancora non mi hai detto il vero motivo che ti spinge a riportare in vita i tuoi guerrieri…»
«Pensavo fosse palese. Almeno per te
Non svicolare, pensa Lui. «Voglio sentirlo dalla tua voce, dolcezza», le rispose.
«C’è bisogno di parole, tra di noi?»
«Certo che no», replica Lui. «Ma non lo fai per me. Lo fai per te stessa.»

«Per me stessa?» Saori piega la testa da un lato, e una ciocca di capelli le scivola sullo sprone del vestito. Lui vince a stento la tentazione di colmare la distanza col suo braccio destro, afferrarle quella ciocca in punta di dita e saggiarne la sericità a fior di pelle. Sorride.
«Dire le cose ad alta voce equivale a renderle reali. Non dirmi che non lo sapevi?»
Sì. Sì, lo sapevo, pensa Saori, liberando un sospiro. Abbassa lo sguardo sul proprio grembo, le dita intrecciate, come a cercarsi le parole giuste da dire; quindi solleva il viso e gli incatena gli occhi nei suoi, poi dice: «Voglio averti al mio fianco perché presto avrò bisogno di loro», sentendosi all’istante più leggera.

«Vedi?», la rimbecca lui, sorridendo. «Adesso va meglio, vero?»
Lei annuisce. «Avevi ragione.»
«Ma certo che ho ragione», replica lui con aria scandalizzata. «Almeno su due o tre cosette, s’intende…»
Versa un paio di bicchieri di vino e le fece segno di unirsi a lei in un brindisi. Saori ubbidisce e i bicchieri tintinnano gai.
«Dire le cose ad alta voce equivale anche a liberarsi. Quando i pensieri si trovano qui e qui», dice Lui, indicandosi prima la mente e poi il petto, «c’è il rischio che si ammatassino tra loro. Che diventino pesanti. Invece, le idee sono ali, non zavorra. Quelle giuste, almeno.».
Ne ha parlato come se fosse successo anche a lui, pensa Saori, dicendosi che sì, deve essergli successo, in passato. Chissà quali e quante idee avrà partorito la sua mente in perenne movimento, viva come il soffio del vento e guizzante come le fiamme nel focolare. E chissà quali e quante si saranno trasformate in ali.

Ali. Come quelle di Icaro, o come quelle di Aiolos?

Lui si versa un altro bicchiere, lasciandole tutto il tempo di cui lei possa aver bisogno. O, forse, starà effettuando una scrematura delle proprie, di idee. Anche uno come lui avrà bisogno di dare una rassettata, di tanto in tanto, cestinando ciò che non ha futuro, archiviando ciò che richiede più tempo e ponendo in essere quelle che sì, sono proprio la scelta giusta al momento giusto.
«E così, presto avrai bisogno dei tuoi impagabili guerrieri…» La sua voce spezza l’incantesimo. Forse mi sono spinta troppo in là, pensa Saori, sorridendo.  «Come mai? Sempre se posso chiedere, s’intende…»
«Io sono qui», risponde lei, come se questo spieghi tutto.

Un altro, al posto suo, le avrebbe chiesto se non si sentisse sola, senza i suoi lacchè inscatolati nell’oro, o se non avesse voglia di affidarsi ad altri Santi. «Troppo sbattimento, forgiarli daccapo, Athena?», avrebbe detto, questo qualcuno; ma lui, no. Lui è il Fuoco, ed entrambi sono fatti della stessa pasta, la stessa materia di cui son fatte le stelle e di cui luccicano i sogni dei poeti. E anche Lui, come Lei, sa che se la Fanciulla rivuole accanto a sé i suoi paladini è perché, un bel giorno, presto o tardi, qualcuno reclamerà la Terra per sé. Squadra che vince non si tocca, e se quei guerrieri testardi tornavano a reincarnarsi con cocciutaggine per Lei – solo per Lei – secolo dopo secolo, battaglia dopo battaglia, cambiando nome, ma non cuore, perché disfarsi di loro?
È solo questione di tempo, si dice Lui. «Chi te l’ha data, la dritta? Quella di poter chiedere a mia figlia di lasciarti entrare, dico…»
«Ha importanza?»
, vorrebbe risponderle Lui, sì, che ne ha. Mi sarebbe piaciuto che tu ne parlassi con me, invece che con lo Sconosciuto. E invece, no. Ma pazienza, Fanciulla. È andata così.
«No», dice lui, scacciando quella domanda con un gesto della mano. «Però sono curioso di sapere come li convincerai a seguirti indietro.»
«Ogni cuore produce una melodia. Mi sintonizzerò su quella.»
«E se non volessero seguirti? Se, sotto sotto, stessero bene lì dove si trovano?»
Saori sorride. «Il Citaredo sarà anche il figlio prediletto del Padre, quello in cui lui rivede se stesso più giovane. Più equilibrato dello Straniero e più allegro del Guerriero. Ma io», aggiunge, con uno sguardo d’acciaio e la voce dolce come un fico maturo che ti accarezza lingua e palato, «sono nata dalla mente del Padre.».
«Touché. Se è questo, ciò che vuoi…»
«È questo.»
Lui sospira. «E va bene. Ma prima sarà il caso di prendere qualche precauzione…»


