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Autore: Nina Ninetta    08/06/2018    8 recensioni
Viola è una ragazza disposta a tutto pur di conquistare il cuore della persona che ama, anche fare qualcosa di stupido come fraternizzare con il "nemico", ma talvolta ciò che noi detestiamo può rivelarsi un'autentica benedizione. La giovane si ritroverà a fare i conti con i problemi tipici degli adolescenti, un amore a due facce, un'amicizia persa e una madre emotivamente scompensata.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 8
Non ho più tempo

 
L’istruttore mi spompò come un mulo da soma, spremendomi come un limone e trattenendomi un’ora in più rispetto agli altri. Alla fine non mi reggevo in piedi, il mio corpo e la mia mente erano così spossati che non riuscivo neanche a pensare a tutti i problemi di quell’ultimo periodo. Per lo meno un lato positivo di tutta quella stanchezza c’era, ignara di ciò che mi spettava quella notte.
L’istruttore mi attese nella hall per chiudere la struttura, di cui teneva le chiavi, nel frattempo si era messo a sfogliare una vecchia rivista sportiva. Nonostante fosse stata una giornata soleggiata, di sera le temperature calavano sempre un po’ sotto la media stagionale.
Chiusi la zip della felpa fin sotto il mento, acconciandomi meglio la pashmina verde che Jenny mi aveva regalato al mio ultimo compleanno, lasciando aperto il giubbino sistemai il borsone a tracolla a e mi avviai, chiacchierando con l’istruttore fino a fermarmi di fronte alla figura di Willy, appoggiato con il bacino contro il motorino di Lu. Ci fissammo, lui sempre con quel fare superficiale, io fumante di rabbia. Dopo avermi chiesto se lo conoscevo e se poteva quindi stare tranquillo, l’istruttore scomparve nell’abitacolo della sua station wagon e andò via con una suonata di clacson.
William fischiò:
«Quello è il tuo mister? È molto più in forma del mio!» Lo oltrepassai senza rispondergli, senza fargli notare che non era un mister, e lui mi seguì a ruota. «Ehi, Celestina, qualcosa non va? Hai la faccia di una che ha passato un guaio e che ieri a quest’ora aveva i capelli rosa» sghignazzò. Io mi fermai di botto e quasi mi venne a sbattere addosso. Mi voltai, puntandogli un indice contro:
«Sei tu il mio problema! Sei tu il mio guaio!»
«Io? E che ho fatto ora, Cappuccetto, se è da ieri che non ci vediamo?» Allungò una mano e mi sfiorò il mento. «Dì la verità, ti sono mancato tanto…»
«Non ti bastava prendere il posto di Cris e farlo espellere dalla squadra, vero? Dovevi anche metterci contro. A che gioco stai giocando, idiota?» Quell’aria da sbruffone sparì dal suo volto.
«Ehi, ehi, ehi!» Sotto la luce giallastra del lampione il suo livido intorno all’occhio era
ancora più evidente e mi parve anche peggiorato rispetto al giorno prima. «Che stai farfugliando Verdina?»
«E non chiamarmi così! Io mi chiamo Viola!» Urlai e lui quasi trattenne un sorriso. Questa cosa mi mandava in bestia: più mi arrabbiavo e più si divertiva. «Ho parlato con Cris oggi» continuavo a riferirmi a lui con quell’abbreviazione e non riuscivo a fare altrimenti, era come se avessimo instaurato una nuova confidenza dopo il bacio. «Mi ha detto tutto quanto, sai? Cosa credevi, che non me lo avrebbe detto o che non gli avrei chiesto spiegazioni?»
«Ah, e così ti ha detto tutto quanto…» incrociò le braccia sul petto, «e sentiamo, cos’è che ti avrebbe detto?»
«Ogni cosa! Il fatto che sei tornato negli spogliatoi vantandoti di avere un cane e non una ragazza che fa tutto quello che gli dici. Ma tutto cosa?» Sconforto, provavo solo sconforto. «A parte il fatto che non sono la tua ragazza, ma questo gli altri non lo sanno, mi hai fatto fare la figura della cretina!»
«E tu gli credi?» Ecco la domanda che non mi aspettavo e la mia risposta fu delle più scontate.
«Certo che gli credo!»
