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Autore: kissenlove    02/06/2018    1 recensioni
Lauren Castle a soli quindici anni era già una stella del lacrosse, sport che praticava fin da piccola, ma il suo sogno s'infrange alla vigilia di una partita importante. Scopre di avere la leucemia ed è costretta a rinunciare alla sua passione per stare costantemente sotto controllo, tra un ospedale e l'altro. Arresasi all'idea di essere un "malato terminale" e di non avere più speranze, trascorre le giornate nella sua stanza di degenza in compagnia di un soldato americano, ormai in congedo, a cui si lega molto. Sarebbe potuta continuare così, per sempre, ma a quanto pare il destino ha ben altri piani...
(ISPIRATO A UNA STORIA VERA.)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le corde del cuore'
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IN OGNI ATTIMO
– capitulo 2 – 











 
Era lì intrappolata in quel posto e non sapeva nemmeno come uscirne.
Aveva preso sonno faticosamente dopo che il dottor Tognetti le aveva comunicato che la lunga degenza era terminata e poteva tornare a casa, continuando però la terapia in day hospital. Poteva tirare un sospiro di sollievo, anche se piccolo, ma la guerra non era finita.  
Ed ora, dove diavolo era finita?
Non era spaventata, casomai confusa – aveva sempre desiderato esplorare posti sperduti, incontaminati, che non comparivano su nessuna cartina geografica. Si guardò intorno, ruotò in ogni dove lo sguardo. Un profumo soave le solleticò i polmoni. Si avvicinò a un fiumiciattolo che scorreva in quelle vicinanze e si mise ad osservare l'acqua e le pietruzze colorate sul fondo. Forse si trovava – se non la ingannava il senso d'orientamento – in una vallata ai piedi di una montagna. Trattenne il respiro decidendo di seguire il corso del fiume, e intanto sperava di trovare qualcuno in grado di darle indicazioni più precise.
Solo dopo un po’ si arrese all'idea di essere sola e che avrebbe dovuto contare solo sulle sue forze e continuò a camminare, senza sapere che meta seguire. Non aveva visto cartelli indicativi sparsi per il percorso, nella radura o segni sulla corteccia degli alberi che l'aiutassero a uscire da quella strana foresta. Una fitta coltre di rami e foglie faceva da ombra, impedendo al sole di penetrarla. Il fiume diventò un bacino d'acqua all'improvviso, e alzando gli occhi vide una cascata. Non piccola, grande quanto Niagara Falls.
Chiuse gli occhi lasciandosi trasportare dal suo rumore vorticoso, gli zampilli le bagnavano il viso e l'abito candido. Spostò i capelli lasciandoli ricadere sulla spalla opposta e mentre si inginocchiava la sua figura si specchiò nell'acqua. Il viso non era più emaciato e le guance erano più rosse di come ricordava. Doveva essere un sogno, non poteva essere guarita così di punto in bianco.
Si rialzò e prese una balza del vestito improvvisando una piroetta.
Perché non si svegliava? – si chiese, – cos'era successo? Il sogno stava durando troppo.
Prese a pizzicarsi il braccio e si fece male, emettendo poi un sonoro sbuffo.
"C'è nessuno?!" gridò sentendo la voce rimbalzare contro un vetro invisibile e tornare indietro come un frisbee.
Nessuna risposta. 
"Vi prego, c'è qualcuno?" tentò un'altra volta, con il medesimo esito.
Solo il fruscìo delle foglie e il rumore della cascata.
Svegliati, maledizione! – mentre parlava con sé stessa, sentì dei passi alle sue spalle.
Erano leggeri, levitanti dal terreno, e Lauren si immobilizzò. Contò mentalmente fino a dieci prima di girarsi. E se fosse stato... qualcuno venuto a farle del male? Non le era mai piaciuto rimanere sola nonostante il pallino fisso dell'avventura. Non era una fifona che se la dava a gambe, affrontava le sfide a muso duro. Una persona diversa da Lauren con la frase "ragazza, hai un cancro e c'è poco da fare..." si sarebbe buttata da un grattacielo. Lei no, lo sguardo fisso nelle lenti del medico e nessun piagnisteo. Nemmeno con gli aghi conficcati nelle braccia e la bocca amara come il fiele. Il suo corpo poteva sbriciolarsi nel lettino di una sala chemio, ma il coraggio le dava man forte. Stava passando la sua adolescenza così, fra corsie, terapie di ogni genere ed esiti spinosi... non era proprio una bella realtà per una che aveva solo diciassette anni. Ma andava bene, era il destino, a quello nessuno sfuggiva. Arrivò al numero otto e si voltò di scatto incrociando la figura di una donna. Aveva il braccio sollevato a mezz'aria in procinto di appoggiarglielo sulla spalla. Lauren osservò basita la causa vivente dei suoi mali. Restò immobile a contemplarla, poi tremò, scossa dai singhiozzi coprendosi la bocca con la mano. La donna la guardò, a sua volta. 
