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Autore: Nina Ninetta    04/06/2018    8 recensioni
Viola è una ragazza disposta a tutto pur di conquistare il cuore della persona che ama, anche fare qualcosa di stupido come fraternizzare con il "nemico", ma talvolta ciò che noi detestiamo può rivelarsi un'autentica benedizione. La giovane si ritroverà a fare i conti con i problemi tipici degli adolescenti, un amore a due facce, un'amicizia persa e una madre emotivamente scompensata.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 7
Concetto di famiglia

 
Mi ritrovai lì, a casa di William, a cena con quelle persone, e non sapevo neanche come c’ero arrivata.
Osservando la mamma di Willy e di Lu mi resi conto che doveva essere più giovane di quello che avevo creduto in un primo momento. Al massimo 45 anni. La pelle era chiara, non come quella dei figli, i capelli tinti di biondo raccolti in un piccolo codino, il naso un po’ troppo grande per la forma smilza del viso. Gli occhi castani erano contornati da occhiaie e aveva l’aria stanca di una persona che si ammazza di lavoro.
E il padre, in tutto questo, dov’era?
Mangiai in silenzio quello che mi veniva offerto, ringraziando e partecipando da spettatore non pagante ai loro discorsi famigliari: le clienti di Lu e le loro bizzarre idee sulla vita; la giornataccia della mamma costretta a fare centinaia di caffè al bar e a rimbalzare da un negozio all’altro con un vassoio colmo di tazzine fumanti e traballanti. Poi fu la volta di William, che quasi sotto minaccia raccontò, forse per l’ennesima volta, come si era procurato quell’occhio nero e io mi sentii terribilmente in colpa.
«Te l’ho già detto, mamma!» sbuffò, «oggi, durante la partita, ho litigato con un giocatore dell’altra squadra».
«Come si chiama? Lo conosco?» la donna si alzò per accendersi una sigaretta e scrutò da vicino l’occhio del figlio. «Gli darei una lezione che non scorderebbe più!»
«No, mamma, non è di qui.»
Abbassai lo sguardo sulla mani intrecciate in grembo. Sapevo che avrei dovuto fare le veci della mamma di Willy l’indomani, questa volta Cris aveva davvero passato ogni limite.
Quando rialzai gli occhi mi ritrovai quelli scurissimi di Lu puntati addosso.
«E tu?» mi chiese e io mi guardai attorno spaesata, premendomi il palmo sul petto.
«I-io?»
«Si, tu. Sai chi ha dato un pugno a mio fratello?» abbozzai un sorrisetto, tutti quegli occhi neri mi fecero salire la temperatura e non era difficile immaginare le mie scocche tinte di rosso per il disagio.
«Certo che no. Come potrei?» Lu continuò a fissarmi fino a quando Willy si alzò, bevendo del caffè, quindi disse che era meglio andare via, erano già le nove e trenta passate.
Sollevai un’occhiata meravigliata su di lui, non mi aspettavo che mi avrebbe riaccompagnato a casa, in fondo per quale motivo avrebbe dovuto farlo? Cosa gliene importava di me? Invece sorrise, divertito:
«Non avrai pensato che ti facessi tornare a casa da sola a quest’ora?»
Anche le altre due donne presenti sghignazzarono:
«Oh bambina, la prima cosa che ho insegnato a mio figlio è il rispetto per il prossimo, ma soprattutto a essere un gentiluomo» la donna spense la sigaretta nel piatto dove aveva consumato una fetta di torta di mele e gli carezzò la guancia, baciandogliela e raccomandandogli di non tardare, il meteo portava pioggia in nottata.
Lu si alzò lentamente, tenendosi la pancia e facendo una smorfia, la osservai preoccupata e lei sorrise:
«Dopo cena si mette sempre a buttare calci» suo fratello la sorresse per un braccio e l’accompagnò alla stanza di fronte alla cucina, io li seguì a ruota, ritrovandomi in una camera matrimoniale, con un letto a due piazze, un armadio di legno scadente e una culla. Nient’altro. La ragazza si sedette sul bordo del letto, facendo dei respiri profondi:
«Con tutti questi calci» smorfia di dolore, «mi sa che nascerà con la stessa passione dello zio maggiore» aggiunse e Willy sorrise, felice, quasi sperando che fosse davvero così.