«Sei una delusione, Vi-ò-la» scandì il nome e dovetti trattenermi dal non picchiarlo. «Proprio una delusione» mi diede le spalle e montò sul veicolo, lo stesso con il quale mi aveva accompagnato solo la sera prima, togliendo il cavalletto con un colpo di tacco e mettendolo in moto.
«Anche tu sei una delusione, sai?» Stava per partire ma si fermò.
«Ah, si? E perché mai sarei una delusione per te, Vi-ò-la?»
«Perché sei esattamente come mi aspettavo che fossi: uno stronzo
Abbozzò un sorriso sbilenco e scosse il capo:
«Io invece ti facevo più intelligente, ma evidentemente l’amore per Christian ti ha reso cieca. E stupida» mi girò intorno con il motorino, fermandosi a meno di un metro da me. «Il nostro patto finisce qui» e partì sgommando.
«Si, bravo! ‘Sto patto del cazzo finisce proprio qui! E la prossima volta che mi vedi fingi di non conoscermi!» Gridai, mentre lo vedevo sparire nella bruma del sentiero alberato.
Ero così arrabbiata che mi veniva da piangere. Ma non volevo farlo, perché in fondo – molto in fondo, non lo avrei mai ammesso, neanche sotto tortura cinese – sapevo che quelle lacrime non sarebbero state solo di rancore. Forse si sentiva proprio così una persona che veniva lasciata di punto in bianco, tuttavia non potevo saperlo con certezza.
Non era stata proprio una lite furibonda, però le sue parole mi avevano ferito in una maniera a me estranea, ma lo avevano fatto. Lo avevo deluso, mi aveva detto, perché il mio amore per Cris mi aveva reso cieca.
Cieca su cosa? Cos’è che non riuscivo a vedere?
Di sicuro non riuscivo a vedere chi dei due mi aveva realmente mentito su quello che era accaduto negli spogliatoi, avrei potuto chiederlo a qualcun altro della squadra, ma non mi andava di andare vicino ad un altro membro e chiedergli cosa fosse successo lì dentro, il motivo vero per cui Christian aveva dato un pugno a Willy.
In cuor mio, in verità, avevo paura di scoprire che dalla parte della ragione c’era il mio ex finto fidanzato e non il mio ex migliore amico.
Tutti ex. Tanti ex.

Entrai in casa e annunciai il mio ritorno.
Quando eravamo una famiglia vera di solito mia madre si affacciava dal soggiorno/cucina e mi dava il bentornato, sommergendomi di domande che spesso mi annoiavano: dove sei stata? Con chi sei stata? Cosa hai fatto di bello?
Mio padre allora le diceva di lasciarmi in pace, ero grande e sapevo badare a me stessa e poi, per tranquillizzare ulteriormente sua moglie, aggiungeva che di sicuro ero stata in compagnia di Cris e Jenny. E con chi vuoi che stia? Concludeva con una risatina.
Quella sera non udii nulla, solo il brusio sommesso di un programma televisivo, eppure la camera era vuota. Chiamai mia madre ma non ottenni risposta, così spensi la TV e mi diressi verso le camere da letto, notando la luce accesa nel bagno di servizio, la cui porta era solo socchiusa. Chiamai di nuovo mamma, bussando con le nocche sul legno scuro della porta che si scostò appena, gemendo sui cardini.
«Mamma?» Aprii piano la porta e il respiro mi mancò.
Mia madre era distesa a terra, faccia in giù; mi inginocchiai al suo canto, urtando la bottiglia di Whisky che avevo notato quel pomeriggio vicino al divano e quasi mi fece ruzzolare sul pavimento. Era vuota, sulle mattonelle a rombo c’era solo una piccola macchia di liquido color ambra.
La voltai su un fianco, era dannatamente pesante nonostante avesse un fisico asciutto. La scossi, prima lentamente, poi con un po’ più di vigore, continuando a invocare il suo nome, a urlarle di svegliarsi. Chiamai mio fratello, pregando che fosse in casa, ma non venne nessuno in soccorso. Mi guardai attorno, avevo la mente offuscata dal terrore, dovevo pensare, pensare, pensare. Poi vidi una boccetta trasparente sul coperchio del water. Allungai il braccio e la urtai con la punta delle dita, facendola rotolare nella mia direzione. Lessi l’etichetta: Prozac.
Antidepressivi.
Ed erano finiti.
La situazione mi fu immediatamente chiara in tutta la sua atrocità.