Prende il cestino delle ciambelle all’anice, ne preleva una e la posa sulla tovaglia. Svita la saliera, toglie il piattino da sotto alla tazzina sporca e vi rovescia sopra qualche cristallo di sale, poi riempie di vino bianco un bicchiere.
«Dammi la mano, Fanciulla.»
Lei obbedisce.
«Il palmo», le dice. «Devi mostrarmi il palmo.»
«Cos’hai in mente?», le chiede, sentendo le sue dita calde contro la pelle del polso. Bruciano, quasi. E lei deve lottare contro se stessa perché quel calore resti lì dove si trova e non si propaghi, divampandole lungo il braccio, la spalla, il corpo intero.
«Un trucchetto per obbedire mia figlia ad ascoltarti», le risponde Lui. «Sì, lo so che il Viandante ti ha dato una penna dei suoi corvi e che potrai usarle come lasciapassare.» Pausa. «Credevi che non me ne sarei accorto? La tua borsa brilla di luce nera, tesoro. Per chi mi hai preso? Per uno sprovveduto che si lascia manipolare dai suoi lacchè?»

Saori non risponde. Non può. Il Fuoco ha il dente avvelenato, adesso. Avrebbe preferito che gliene parlasse, e forse avrebbe dovuto farlo, non appena lo Sconosciuto le ha fatto quella rivelazione sotto al pergolato del Kallisté, e prima che andasse a discuterne col Viandante; però…
E perché non hai voluto farlo?, si domanda, gli occhi fissi nel verde impossibile che colora quelli del Fuoco. Perché Lui avrebbe cercato a tutti i costi di dissuaderla dall’intraprendere quella cerca. E forse mi avrebbe convinto, si dice Athena, prima di chiedergli: «Che cosa devo fare?», e tagliare la testa al vento.

Lui sorride, il lampo scintillante della tagliola nell’erba alta.
«Mangeremo del pane, mangeremo del sale, berremo del vino dallo stesso bicchiere. A quel punto, mia figlia dovrà starti ad ascoltare, perché sarà anche tua figlia. Acquisita, ma pur sempre figlia.»
I polsi di Saori tremano. Lui non glieli stringe, non le offre alcun appiglio. Che allunghi lei, il braccio verso il relitto che le permetterà di restare a galla nella tempesta. Che beva da sé, dall’amaro calice. La vita è fatta di scelte, Fanciulla, dardeggiano i suoi occhi, due placidi laghetti di montagna pronti a risucchiarti sotto al pelo dell’acqua senza il minimo preavviso.
«Tu sai che…»
«Sì», risponde Lui. «Lo so. L’ho sempre saputo. E, a voler mettere i puntini sulle i, io sono già sposato…»
«Cosa che non ti ha impedito di avere figli sparsi un po’ ovunque», lo rimbecca lei.
Gelosa, Fanciulla?, si chiede il Fuoco, sorridendo divertito. «Sono un dio norreno. Sono un maschio. Seminare discendenza, è questo che ci si aspetta da me. E mia moglie si adatta alla mia visione fluida dell’esistenza. È lei, la Sposa, non io.»
«Comodo, così.»
Quanto, quanto fa male, eh, tesoro? «Quando ti sposi, acquisti il pacchetto completo, non solo quello che vuoi tu. Ma non temere. Il nostro sarà un matrimonio in bianco. Non offendiamo la Sposa, non offendiamo te, e diamo a mia figlia l’obbligo di starti a sentire.»