«Lu, ti spiace se prendo il tuo…?»
«Fai pure. È una vita che non lo metto in moto. Le chiavi sono sul mobile all’entrata.»
Salutai e ringraziai più e più volte, per tutto, la signora mi rispose con fare superficiale, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo ospitare una perfetta estranea portata senza preavviso da suo figlio.
Che fosse già accaduto altre volte?
 
Seguii docile docile William sul retro della casa, dove l’unica fonte di luce veniva da un lampione giallo in strada. Con uno scatto secco scoprì da un telo zuppo di pioggia un motorino blu – un vecchio Free a essere precisi - non proprio in pessimo stato, ma neanche nuovissimo. Vi montò sopra  mentre cercava di metterlo in moto, ma il veicolo rombò un paio di volte con scarsi risultati.
«E dai, bello. Accenditi, dai!» farfugliò e io feci un passetto avanti, le dita delle mie mani erano diventate violacee per quanto le stavo stringendo. Mi schiarii la gola a mo’ di introduzione, il motorino morì ancora dopo un altro sussulto.
«Che vuoi Celeste?» cielo e quanto mi irritava quando faceva così, eppure vi lessi una punta di cinismo nella sua voce che non avevo mai sentito prima. Mi feci forza e dissi:
«Credo di doverti delle scuse, io non-»
«Si, esatto!» mi interruppe mentre il rombo del veicolo squarciava l’aria impregnata di umidità e di odore di pioggia. «Mi devi delle scuse, tante scuse in realtà, per tante cose. Innanzitutto per l’occhio nero che il tuo bello mi ha fatto e se non ho reagito, se non l’ho riempito di botte, è stato solo per il posto in squadra, la stessa squadra da cui è stato messo fuori rosa.»
«Fuori rosa? C-che significa?»
«Significa che resterà fuori per tre mesi. Significa che non si allenerà con la squadra per tre mesi. Che non giocherà le prossime partite, fino alla fine del campionato regionale.»
Mi venne un colpo.
Christian doveva essere distrutto per quella situazione e tutto per colpa mia.
Stavo portando alla rovina la persona che amavo.
«Beh, almeno sarai contento di aver raggiunto il tuo obiettivo, no?» mi stavo innervosendo e la rabbia crebbe quando vidi quel sorriso furbetto increspargli le labbra.
«Si, ho finalmente il posto che mi spetta, quello da titolare, così le migliori squadre del mondo potranno vedermi giocare e magari, chissà…»
Era tutto così sbagliato. Cris non avrebbe avuto quella stessa opportunità e a fargliela perdere ero stata io.
«E mi devi delle scuse per avermi dato del maniaco» già, pensai, in effetti avevo fatto proprio una pessima figura e poi come mi era passato per la testa che qualcuno potesse desiderarmi. Come mi aveva detto Christian, quelli come William non vanno dietro a quelle come me, ad una ragazza che si comporta e si veste alla stregua di un maschiaccio e che si tinge i capelli di rosa. Di viola, pensai, avrei dovuto tingermeli di viola e allora si sarei stata lo zimbello del paese.
«Inoltre» iniziò «questa è l’ultima volta che ti do’ una mano, la prossima rivolgiti ai tuoi amici» lo disse tranquillamente, ma mi sentii ferita e improvvisamente mi resi conto di non avere più amici a cui rivolgermi. «Sembra che il motorino si sia ripreso» mi fece un cenno con il capo. «Dai, andiamo.»