Lauren strinse le palpebre e le lacrime corsero lungo le sue guance. Quando le riaprì, la donna non si era mossa di un centimetro.
"N-n...onna?" 
La donna annuì e si avvicinò, sfiorandole appena le guance perché Lauren istintivamente si fece indietro.
"Non piangere, tesoro."
Ancora sulla difensiva. "No, no... io non..."
"Non dire niente. Sono io – aprì le braccia – sono tua nonna Lauren."
Lauren si fece coraggio e avanzò piano verso di lei. "Nonna... sei davvero tu?" 
Il suo cuore martellava nel petto. 
"Sì, in carne... ehm, spirito." si corresse, facendo una smorfia.
La giovane increspò un lieve sorriso e lasciò che quelle braccia la stringessero, si avvolgessero attorno alla schiena accarezzandogliela.
Era un miracolo o un'allucinazione post mortem?
Ogni paura svanì nella testa della ragazza. Cinta da quelle braccia non aveva bisogno di altro. Si staccò.
"Com'è possibile?"
"Non lo so, ma che importa adesso?" le fece fare una giravolta. "Ah, sei bellissima. Mi ricordi me, da giovane."
Lauren arrossì a quel complimento. Aveva conosciuto sua nonna solo attraverso i racconti del padre e del nonno e si era sempre sentita orgogliosa di chiamarsi come lei. Era come sentirla vicina anche se non c'era ed era incredibile che fosse esattamente come l'aveva sempre immaginata. 
"Dove siamo?" fu la prima domanda che uscì dalle sue labbra dopo il momento di stordimento.
"Siediti vicino a me – le tese la sua mano, che Lauren afferrò e si mise accanto a lei. In silenzio, guardavano il posto che le circondava, ognuna chiusa nei propri pensieri.
Lauren sentì il respiro cozzarle fra i denti pensando alla morte, e un brivido attraversarle la spina dorsale.
E se era davvero quella la ragione? Se quel fiume era l'accesso al paradiso e sua nonna era lì per farle da cicerone? Infondo era già uno spirito.
No, era un sogno, e presto si sarebbe svegliata nella solita camera, con il flacone affianco al letto. Si sentiva troppo pesante come un macigno e percepiva il suo cuore attraverso la stoffa del vestito. Non si era fermato. Non ancora. Appoggiò la mano sul petto per rassicurarsene, e lo sentì in quello strato di pelle.
"Nonna? Sono... morta? Devo attraversare la luce?" 
"No." 
La risposta la rilassò, ma non del tutto. Forse non era pronta oggi, ma un altro giorno si. Si sarebbe lasciata alle spalle la sua breve vita, e poi? Cosa avrebbe fatto per passare il tempo? Il tempo scorreva come sulla terra? Sicuramente sarebbe stata bene, o forse no. Il pensiero filosofico ed esistenziale che non trovava risposta in nessun libro.
"Non puoi venire. – si voltò nella sua direzione fissandola intensamente – e sai perché?" lasciò la frase in sospeso.
Lauren scosse la testa.
"Hai una missione, laggiù."
"Una missione?" ripetè stralunata. 
"Sì." 
Si guardò attorno. "E questo posto è il paradiso?"
La donna ridacchiò. "No, non è il paradiso. E' un posto frutto della tua immaginazione."
"Nel mio sogno ci sei anche tu?" chiese ancora la ragazza.
"Non hai sempre detto di volermi conoscere?" le ricordò.
Lauren corrugò la fronte. "Eccomi qui." continuò, accarezzandole una guancia.
"Mi leggi nel pensiero, nonna?" ironizzò la nipote distendendo la fronte. 
