DRACO
MALFOY
“L’esame del
M.A.G.O. di Difesa contro le
Arti Oscure non sarà facile, soprattutto per chi di voi ha
già dichiarato di
voler proseguire gli studi in un qualche ramo specialistico della
magia. I
risultati della Seconda Guerra Magica sono ancora presenti in molti
ambiti
della vita quotidiana, e…”
Ma qui il cervello di Draco Malfoy si
disconnesse. Sapeva cosa sarebbe successo quando si fosse presentato
davanti
alla commissione d’esame: un ex Mangiamorte che fa
l’esame di Difesa contro le
Arti Oscure non aveva scampo.
Involontariamente si toccò
l’avambraccio
sinistro: poteva vederlo, percepirlo, quel marchio
della sua infamia. Lo
sentiva pulsante, vischioso, purulento, come una febbre che non
accennava ad
andarsene. No: poteva fare qualunque cosa, ma nessuno avrebbe mai
più visto
Draco dietro il giovane Mangiamorte Malfoy. Era per quello che aveva
finto un
malore il giorno in cui aveva saputo che avrebbero provato
l’Incanto Patronus:
sapeva che avrebbe fallito miseramente.
Vedendola da fuori non aveva avuto
un’infanzia
difficile: circondato da ogni lusso e comfort, era cresciuto
nell’idea di
essere parte dell’élite, nutrito a pane e
grandezza, servito e riverito in ogni
desiderio e capriccio. Tutti lo tenevano in grande conto: era
l’erede dei
Malfoy, un virgulto maschio che avrebbe portato avanti il nome nella
cerchia
dei Sacri Ventotto, un vero Purosangue, un sicuro Serpeverde, un nuovo
seguace
del culto della purezza nella trasmissione magica. Aveva tutto e tutti
attorno
a sé, tranne qualcuno che lo vedesse per quello che era: un
bambino che voleva
amore.
Si trattenne a stento dal dare un
pugno al
muro della stanza vuota nel quale s’era rifugiato, ma un
gemito di
esasperazione gli scappò comunque, e involontariamente
l’occhio gli cadde sul
Marchio, ben visibile dal braccio pallido oltre la manica arrotolata
(lusso che
ormai si permetteva solo quando non c’era nessuno nei
paraggi).
“Scusa, me ne vado
subito”
Teso com’era non
s’era accorto che in un
angolo della stanza, riparata da una pila di sedie sfondate,
c’era un altro
occupante – anzi, dalla voce era un’altra.
“Resta, me ne vado
io” disse Draco, mentre
a sguardo basso si dirigeva verso la porta.
Una mano lo trattenne per il polso
sinistro: non era una presa particolarmente forte, ma qualcosa gli
disse di
fermarsi, e così decise di voltarsi verso quella persona.
Era una ragazza di qualche anno
più
giovane, ma in realtà non si ricordava d’averla
mai vista – anche perché negli
ultimi tre anni era stato troppo impegnato prima a vantarsi e poi a
nascondersi
da quel che era diventato. Anche l’aspetto di lei, del resto,
non era dei più
appariscenti: dai capelli castani alla pelle bianchissima, dal fisico
minuto
fino all’abbigliamento curato ma senza insegne di Casa, era
talmente “normale”
da poter risultare quasi invisibile a chi, come lui, era attratto da
qualsiasi
cosa o persona che fosse fuori dall’ordinario.
“Tu non te ne
andrai” replicò lei, con
calma; il tono della voce, tuttavia, trasmetteva una tale nota di
fermezza che
Draco non seppe fronteggiare. Lei Appellò due sedie, fece
sedere Draco su una
mentre lei si accomodò su quella di fronte.
“Cosa
c’è che non va?” le chiese lei,
guardandolo dritto negli occhi con i suoi, calmi e castani, color
cioccolato.
“Che cosa diavolo sei,
un’aspirante
Magipsicologa da strapazzo?” sbottò lui.
Lei non si scompose. “No. Ma
capisco
un’anima tormentata quando ne vedo una.”
“Fatti gli affari
tuoi”.
“Con quanto è
accaduto l’anno scorso molti
di noi hanno perso la base sulla quale erano cresciuti: succede.
L’importante è
imparare dai propri errori, e riuscire a ripartire da zero”.
Il contatto visivo tra i due non
s’era
ancora interrotto. Draco non riusciva a capire come, ma sentiva che con
lei
poteva essere se stesso, lasciar cadere la maschera.
“Non so più chi
sono. Dopo quel maggio… non
sono mai riuscito a ritrovarmi. Sono cresciuto con un’unica
verità: la magia,
la purezza di sangue, la naturale superiorità dei maghi sui
Babbani. Non ho mai
avuto idee diverse, per il semplice fatto che non ne ho mai conosciute.