Ero già stata passeggera di mio fratello. Sapevo che dovevo mantenermi a colui che guidava per montarvi su e che mi sarei dovuta attaccare al suo giro vita per non rischiare di cadere all’indietro, durante il tragitto. Quindi gli poggiai una mano sulla spalla per issarmi sul seggiolino, lui aspettò che mi fossi sistemata al meglio e si avviò. Mi aspettavo una sgommata o un’accelerazione improvvisa, invece tenne un andamento basso e costante per l’intero percorso. Gli circondai la vita con le braccia mentre uscivamo dal retro di casa sua e ci immettevamo sulla strada.
«Ehi, Verdina, attenta a dove metti quelle mani» sghignazzò e io sentii un gran calore invadermi la faccia.
«Sei un cretino!» esclamai imbarazzata e lui rise, spontaneo e schietto.
Eravamo partiti da poco, stavamo appena uscendo dal quartiere in cui abitava, quando gli chiesi il motivo per cui Christian lo aveva picchiato.
«Mi ha detto che ci aveva visti vicino alla recinzione scherzare insieme e che non dovevo più permettermi di toccarti con le mie “luride e sporche mani”. Ha usato proprio queste parole. Non è molto simpatico il ragazzo.»
Non era da lui, non era da Cris dire certe cose, mentre ripensavo a Willy che mi pizzicava la pancia e mi tratteneva afferrandomi per la t-shirt, sussurrandomi all’orecchio sciocchezze; tuttavia visti da fuori dovevamo sembrare impegnati a dirci chissà quali cose… e in quel momento gli stavo schiacciata contro la schiena.
«Quando gli ho detto che non erano fatti suoi perché eri la mia ragazza e non la sua, a meno che non ti volesse e allora avremmo dovuto batterci a duello come facevano i cavalieri per prendere in sposa la principessa del regno, lui mi ha dato un pugno.»
«E tu?»
«Sono caduto sul pavimento e mi sono messo a ridere, mentre il mister gli intimava di togliersi la maglia e di lasciare lo spogliatoio.»
Adagiai la tesa sulla sua spalla, sentivo la stanchezza invadermi come una droga, troppi pensieri, troppi casi irrisolti, troppe domande senza risposta. Chiusi gli occhi e provai a rilassarmi e, forse annebbiata dal sonno, gli chiesi una cosa molto personale:
«Willy» lui mugolò, avvertii il rimbombo contro le sue scapole. «Dov’è tuo padre?»
«Se n’è andato con un’altra» rispose in tutta tranquillità. «Un giorno è scomparso, portando con sé tutti i risparmi di una vita e l’intero guadagno che ci aveva ricavato vendendo l’appartamento in centro in cui abitavamo» alzai di colpo la testa, improvvisamente vigile.
«Vuoi dire che non hai sempre vissuto qui?» lui rise.
«Certo che no, Azzurrina! Tutte le persone che vedi in questo quartiere ci stanno perché il destino gli ha giocato un brutto scherzo: banchieri sul lastrico, avvocati indebitati fino al collo, ingegneri con il vizio del gioco d’azzardo. E poi ci siamo noi, un’ex direttrice di un albergo a cinque stelle che si è ritrovata in mezzo alla strada con un figlio di due anni, un altro di dieci e una ragazzina di tredici.»
«Tua madre era una direttrice? E perché non ha continuato a lavorare lì?»
«Perché era uno scandalo che non potevano concedersi a quei livelli e con i quattro spiccioli che gli hanno dato dopo averla licenziata ci siamo trasferiti qui, comprando una delle poche case decenti.»
Parlava con una tale naturalezza che mi faceva sentire ancora più triste. Spinta dalla sua tranquillità nel parlare di argomenti così delicati e intimi, gli chiesi di sua sorella Lu.
«Il suo fidanzato non si è voluto prendere la responsabilità del bambino, le aveva detto di abortire o non lo avrebbe mai più visto. Ma mia madre…»
«… ha risposto che non è un’assassina e che neanche sua figlia lo sarebbe diventata. Giusto?»
«Te lo ha detto Lu? È strano, di solito non si confida con chi non conosce. Devi averle fatto propria un’ottima impressione, Cappuccetto.»