"So quali sono i tuoi desideri." rispose alzandosi in piedi. "E ti starò sempre vicina." alzò lo sguardo verso l'alto e sussurrò "è ora di andare, ho capito."
Prese a camminare, allarmando la giovane che scattò in piedi. "No, aspetta nonna! Non abbiamo finito di parlare."
"Non posso, tesoro – sbuffò – ho già sprecato molto tempo."
"Ma tornerai, vero?" chiese, speranzosa.
"Tornerò molto presto, te lo prometto."
Lauren la salutò con la mano, di nuovo in lacrime. Sentì il calore di un bacio sulla fronte, poi vide la sagoma svanire nell'aria e il dolore bussare alle porte del cuore.
Rimase a contemplare quel punto finchè qualcosa non la risucchiò come durante una materializzazione. Tornò a sentire la presenza delle lenzuola e le voci degli infermieri di turno fuori il corridoio. Provò a sollevarsi ma il pigiama le si attaccava addosso, era in un bagno di sudore e con il respiro corto. Si girò verso la finestra e notò che non era ancora sorta l'alba. Alzò il volto e vide la sacca già pronta per essere attaccata al cataterino sul suo dorso. Con una mano si strofinò un occhio e si tirò su con l'altra, mettendosi seduta. 
Il signor John dormiva placidamente nel letto di fronte al suo. Spostò le coperte afferrandosi all'asta e accusò un piccolo capogiro e una fitta al collo, a causa della posizione scomoda.
Silenziosamente prese una sedia e sedette al capezzale di John Foster con cui condivideva la camera. Gli accarezzò il mento, ricoperto da una sottile peluria e quel leggero contatto lo ridestò dal sonno. Instintivamente girò la testa e fece un lieve sorriso nella direzione della ragazza. Si tirò su con i gomiti, appoggiandosi con un tonfo al letto tramortito dall'anestetico.
"Come sta?"
"Come uno ch'è stato operato qualche ora fa..." si allungò verso l'interrutore e accese la luce sopra la sua testa. "Non riesci a dormire?"
Lauren fece una smorfia. 
"Lo prendo per un sì." dedusse, cercando di spostarsi e farle un po' di spazio.
"Non dovrebbe riposare?" obiettò la giovane, incrociando le braccia al petto. "E sopratutto non muoversi?"
"Oh, non preoccuparti." 
"Lei è veramente testardo." l'accuso prima di stendersi affianco a lui. John rise, e questo gli costò una sleale fitta.
"Non mi far ridere, piccola. Mi fa ancora male." 
"Così impara."
John sospirò, avvolgendo un braccio attorno alla sua schiena stringendola forte. E in quella posizione Lauren si addormentò.  
Si era sentita a suo agio dall'inizio, nonostante John fosse più grande. Appena entrata in quella camera, visibilmente giù di morale, aveva trovato lui, il suo punto di riferimento, il faro nel buio e una spalla su cui piangere. Come dire? Bisogna davvero cadere per imparare a volare? Non si aspettava di trovare dove non si sarebbe sognata di cercare, e invece, John era lì.
Era sempre stato lì, nella camera 130 di un ospedale oncologico. E l'aveva aspettata per stringerla, come in quel momento, facendole sentire tutto il suo amore paterno. Si mosse appena sentendo i lievi richiami dell'uomo. Si rialzò di scatto guardandolo preoccupata. Lui le indicava le due sacche di urina che penzolavano.
Erano di colore rossastro.
Si chinò per spingerle sotto il letto e prese posto sulla sedia.
"E' normale che siano di colore rosso?"
John afferrò il tubicino e lo strattonò piano. "Non lo so." indicò il lavaggio. "Questa dovrebbe pulirmi."
"Ma cos'hai esattamente?"
John sospirò e spostò lo sguardo oltre la finestra.
"I medici non mi dicono nulla, ma so che se non mi sottoporrò a un altro intervento per me sarà la fine."
"Signor John, non pensi negativo!" esclamò Lauren, prendendogli una mano. 
"Perché dovrei farmi bucare le braccia? Per farmi stare un altro po' qui?"
Lauren chinò la testa. Aveva ragione. Quando scopri di essere malato devi preparati all'inevitabile e non importa quante esperienze o quanti progetti sognavi di realizzare, dimenticali prima che questo ti distrugga ancor prima del tumore.
"Forse deve starci, signor John. Non è ancora il suo momento." profetizzò la giovane, ricordando vagamente il sogno.