«L’abbiamo già fatto. Hai bevuto il mio sangue, ed io il tuo.»
«Quello andava bene per convincere il Viandante, tesoro. Lui è un tipo alla mano. Dagli una storia o una scusa per andare a farsi una sgambata, ed è tutto contento. Mia figlia è un tipetto più fiscale, e quindi dovremo fare le cose per bene.» Si schiarisce la voce, le accarezza distratto la carne bianca e morbida del polso, all’altezza delle vene che spiccano azzurre sottopelle, poi aggiunge: «Non avrai alcuna influenza, laggiù. Sarai straniera in terra straniera…».
«Sarò una vivente nel regno dei morti.»
«Errore. Saresti una ritornante nel regno dei morti», puntualizza lui. «Non c’è niente di più allettante per la Morte che riacciuffare una fuggiasca, non credi?»
Lei tace.

«Avresti dovuto venirmene a parlare subito», soffia fuori lui, con sincero rammarico. «Avremmo trovato insieme una soluzione, Fanciulla. E invece, no. Invece, adesso mi tocca raddrizzare il timone della tua barca, prima che punti in direzione sbagliata e tu finisca chissà dove…»
«La prossima volta verrò a chiederti consiglio.»
«Sei sempre ottimista, tu.» Pausa. «Prendi il sale, Fanciulla.»

Lo sguardo di Saori si posa su quei cristalli bianchissimi che spiccano contro l’ocra slavato per i troppi passaggi in lavastoviglie, poi ritorna a cercare quello del Fuoco, verde chiaro come cocci aguzzi di bottiglia in controluce. Siamo affilati, le dicono quegli occhi, ma, almeno, siamo onesti. E Saori decide di fidarsi. Si umetta la punta dell’indice destro, la sfrega contro il sale e attende che lui faccia lo stesso.
«Insieme» gli dice.
«Insieme», le risponde, e nello stesso momento assaporano quei cristalli di sale in punta di lingua.
«Adesso, il pane. Anche se questo è dolce, gli ingredienti sono gli stessi. Più o meno.»
Le porge la ciambella, e lei l’afferra per l’altra estremità.
«Insieme», le dice, e in un gesto unico la spezzano e ne mangiano ciascuno un pezzo. Quindi è la volta del vino, che le solletica labbra e palato e scende giù per la gola come una risata, fresco, avvolgente, fruttato. Anche Lui beve, svuotandolo, ed insieme, le dita dell’uno a contatto con quelle dell’altra, lo scagliano assieme sul pavimento.
E, in quel crash, Saori sente che qualcosa s’è allentato, dentro di lei. Come un anello di una pesante, pesantissima catena, che ha iniziato a cedere. Ad indebolirsi. È solo una sensazione, un’idea sciocca che le ha messo in cuore quel vinello frizzante e scanzonato; eppure, Saori vi si aggrappa con tutta l’anima, colla stessa forza del carcerato che vede spuntare una lama di luce da sotto alla porta della sua cella.

«Perfetto», dice Lui, con un tono dolce e melodioso, la sua mano destra ancora stretta nella sua. «Adesso sei la mia signora, Fanciulla. E senza macchiare il tuo ruolo.»
«Sigé. Si chiama sigé», puntualizza lei, la voce simile ad un sussurro. «Grazie.»
«Per così poco», ribatte Lui, prendendo il tappo della bottiglia dell’acqua e staccandone l’anello di garanzia. Se lo rigira tra indice e pollice, e poi, con un gesto lento e fluido, lo infila all’anulare della Fanciulla guardandola dritto negli occhi e stringendo le dita attorno a quell’anello di plastica sino a farlo diventare della sua misura.
«Il diavolo si annida nei dettagli», le spiega. «Consideralo un regalo da parte del tuo sposo.»
«Grazie.»
«Per così poco? Non c’è di ché, tesoro. Ma adesso, è ora di andare…»

Si alza, le porge il braccio e aspetta. E Lei, che aveva così tanta fretta prima di varcare la soglia del ristorante, adesso indugia. Non si torna indietro, non si può, questo significa quel braccio in attesa; e anche se Saori – e anche se Athena – se l’è ripetuto a lungo, negli anni, cercando in quella manciata di parole lo sprone ad andare avanti, sempre e comunque, adesso vorrebbe puntare i piedi come fanno i muli, e restare lì. Con lui. A ridere, a parlare, a lanciarsi in complicate e circonvolute schermaglie, bevendo il vino alla canna e divorando sino all’ultima ciambella, uscendo abbracciati da quel locale per perdersi per le stradine del quartiere e aspettare che il sole sorga oltre i Colli Albani, assieme a sognatori, gatti randagi e alla prima corsa del trenino dei Laziali.
Che fretta c’è?
Non hanno tutta l’eternità, davanti, quelli come loro?