Restammo in silenzio fino a quando si fermò davanti casa mia. Lungo il tragitto mi resi conto di quanto fossero distanti le due abitazioni e non feci che pensare a tutte le volte che mi aveva accompagnato e poi doveva aver fatto quei due, forse tre chilometri a piedi per tornare indietro.
Scesi dal mezzo e lo ringraziai con un filo di voce, mi augurò la buona notte e andò via.
 
Appena prima che potessi inserirvi la chiave, la porta d’ingresso di spalancò e per poco mio padre non mi travolse con due borsoni in entrambe le mani. Mia madre era in piedi, al centro del soggiorno, che gli urlava contro e gettava sul pavimento i portafoto che li ritraevano insieme, infrangendosi in mille pezzi.
«Papà, ma che?»
«Me ne vado! Mi dispiace lasciarti qui con questa… questa puttana di tua madre, ma io sono arrivato al limite della sopportazione!» dall’interno arrivò un urlo e un altro tonfo, forse un portafiori, forse quello di ceramica che mio padre le aveva regalato per festeggiare il loro decimo anniversario.
Cercai di fermarlo, afferrandomi al giubbotto, seguendolo fino alla macchina, chiedendogli fra le lacrime di rimanere, di non lasciarmi, avevo bisogno di lui, era uno dei pilastri della mia vita. Con rabbia buttò le valigie nel bagagliaio dell’auto e fece il giro, liberandosi della mia presa con una spinta, quindi si infilò nell’abitacolo, mise in moto e uscì a retromarcia dal vialetto, sgommando e scomparendo al primo incrocio.
«Figlio di mignotta!» mia madre era corsa in strada, i capelli lisci di solito perfetti erano scompigliati e sudaticci. «Sei un figlio di puttana!» 
Nel vicinato qualcuno si affacciò alle finestre, qualcun altro si limitò a sbirciare oltre le tende; presi mia madre per le spalle e la portai dentro, attenta a non calpestare i vetri sul pavimento. Dal piano di sopra proveniva la musica rock a tutto volume di mio fratello, ma di lui neanche l’ombra.
La feci sedere in cucina e le tirai indietro i capelli, scoprendole il viso macchiato di mascara. Mi abbracciò:
«Tu non mi lascerai, vero amore? Tu resterai per sempre con la tua mamma, vero tesoro?»
«Si, mamma, si.»
In quel momento provai pena per lei, odio per mio fratello e rancore verso mio padre che mi aveva lasciato da sola ad affrontare una situazione troppo grande e complicata per una ragazza della mia età.  

 
*****
 
Mi tuffai, prendendo la rincorsa, senza cuffia né occhialini e con i capelli sciolti. Riemersi un metro più in là e iniziai a nuotare come mi pareva: a rana, con lunghe bracciate, sul dorso. Rimasi così, a pancia in su, a fissare il cielo azzurro oltre il soffitto trasparente e la luce del sole che vi sbatteva contro, illuminando la struttura e riscaldando l’acqua.
Quella sarebbe stata l’ultima settimana che avevo a disposizione per prepararmi al meglio e vincere la gara che si sarebbe tenuta domenica.
Era il mio traguardo, il coronamento di un anno di duro allenamento durante il quale il mio istruttore mi aveva chiesto di metterci l’anima. Proprio a me, diceva, ci teneva particolarmente perché avevo bisogno di sentirmi forte “perché lo sei”, affermava, “hai un potenziale che neanche immagini e non sto parlando solo di sport. Impara a volerti bene”, soleva consigliarmi, “impara a contare prima sulle tue forze e poi su quelle degli altri”.
E io cosa avevo fatto? L’esatto contrario.
Avevo diviso la mia anima in tante parti che avevo donato, a loro insaputa, alle persone che mi circondavano e che amavo, ma che - ironia della sorte - si erano allontanate da me, una ad una.
Christian, con cui oramai parlavo di rado e quelle poche volte che lo facevamo i nostri discorsi ruotavano intorno a Willy e al fatto che mi ero messa con lui.