"Sono stanco – singhiozzò, stringendo forte la mano di Lauren – Voglio riposare in pace finalmente."
Il suo sguardo si illuminò un istante. "Tu invece hai ancora tanto da dare, piccola. Non ti devi arrendere."
"Anche lei. Usciremo insieme da questo posto." l'apostrofò decisa.
John cambiò discorso. "Ho visto che il dottor Tognetti è venuto a parlarti. Ci sono delle buone notizie?"
"Buone e cattive." fece Lauren.
"Dimmi quella cattiva prima."
"La settimana prossima ho il nuovo ciclo."
"Oh..." si limitò a dire. "E... come ti senti? Bene?"
"Come al solito." minimizzò.
"E la buona?"
Lauren fece un respiro profondo, poi parlò. "Lunedì verrò dimessa."
"Oh, tesoro, che bellissima notizia!" cinguettò, abbracciandola di slancio. Quando si staccò, s'irrigidì e accusando un forte colpo nelle costole svenne, allarmando la povera Lauren che si affrettò a suonare il campanello delle emergenze.

























(...) 

Aveva vinto, di nuovo. Aveva sferrato un poderoso attacco, dopo aver indebolito la difesa avversaria e il pallone era finito dritto nella rete spiazzando il portiere. Il pubblico era esploso in un'ovazione, mentre i compagni gli correvano incontro per sollevarlo fra le loro braccia. Alzò il pugno nel cielo e si tolse la divisa, mentre i muscoli guizzano sotto la sua pelle grondante di sudore. Era quella la sensazione di cui non poteva fare a meno neanche tra un milione di anni. Era la sua valvola di sfogo, lo aiutava a liberare la mente, a sentirsi forte. 
Non nascondeva a sé stesso di desiderare un futuro brillante come calciatore, ma per il momento gli bastava gareggiare nei piccoli tornei scolastici, dopotutto aveva solamente diciotto anni. Guardò in direzione della panchina, vide il mister che esultava e lo applaudiva, fiero delle sue finte e della sua azione in mezzo al campo. Il fischiò ne decretò la fine. 
Adam bevve prima poi si rovesciò la bottiglietta d'acqua sulla testa.
Il mister si avvicinò e gli diede una pacca amichevole sulla spalla.
"Clarke, complimenti. Ti sei superato anche stavolta."
Adam prese l'asciugamano che gli stava porgendo l'uomo e se la mise attorno al collo. "E' stata una bella partita." commentò.
"Mi aspetto altri tre goal la prossima volta." scherzò facendogli l'occhiolino, poi si allontanò dopo avergli dato un'altra manata.
"La prossima volta ti smonta la spalla il mister!" disse Jimmy, il suo amico. 
Adam fece una smorfia. "Probabilmente."
"Tu ci verrai alla festa dopo?" 
"Quale festa?"
"Il mister vuole festeggiare ed ha invitato l'intera squadra in un famoso night club di Dublino."
Adam si grattò la nuca. "Ma domani abbiamo scuola." gli ricordò prontamente lui, accucciandosi a terra per legarsi i lacci delle scarpe.
Jimmy si portò una mano alla bocca. "Oh, diamine! E' vero. Come facciamo? Dobbiamo inventare una scusa e alla svelta."
"Nemmeno se fossi in punto di morte." mormorò all'orecchio dell'altro, per non farsi sentire dagli altri.
Era da quando aveva memoria che la madre gli stava appiccicata come una chewing alla scarpa.
Aveva provato a metterle in testa che ormai era cresciuto e non c'era bisogno che si preoccupasse, ma era tutto inutile. La sua paranoia spesso raggiungeva livelli preoccupanti, tanto che stava pensando di portarla da uno strizzacervelli.
Jimmy battè il piede sul terreno.
"Non puoi semplicemente dire "ciao mamma, non so se te ne sei accorta ma ho diciotto anni non cinque?"
"Sì, ci ho provato. Tentativo fallito." sibilò fra i denti. La spalla risentì di un'altra manata. Adam si voltò per protestare e incrociò il volto del portiere della squadra avversaria.
"Congratulazioni Clarke." una breve stretta di mano, un gioco furtivo di sguardi dall'uno e dall'altro, con Jimmy in mezzo che non aprì bocca.