Ma poi, il pensiero dei suoi Santi che aspettano, congelati in un eterno presente, le appanna il suo sogno ad occhi aperti. E i suoi occhi si velano. E il suo sorriso si spegne. E gli dice: «Andiamo», raccogliendo la borsa e appoggiandosi al suo braccio come avrebbe fatto un naufrago con un tappo sughero in mezzo al mare aperto.
«È lontano?», gli chiede, nel cuore la piccola speranza che il viaggio duri a lungo, che non si debbano separare subito, che.
Invece lui la gela: «Macché. È dietro l’angolo. Nella ghiacciaia.».

E stavolta Saori punta i piedi, proprio come un mulo cocciuto, tanto che lui è costretto a voltarsi e a fissarla da sotto in su. «Che c’è?», le chiede. Genuinamente perplesso. «Non avevi una fretta dannata?»
«Mi hai preso in giro.» Non è una domanda.
«No. Nossignore. Sono serissimo». Si sgancia con delicatezza dalla sua stretta, sentendo sottopelle la riluttanza delle dita della Fanciulla a lasciarlo andare, e le indica la sala da cui sono appena usciti e quella in cui sono entrati. «Il regno dei vivi e quello dei morti corrono su due binari paralleli. Questo perché la tua anima può finirci in qualsiasi momento, capisci?»
Lei annuisce. Ha senso. Pure troppo.

«Midgard e Helheimr sono vicini, ma il regno dei Morti è sia a nord che a sud. E per arrivarci, conviene passare per l’anello mancante.»
«Ossia?»
«Niflhel. L’Inferno delle Nebbie. Il luogo dove si smarriscono i malvagi, prima di arrivare da mia figlia. Sempre se ci arrivano.»
«Ma loro…»
Le posa un dito sulle labbra, come a dirle che sì, ha capito. «Sono i buoni, lo so. E non ho detto che loro si trovino lì. Ho detto che per arrivare da mia figlia, passare per Niflhell è la strada più breve…» Le sorride. «La cella frigorifera di questo ristorante andrà benissimo. Fidati.»
«Se ne sei sicuro tu…»
«Sicurissimo. La cella frigorifera è il luogo dove si conservano i cadaveri, in senso lato. E poi, Roma è stata fondata sul sangue.»
«Come tutte le città del passato. S’infilavano delle persone all’interno dei pilastri, e…» anche io ho rischiato di fare quella fine.

«Lo so», la interrompe Lui. «Ma ti sfugge un passaggio, tesoro.»
«Quale?», gli domanda, lo sguardo attento e smarginato per la voglia di capire, di conoscere.
«Quelli, erano sacrifici. C’era una liturgia, dietro, un rituale preciso, un cerimoniale, un gran daffare da parte di sacerdoti, indovini e compagnia cantante. La morte di Remo, almeno stando al mito, no. Era un assassinio in piena regola. Romolo non ha avuto remore ad ammazzare il suo stesso gemello, pur di fondare Roma. Pur di fondare il suo stesso regno.» Pausa. «Ti suona familiare?»
Saori annuisce, abbassando lo sguardo. «Sì.» E riportare a casa entrambi sarà un lavoro più complicato del previsto. «Ho come un senso di déjà vu…»
«Alla storia piace ripetersi», filosofeggia lui, stringendosi nelle spalle. «Andiamo?»
«E il conto, chi lo paga?»
Lui piega la testa da un lato, come a dirle: «Non starai cercando scuse per procrastinare il tuo dovere, Fanciulla?», poi risponde: «Io. A fine mese, come al solito. O pensi che metterei nei pasticci mia figlia?».
«No. Penso di no.»
«Bene. Allora, vogliamo andare? Sarà pure un matrimonio in bianco, il nostro, ma al viaggio di nozze non ci rinuncio.»