E il
mio futuro… mio padre l’aveva legato
indissolubilmente alle sue idee, e usava
me per ingraziarsi chi faceva comodo a lui. Ora non ho più
radici, non ho più
conoscenze, non ho più direzione, non ho più
niente. Mi sento una barca alla
deriva, e talvolta fatico a trovare un motivo per cui aprire gli occhi
la
mattina”.
Un lungo silenzio calò sui
due, e ci volle
un po’ prima che lei dicesse: “Sai, io ho un
problema simile” e mostrò un
braccialetto di metallo con attaccata una piastrina. Draco la
riconobbe: la
indossava chi soffriva di malattie inguaribili o maledizioni.
“Nella mia
famiglia il pensiero è simile a quello della tua: la
superiorità dei maghi, la
purezza di sangue. Eppure guardami: cosa mi rende migliore di tanti
Babbani o
maghi di ascendenze babbane? Non voglio che un pezzo di me si
impossessi di me”
Lo sguardo di lei si addolcì, e la sua mano sottile si
posò sul ginocchio di
lui. “Tu non sei un prolungamento di tuo padre, tu sei tu.
Cerca la tua strada:
certo, è faticoso trovare se stessi, ma se
c’è qualcosa cui tieni, e ci tieni
davvero, devi lottare con tutte le tue forze per raggiungerla. Se sei,
come hai
detto, una barca alla deriva, cerca un luogo dove gettare
l’ancora: da lì, da
quel punto fermo, potrai scrutare l’orizzonte e orientarti
fino ad un porto
sicuro. Tu ne hai la forza: devi solo volerlo”
Un suono lungo e perforante fece
scoppiare
la bolla tra i due. Non gli sembrava possibile che fosse passata
già un’ora da
quando aveva incontrato la ragazza.
“Mi sa che devo
andare” disse lui,
alzandosi dalla sedia. “Scusami se ti ho disturbato durante
lo studio”
Le scrollò le spalle.
“Non c’è problema:
tanto Pozioni non la capirò mai”. Mise una mano
nel borsone ed estrasse un
Cioccalderone. “Dolcetto?”
Draco sorrise e accettò. La
salutò con un
cenno e partì alla volta della lezione successiva, ma giunto
in fondo al
corridoio si ricordò di una cosa e tornò indietro.
Aprì la porta col fiatone.
La ragazza era
ancora lì, esattamente dove l’aveva lasciata,
sorridente.
“Scusami, sono un cretino,
non ti ho
neanche chiesto come ti chiami”
Il sorriso di lei si
allargò. “Io mi
chiamo Astoria. Tu?”
Lui rimase spiazzato. Possibile che
non lo
conoscesse? Ma, a ben pensarci, a volte non si conosceva neanche lui.
Così
rispose: “Draco”, senza cognome: se voleva trovare
se stesso, era meglio
cominciare dalla base.
“Ecco fatto, ma ora corri a
lezione o i
M.A.G.O. non li passi. Ci vediamo in giro, Draco”
“Oh… Okay, ci
vediamo… Astoria”
Quella sera, mentre era solo nel suo
dormitorio, provò a lanciare un Incanto Patronus pensando a
quegli occhi e al
Cioccalderone. E mentre sorrideva alla nube argentea, capì
di aver individuato
dove gettare l’ancora.
NdA: per
essere un capitolo di questa raccolta, è infinito! Come
già annunciato, Draco
Malfoy per me è un personaggio difficile su cui lavorare, e
c’ho impiegato un
po’ per inquadrarlo prima e cercare di delinearlo poi - anche
se non sono del
tutto certa di essere riuscita nella seconda parte. Comunque in una
vita come
la sua, dove tutto è stato spazzato via con la Seconda
Guerra Magica, ho
pensato che fosse improbabile che un pensiero felice fosse legato
all’infanzia.
Mentre leggiucchiavo qua e là, ho trovato interessante il
fatto che però lui
abbia lottato anche contro i suoi - in particolare suo padre - per
difendere il
suo amore per Astoria. Quindi, quale appiglio migliore per
“costruire” un
pensiero felice? Il fatto inoltre che Astoria abbia su di sé
questa maledizione
crea un curioso parallelismo con Draco, che (secondo me) sente il
Marchio Nero
come un fardello, una macchia dalla quale non può liberarsi
e con la quale è
costretto a convivere.
Lo
so che
sembra impossibile che Astoria non sappia il suo nome (anche
perché sono
entrambi Purosangue, quindi è più che probabile
che si fossero già incrociati,
anche in ambito extra scolastico), ma ho immaginato che volesse vedere
la sua
risposta.