Jenny, la mia migliore amica a cui una volta confidavo ogni passaggio della giornata, ma alla quale non ero riuscita a dire che amavo il suo ragazzo, prima che lo diventasse e fosse troppo tardi.
Mio padre, che avevo visto andare via liberandosi di me con uno strattone, lui che non mi aveva mai neanche sgridato, né proferito parolacce o insulti a sua moglie in presenza dei figli fino a qualche sera prima.
Pensai a Lu, la sorella di William, al suo pancione e alla smorfia di fastidio misto a felicità che vi avevo letto sul volto mentre il bambino all’interno menava calci. Come faceva, mi chiesi, come riusciva ad andare avanti, ad alzarsi ogni mattina e ad affrontare la giornata? Come era riuscita a superare l’abbandono del padre e poi quello del fidanzato? E tutto questo a diciannove anni. Solo tre anni in più di me.
Infine pensai a Willy, che aveva attraversato quelle strade spaventose con una naturalezza ammirevole: l’ubriacone che l’aveva salutato, i ragazzi sul muretto che lo avevano invitato a fermarsi con lui mentre fumavano canne, e a come tutti gli avevano sorriso. Sembrava ben visto, sembrava che gli fossero tutti affezionati e che gli volessero bene.
 «Questa è l’ultima volta che ti do’ una mano, la prossima volta rivolgiti ai tuoi amici.» 
Quali amici? Non avevo più amici e lo avevo voluto io.
Tornai sottacqua e riemersi vicino al bordo, sul quale mi issai. Dovevo asciugarmi e in fretta, fra poco più di mezzora sarebbero cominciate le lezioni e volevo presentarmi in classe almeno alla seconda ora.
Avrei preferito di gran lunga rimanere rintanata lì dentro, lontana dal mondo e dalla realtà che mi spettava fuori, pronta a sbranarmi, ma avevo un dovere da compiere, lo dovevo alla mamma di Willy e a Lu, alla loro gentilezza e ospitalità.
 
Aspettai Cris all’uscita di scuola, ci guardammo negli occhi fino a quando non si parò davanti a me, accanto a lui se ne stava Jenny, gioviale come al solito.
«Viola! Che ci fai qui? Ho visto Willy andare verso la fermata dell’autobus.»
«Scusa Jenny, ti spiace lasciarci soli?» Non distolsi neanche per un attimo lo sguardo dal viso di Christian, né lui lo abbassò. «Dobbiamo risolvere una questione importante.»
Jenny guardò il suo fidanzato, il sorriso era svanito dal suo volto. Lui le sorrise con dolcezza, baciandole il dorso della mano, poi chinandosi per lasciarle un leggero bacio sulle labbra e solo allora distolsi lo sguardo, per non assistere a quella scena.
Ma cosa provavo in realtà?
Fastidio? Gelosia? Invidia?
Forse tutte e tre le cose.
La mia amica mi sfiorò il braccio, aveva le mani fresche:
«Spero non sia nulla di grave.»
«Tranquilla» risposi e mi sforzai di sorriderle. Jenny era come una bambina, aveva sempre bisogno di un sorriso alla fine di ogni frase o la prendeva a male e si incupiva, andando in paranoia.
Senza parlare mi avviai al fianco di Christian lungo la strada, fermandoci nel parco vicino alla scuola, dove gli studenti si nascondevano quando avevano intenzione di marinare le ore di lezione. Lui si sedette su una panchina, le gambe distese e le braccia lungo il bordo di ferro verde e usurato dalle intemperie.
«Il tuo fidanzatino è venuto a piagnucolare da te? Non poteva affrontarmi direttamente? È troppo codardo o ha semplicemente paura del sottoscritto?» Il suo tono era colmo di cinismo.
«Cielo Cris, l’hai picchiato!»
«Hai cambiato colore di capelli…» la voce gli si abbassò e quell’affermazione mi stese, come un pugno in pieno stomaco.
Se ne era accorto…
«Cos’è, al tuo ragazzo non piacevano?» Di nuovo quel pizzico di irritazione nel timbro.