E, così dicendo, Lui posa la sua mano attorno alle sue spalle e, con delicatezza, la sospinge in avanti, verso le cucine.
Qui trovano solo il cuoco, una specie di anello mancante tra un uomo ed un cinghiale. Sta spignattando dietro ad un pentolone ribollente da cui si levano sbuffi di fumo e di sugo.
«Ehi», li apostrofa, abbassando il coperchio e brandendo il mestolo di legno come se fosse una spada e loro un bizzarro drago bicefalo. «Non si può entrare qui. Fuori!»
«Eddai, Patrì», gli risponde Lui con un sorriso. «Cerco Layla.»
«E sentiamo, un po’, che vorresti da lei, eh?»
«Niente. Sono suo padre, stai tranquillo.»
«Seh. Suo padre. E io sono il Papa.»
«Attento, Patrì. Ti si brucia il sugo all’amatriciana…»
Il Fuoco ha pronunciato quelle parole senza una particolare inflessione o un tono preciso, eppure, alle orecchie di quel cuoco irsuto e burbero risuonano come un ordine improrogabile, tanto che si volta verso i fornelli, dà un’altra rimestata nel pentolone, e riabbassa il coperchio come uno scudo.
«È fuori, a fumarsi una sigaretta», dice, dimenticandosi di loro.
«Ciao, Patrì», lo saluta, imboccando la porta che dà su un vicolo esterno, tra il ristorante e la casa allato, dove alcuni gatti stanno pasteggiando in un paio di scodelle di polistirolo.

Layla è lì, seduta sui talloni ad osservare quel filo di fumo salire a raggiungere lo scampolo indaco sopra alla sua testa.
«Com’era?»
«Buonissimo. Come sempre», ribatte il Fuoco. «Patrizio è un attrezzo mica da ridere, ma in cucina…»
Layla sorride, e in quello sguardo messo in cornice dall’eye-liner nerissimo Saori ritrova la stessa scintilla che anima quelli del Fuoco.

Le figlie assomigliano sempre ai padri, era solita dire la Madre fissandola con malcelata invidia, e adesso Saori comprende quanto quelle parole fossero vere. I colori sono diversi – pallido e nero, lui; mediterranea, lei – ma tutto, in quella ragazza, la ricollega a suo padre, se hai tempo e modo di fermarti ad osservare. Se sai cosa cercare. Una luce, un guizzo, un baluginio. Quello del fuoco che ti irride e ti attira, danzando al centro del focolare.
«Puoi aprirci la ghiacciaia?», le chiede Lui, e lei ribatte: «Certo», alzandosi e spolverandosi i pantaloni – il grembiule nero è appeso a qualche chiodo, in attesa di riprendere servizio, domani, stesso posto, stessa ora.
Fa loro cenno di seguirla e li scorta davanti ad una pesante porta zincata. Armeggia con la serratura e quando questa scatta, dice loro: «Fate in fretta. Non posso lasciarla aperta in eterno.».

Del vapore freddo fuoriusciva minaccioso da dietro lo spiraglio e si allungava verso di loro, come se una manciata di dita scheletriche protese a ghermirli per portarseli chissà dove.
Lui le scocca un’occhiata di sfida, come a dirle: «Te la fai sotto, tesoro?».
Certo che no, pensa Saori, facendo cenno a Layla di spostarsi e varcando la soglia della cella frigorifera. L’abbraccio del ghiaccio è come una doccia improvvisa, ti mozza il respiro e tu puoi solo fermarti, in attesa che tutto torni alla sua normalità. Ma il freddo non cessa, il corpo non si abitua, e a Saori non resta che cingersi il con le braccia e riscaldarsi come può, provando a non battere i denti.
«Lascia la borsa qui», le dice la voce del Fuoco, guardandola dalla soglia, accanto a sua figlia. «Non puoi portare nulla di metallico, con te.»

Lei fissa la borsa che le pende inerte al fianco come se fosse un oggetto alieno appena atterrato da un pianeta sconosciuto. «Ma… le piume…»
Lui entra, le dice «Posso?», e, senza attendere risposta, apre la borsa, vi fruga all’interno e ne estrae il suo lasciapassare. Una piuma di Muninn e una di Huginn.
Il Pensiero e la Memoria. Se devi sconfiggere il Citaredo, ne avrai bisogno, Fanciulla, le ha detto il Viandante affidandogliele. E adesso che quelle piume sono tra le mani del suo fratellastro, il quale se le rigira tra le dita, come a saggiarne la qualità – nemmeno dovesse farne l’impennaggio delle sue frecce, pensa Saori, - un timore tremendo – tremendissimo – le attraversa l’anima: e se Lui gliele distruggesse? E se quella fosse solo una sciarada, l’ennesima, dietro la quale trincerarsi per condurre il gioco secondo le sue, di regole?