"La prossima volta vi batteremo." l'americano strinse il pugno, colpendosi il petto.
Adam sollevò il mento.
"Questo è tutto da vedere, Jonson." fu la risposta secca dell'altro, che preso sottobraccio il povero Jimmy, gli diede le spalle e si incamminarono verso gli spogliatoi.

Si trovarono tutti nello spogliatoio, stanchi ma euforici di aver vinto, mantenendo intatto il buon nome dell'istutito. Mentre toglievano scarpini e divise si scambiavano battutine e impressioni sulla partita e sui tre goal segnati da Adam. Quest'ultimo si era infilato nella doccia in compagnia di Jimmy, che era entrato nell'altra.
"Secondo te, dovrei chiederle un appuntamento? Insomma, dovrei fare il primo passo?"
Adam gli passò da sopra la bottiglietta con lo shampoo.
"E chi sarebbe la fortunata?"
In evidente imbarazzo, Jimmy preferì continuare ad insaponarsi.
Ad Adam bastò sollevarsi sulle punte dei piedi per scrutare il suo compagno, che nascondeva la faccia nel ciuffo bagnato.
"So che m-mi prenderai in giro..."
Adam sbattè le palpebre stranito dal suo comportamento. 
"Non ti ho mai preso in giro." gli disse deciso, appoggiandosi con le braccia. 
"Una volta sì, però."
"Avevamo cinque anni, genio." lo corresse Adam.
Jimmy chiuse la manopola e cercò di arpionarsi al muro per raggiungere la faccia dell'altro.
"Giurami che non mi prenderai in giro."
"Lo giuro. E dammi la bottiglietta già che ci sei." – prese il flacone e tornò rapidamente con i piedi ancorati sul piatto della doccia.
"E' una ragazza di quarta. Quella che gioca nel circolo di lacrosse." cominciò.
"Abbiamo pure un circolo di lacrosse?" chiese, togliendosi la schiuma dalla faccia.
"Non te ne sei mai accorto?" proferì incredulo l'altro.
"Ero troppo preso dagli allenamenti." si difese. "A quanto pare voi altri eravate presi da altre.... ehm... cose?" gli fece notare, sentendo poi uno stizzo di tosse provenire dall'altra doccia.
"Comunque – riprese – la ragazza si chiama Megy." poi terminò facendosi scivolare contro le mattonelle fino a terra. "Cosa diamine faccio? A me piace... e... "
"Perché non smetti di far lavorare questo tuo cervello?" 
"Che intendi dire?"
Adam chiuse l'acqua. "Vai da lei e glielo dici."
"Sei completamente pazzo! E se mi respinge? La mia povera autostima ne risentirebbe..." mormorò nascondendo il volto fra le ginocchia.
"Segui il tuo cuore."
"E' facile per te." – sussurrò Jimmy, ottenendo un'occhiataccia dallo specchio. "Ti sei mai innamorato?"
Si sentì pungere proprio lì, nel suo punto debole. Colpito e affondato, ma non era di certo colpa sua se non si era mai preoccupato di rimorchiare qualcuna, casomai il contrario visto che aveva uno stuolo di ammiratrici che tifavano per lui dalla tribuna, ad ogni sessione di allenamento. Non avevano occhi che per lui, si sentiva lusingato da tante attenzioni e dal fatto che si ricordassero persino che il 17 dicembre fosse il suo compleanno e facevano a gara per portargli un regalo. Sembravano delle api accanite sullo stesso fiore, desiderose di assaggiare quel nettere prelibato, e il pensiero lo faceva rabbrividire. Per Jimmy era esilarante, anche lui avrebbe voluto uno stuolo di corteggiatrici, invece l'unica ragazza su cui aveva messo gli occhi non sapeva neppure che esistesse. Adam era concentrato su altre cose per pensare a farsi piacere una ragazza e quelle che aveva gli bastavano. Era troppo stressato e non voleva finire al tappetto per una donna, come Jimmy, che non faceva altro che singhiozzare sulla sua spalla come un perfetto idiota. L'amore rendeva stupidi. 
"Vedendoti no, e lo preferisco." tagliò corto.
"Immagino sia una vera impresa trovare l'anima gemella. Ma è una fortuna essere corrisposti!"
"Ti prego..." 
"No, davvero!" continuò, seguendolo per tutto lo spogliatoio facendo ridere il resto dei compagni.