«No, no, no!» Mi coprii il viso, non riuscivo a guardarlo in faccia. Un solo pensiero mi stava fluttuando nella mente: se ne è accorto. «É una storia lunga e sua sorella è stata così gentile da farmi…»
«Sei andata a casa sua?» Christian si protese in avanti, io annuii intimidita dal suo repentino cambio di tono. «Viola sei andata a casa sua? Ma ti rendi conto del rischio che hai corso?»
«Quale rischio?» Avevo voluto affrontarlo per fargli una bella ramanzina su quello che aveva fatto a Willy e invece la situazione si era ribaltata completamente.
«Quale rischio?! Ma hai visto dove abita? Hai notato che sua sorella è incinta a diciannove anni e non ha neanche un fidanzato? E mi chiedi quale rischio hai corso?»
«Sono brave persone, Cris!» Sbottai e mi trattenni dal dirgli che erano sulle sue tracce per ripagarlo pan per focaccia, ma non mi venne in mente di chiedergli come faceva a sapere tutte quelle cose sul conto di William. «E comunque rimane il fatto che gli hai dato un pugno!»
Lui spostò lo sguardo verso l’orizzonte, scosse il capo e abbozzò un sorrisetto nervoso.
«Almeno lo sai perché l’ho picchiato?» Continuava a guardare altrove. «Lo sai il motivo per cui ora sono fuori rosa e posso anche scordarmi di mettermi in mostra davanti a quelli che contano? Mentre il tuo ragazzo ha ottenuto ciò che voleva.»
Quell’ultima frase mi gelò. Possibile che avesse intuito tutto?
«Gli hai detto di non toccarmi più e quando lui ti ha risposto che ero la sua ragazza tu l’hai menato» mi guardò in maniera strana, fra l’incredulità e l’ironia.
«Davvero ti ha detto così? Davvero ha avuto il coraggio di mentirti a questa maniera?»
La testa iniziava a dolermi con tutti quei pensieri mischiati e senza senso. Troppo cose insieme, mi sentivo sempre più confusa.
«Il tuo amore è tornato negli spogliatoi vantandosi con gli altri di come pendevi dalle sue labbra! Di come facevi tutto, e sottolineo tutto, quello che ti diceva. Ti ha paragonato a un cagnolino che corre a prendere il bastone lanciato dal padrone.»
Sentii la rabbia crescermi dentro. Lo avrei ammazzato con le mie mani quell’idiota di Willy se lo avessi avuto di fronte. Mi aveva mentito su una faccenda così delicata, mettendomi in ridicolo davanti al resto della squadra e, soprattutto, contro Christian.
Avevo l’umore a pezzi. Lasciai penzolare le braccia lungo il corpo, la testa bassa a fissare i piedi e gli occhi pieni di lacrime amare, lacrime di odio e disprezzo per quella persona che, in certi momenti di quella stupida messinscena, mi era apparsa diversa, per certi versi sembrava che mi capisse, che mi comprendesse. Invece si era rivelata essere ancor più meschina di quanto immaginavo e, quello che mi procurava più rabbia, era il fatto che ci ero rimasta da schifo. Delusa, triste, amareggiata. Mi ero illusa che potesse essere differente da quello che sembrava, nonostante miei amici mi avessero avvertito.
Eppure la sera prima mi aveva aiutato...
Christian si alzò sospirando e mi abbracciò, gli arrivavo all’altezza dello sterno. Scoppiai in lacrime, stringendomi a lui che mi baciò il capo:
«Mi dispiace Viola. Mi dispiace tanto.»
Ero esplosa. Alla fine tutto il dolore che avevo provato in quelle ultime settimane (il fidanzamento fra Christian e Jenny, il divorzio dei miei genitori, la vergogna per i capelli rosa, e infine la delusione che mi aveva dato Willy) si trasformarono in lacrime, lasciandomi senza forze.  Mi accompagnò sulla panchina e mi scostò i riccioli dal viso:
«Me lo fai un sorriso?» Mi sforzai di esaudire la sua richiesta. «Così va meglio» mi asciugò il volto con il palmo. «Te lo avevo detto, mi pare: aspettami.»