Non farmi questo, lo pregano gli occhi di Saori, il fiato che si congela in gola, il cuore che rallenta i battiti e trattiene il fiato. Ma è solo un attimo, una nuvola passeggera che gli oscura lo sguardo e che, così com’è arrivata, passa oltre. Il Fuoco sorride e poi gliele appunta sullo scollo del vestito, bucando la trama di cotone e graffiandole appena la pelle.
«Ecco fatto», le dice, sfilandole la borsa di mano ed affidandola a Layla. «Noi andiamo.»
«D’accordo. Ci penso io», e una bizzarra certezza attraversa la mente di Saori: Layla ha trattenuto un mamma tra i denti.

Lei sa, si dice la Fanciulla, chiedendosi se in quel guscio minuto, fatto di carne e sangue, si nasconda la stessa volontà di potenza che ha animato Lukas, anni addietro.
Cosa sei, tu? Da che parte stai?
Ma Saori non ha tempo per sincerarsene. Layla sorride, augura loro buon viaggio e poi richiude la porta, lasciandolo al buio, tra quarti di bue appesi a ganci da macellaio come le cravatte allineate all’interno di un armadio. Quello del nonno…
«Fa freschetto, qui…», scherza lui, richiamandola al presente.
Trovi divertente la situazione?, pensa Saori.
«Hai le labbra violacee…» Lui le cinge le spalle, attirandola a sé. La sua mano si va facendo bluastra. «Stai bene?»
«Mai stato meglio», risponde, regalandole un brivido caldo sulla schiena. «Anche se ho contratto un patto di sangue col Viandante, resto pur sempre uno Jǫtunn. Un Gigante dei ghiacci. Spero che per te non sia un problema, la mia pelle azzurra…»
«No. Anzi. È bellissima», risponde lei solcando appena quella superficie liscia e azzurra come il mare di Grecia al mattino.
«Bene. Lieto di sentirtelo dire, tesoro.» I suoi occhi si vanno facendo ancora più verdi, ora che il suo retaggio sale a galla. È questo, il potere ammaliante delle sirene? È questo che vedevano i marinai, prima di affogare? «Ma adesso sarà meglio affrettarci. Abbiamo una strada lunga e ventosa da percorrere…»
E, così dicendo, si voltano e avanzano a braccetto, passo dopo passo, nella nebbia che si va facendo sempre più fitta, sempre più fitta, sempre più…



Capitolo denso, corposo e pregno di cose, questo.
Ho dato sfogo alla mia logorrea, ma mi sono messa una mano sulla coscienza e l'ho diviso in due. Non dite che non penso a voi!

Niflhel è, letteralmente, l'Inferno delle Nebbie. Essendo gli scandinavi un popolo di marinai, la Nebbia ed il Ghiaccio sono i mali per antonomasia. E siccome perdersi dentro un mare di nebbia, quando sei per mare, è la Disgrazia, va da sé che la loro fantasia abbia partorito un luogo infernale, alle radici dell'Yggdrasil, dentro il quale vi andavano a finire i malvagi, gli assassini e i ladri. La feccia più feccia che c'è, insomma. Nifleheimr, invece, è il Reame delle Nebbie, che si trova all'etremità nord dei rami di Yggdrasil. È un luogo di ghiaccio eterno, che spesso funge da anticamera per Helheimr, il Regno della Morte vero e proprio; ma mentre la strada per arrivare a Helheimr va sia sopra che sotto, e che in questo regno vi sia, sostanzialmente, la dimore di Hel, figlia di Loki, Niflheimr è il regno di Ghiaccio dove i dannati costruiscono Nagflar, una nave interamente fatta di unghie e denti dei morti. Quando sarà pronta a salpare, inizierà il Ragnarok (assieme ad un'altra mezza chilata di cosucce...).

La Sposa è la povera Sygin, colei che raccoglie in un bacile il veleno che cola su Loki, e che gli ha dato due divinità benevole sulle quali le fonti soprassiedono per raccontarci la loro tristissima fine. Narfi, la notte, finirà smembrato da suo fratello Váli (non pervenuto), trasformato in un lupo. Coi loro intestini, si fabbricherà la catena che legherà Loki alla roccia posta proprio sotto alla tana del serpente velenoso.
Famigliola allegra,
n'est-ce pas?


 
   
 
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