"Non è che siete...?" s'intromise il portiere, lasciando la frase in sospeso mentre mimava un bacio fra i due.
"Ma che vi siete fumati?!" sbottò Adam, lanciandogli contro un pallone.
Jimmy ridacchiò sinistramente, afferrandolo per il collo e spingendolo contro di sè. "Non sarebbe tanto cattiva come idea."
"Sei fuori – se lo staccò di dosso e preso il suo borsone andò verso la porta.
"Non vieni al club, Adam?" lo richiamò il portiere.
"Vedrò di esserci."
Uscì dalla palestra e raggiunse a passo svelto la macchina. 














Venti minuti dopo inserì le chiavi nella toppa di casa ed entrò.
"Sono tornato!"
La madre stava preparando la cena e suo padre ascoltava attentamente le notizie del telegiornale. Lasciò un bacio sulla fronte alla madre e appoggiò la sua mano sulla spalla del padre, distogliendolo da quello che stava vedendo. Si sedette sul divano dopo aver recuperato una lattina di aranciata dal frigo.
"Com'è andata la partita?" chiese sua madre.
"Abbiamo vinto." disse, mostrando il suo pollice ad entrambi.
Sua madre increspò un sorriso. "Allora vai a farti una doccia che preparo qualcosa per festeggiare."
"Questa sera no." il sorriso della donna si spense e il mestolo le scivolò dalle mani finendo sul pavimento. Si portò una ciocca dietro l'orecchio con fare piuttosto impacciato, come tutte le volte che il figlio le diceva che usciva per andare in qualche locale, dove l'unica cosa che si faceva era ubriacarsi e portarsi a letto qualche "buona donna". Sapeva che il figlio era grande, aveva preso la patente, stava diventando una promessa del calcio giovanile, ma l'idea che facesse qualche cazzata le toglieva la tranquillità. Raccolse il mestolo e lo poggiò sul tavolo sospirando, per calmarsi.
"E' stato il mister. Ci ha invitati a mangiare una pizza per festeggiare." spiegò Adam. 
"E dove andrete?" lo interruppe il padre, azzerando il volume della televisione.
"Un locale, papà."
"Un nigh club, vero?" 
"Mamma..." la richiamò Adam. 
La donna non poteva nascondere la sua preoccupazione, ma prima o poi, il figlio avrebbe lasciato il nido ed era giusto che cominciasse fin da ora ad accettare l'idea. Dopo qualche secondo di silenzio rialzò il volto.
"Ti lascerò la cena, se avrai voglia di mangiare al tuo ritorno."
"Mi lasci andare?" chiese stupito il giovane. La donna annuì in risposta cercando lo sguardo del marito, ancora seduto sul divano. Gli fece un cenno, e l'uomo si alzò disponendosi davanti ad Adam. Si chinò per mettergli le mani sulle spalle e lo guardò fisso negli occhi. "Sei abbastanza grande per prendere le tue scelte adesso. Va' ma scegli bene, perché qui si decide il tuo futuro figliolo."
"D'accordo, papà." rispose corrugando la fronte.
Prese le chiavi sul mobile, salutò velocemente i genitori e si chiuse la porta alle spalle.
Prima di partire prese il cellulare e inviò un messaggio a Jimmy, sperando che riuscisse a leggerlo in tempo – bradipo com'era – prima di raggiungere il suo isolato. 




















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come scritto in precedenza, questo è il mio angolo autrice, La storia la potete trovare anche sul mio profilo wattpad "kissenlove". Questa storia, come ho già scritto, è dedicata a mio padre e a tutti coloro che hanno il coraggio di affrontare e sconfiggere questa malattia. Il personaggio di Lauren, a cui tengo molto, è basato un po' su di me, quello del signor John su mio padre, e quello di Megy sulla mia idea di amicizia. Mi piace anche il fatto di non aver creato Adam, il classico bad boy, ma un ragazzo che non ha mai amato, e che imparerà a farlo quando incrocerà Lauren. Bene, se vi piace lasciate qualche commento. E vi ricordo che potete seguirmi anche su Facebook. Vi prego, inoltre, di non copiare questa storia perché è coperta da copyright, e potreste essere perseguitati dalla sottoscritta. 

Baci. Kiss.






 
   
 
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