Di nuovo quella parola. Aspettami.
«Non capisco Cris, cosa significa che devo aspettarti?»
Mi guardò le labbra per un tempo lunghissimo, così lungo che riuscii a rendermi conto di come il mio cuore aumentasse a ogni secondo che passava.
In strada non c’era nessuno, non si udivano neanche più le voci degli studenti che probabilmente dovevano essere sulla strada di casa. Posò una mano sulla guancia destra bagnata dalle lacrime, senza smettere di fissarmi la bocca, in tutta risposta adagiai il palmo sul suo dorso, bisbigliando il suo nome:
«Cris…»
E mi baciò.
 
Tutto si fermò.
Ogni cosa smise di esistere, c’eravamo solo io e lui e le sue labbra sulle mie, poi quella sensazione di vertigine mentre lo sentivo afferrarmi per la nuca e spingersi oltre, fin dentro la mia bocca. Durò un attimo, ma tanto bastò per farmi provare decine di emozioni.
Quando risollevai le palpebre mi specchiai nei suoi occhi castani:
«E Jenny?» Chiesi.
«Te l’ho detto, Viola, aspettami. Dammi il tempo…»
«Tempo per cosa, Cris?» Mi carezzò la guancia e nascose un ricciolo dietro l’orecchio.
«Tu non ti preoccupare. L’importante è che lo lasci.»
Ancora con questa storia, pensai, ma avevo la mente annebbiata dalla sensazione del suo sapore per essere razionale, così gli risposi che si, avrei lasciato l’altro e avrei aspettato lui.
Si alzò, nel frattempo che rispondeva al telefono con un “ciao amore, si dimmi”, mi fece l’occhiolino in segno di saluto e si allontanò.
 
Feci la strada fino a casa a piedi. Dovevo riflettere e non c’era niente di meglio di una lunga passeggiata. Certo una bella nuotata in piscina sarebbe stato l’ideale, però in serata avrei avuto l’allenamento con l’istruttore e se mi fossi stancata si sarebbe insospettito e… incazzato.
Avevo bisogno di ragionare su tante cose: sulla bugia che Willy mi aveva detto e che di sicuro non sarebbe passata in sordina. Sul mio primo vero bacio e sul fatto che fosse successo proprio con la persona che amavo, che desideravo, con cui sognavo che accadesse. Peccato che per un attimo, quando le nostre bocche si erano toccate, avevo visto la faccia da schiaffi di William. Mi convinsi che probabilmente era accaduto perché era stato l’ultimo – e il primo – ragazzo che avevo baciato. Anche se non a quel modo…
Dovevo riflettere sul discorso di Christian, il quale mi aveva chiesto di aspettarlo, di dargli tempo. E io ero disposta anche a fare entrambe le cose, ma esigevo di conoscere almeno il motivo per cui lo stavo facendo. Non pensai a Jenny, a quanto avrebbe sofferto se avesse saputo di quel bacio fra me e il suo Cri – Cri.
Tornai a casa e trovai mia madre sul divano a guardare una telenovela, uno dei programmi TV che aveva sempre odiato più di ogni altra cosa. Al suo fianco, sul tavolino, la bottiglia di Whisky di papà. Non c’era lo strimpellare della musica in casa e ipotizzai che mio fratello doveva esser fuori.
Svuotai velocemente la borsa della scuola e, con la coda dell’occhio, vidi un pezzetto di carta toccare il pavimento. Lo raccolsi e all’interno lessi il numero di cellulare che Willy mi aveva dato prima dell’inizio delle lezioni, in una mattina di tanto tempo fa. Il cuoricino nero spiccava contro il foglio bianco. Lo appallottolai con rabbia, ficcandomelo nella tasca del giubbotto, proprio dove tenevo il telefonino.
Mai gesto si rivelò più provvidenziale.


 
 
 
 
  
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