Smanettai per trovare il telefonino nella tasca del giubbotto e avviai la chiamata rapida. Mio padre rispose dopo svariati squilli, aveva la voce assonnata e non appena la udii scoppiai in lacrime:
«Papà, papà» fu subito sull’attenti. «La mamma è… è… non lo so cos’è! Forse è svenuta!
C’è una bottiglia di liquore vuota e gli antidepressivi sono finiti.»
«Santo cielo!» Esclamò è sentii lo scroscio di coperte scostate. «Chiama il 118, piccola. Io sono a casa della nonna, dammi il tempo di arrivare.»
Tempo. Maledetto tempo. Tutti che mi chiedevano di aspettare, di dargli tempo, ma io non ne avevo più.
Come se non bastasse quello a terrorizzarmi, la casa della nonna distava anni luce dalla mia, di solito andavamo lì per le vacanze di Natale, solo per giocare sulla neve.
Feci notare a mio padre che ero sola in casa, non c’era neanche mio fratello e scoprii che era lì, con lui, che lo aveva raggiunto nel pomeriggio.
«Chiama l’ambulanza, tesoro, sarò da te il prima possibile» tremavo e piangevo. «Mi dispiace amore che devi fare tutto da sola, il tuo papà arriverà appena-»
«Vaffanculo
E gli chiusi il telefono in faccia. 
 
Chinai lo sguardo sul viso di mia madre, asciugandomi gli occhi dalle lacrime che mi appannavano la vista e quello che vidi non mi piacque: il suo colorito era più bianco del normale e le labbra stavano assumendo una preoccupante sfumatura violacea.
Come era già accaduto quel pomeriggio notai una pallina bianca sulle mattonelle, la scartai e composi il numero che vi era riportato all’interno con l’inchiostro nero, abbellito da un cuore ricalcato nell’angolo in basso a destra.
William rispose dopo solo due squilli.
«Aiutami» riuscii solo a balbettare fra gli spasmi del pianto, senza neanche aspettare che lui dicesse qualcosa. In sottofondo c’era un gran vociare, una musica stramba e risa giovani.
«Viola?» Improvvisamente quella baldoria era diminuita, lo immaginai mentre si allontanava.
«Ti prego, aiutami.»
«Ok, ok. Calmati e dimmi dove sei» questa volta il casino era quasi del tutto scomparso, al suo posto il rombo di un motore di piccola cilindrata. Sicuramente il motorio di Lu.
«Sono a casa. Mia madre è come svenuta e sono sola, mio padre è… oddio, ho una gran paura Will.»
«Io sto arrivando, ma tu devi chiamare un’autoambulanza.»
«Non lo so fare, cioè, non l’ho mai fatto, non…» ripresi a singhiozzare mentre con la mano libera lisciavo i capelli di mia madre priva di sensi davanti a me.
«Dammi il tuo indirizzo, lo faccio io.» 
L’autoambulanza arrivò qualche minuto prima di William, che vidi correre per il vialetto e scaraventarsi in casa attraverso l’ingresso aperto. Io ero con le spalle contro il muro adiacente al soggiorno, stretta nel mio stesso abbraccio. I medici erano di sopra con i loro ferri del mestiere e la loro conoscenza ed esperienza. E sperai che ne avessero davvero tanta.
Probabilmente se non avessimo litigato solo poco tempo prima o se Christian non mi avesse baciato e non mi avesse detto la sua versione dei fatti inerenti alla storia dello spogliatoio, forse mi sarei buttata fra le sue braccia e lasciata consolare.
Avrei voluto davvero tanto che qualcuno mi stringesse in quel momento - che lui lo facesse - invece si arrestò a debita distanza da me. Nonostante fosse corso in mio aiuto, quello che
era accaduto tra noi pesava come un macigno.
«Tua madre è...?»
«É di sopra, i medici sono con lei» mi tamponai il viso con il fazzoletto che stringevo nella mano destra. «Mio padre ci ha lasciato ieri sera. Ha fatto le valigie ed è andato via dopo giorni di furiosi litigi e mio fratello ha ben pensato di seguirlo a mia insaputa» tirai su con il naso, senza guardarlo in faccia, non ci riuscivo, provavo vergogna. «Così mia madre si è scolata una bottiglia di Whisky e si è strafogata non so quante pillole antidepressive» ricominciai a piangere, nascondendo il viso dietro i palmi e lui non fece nulla. Restò dov’era, a giocherellare nervosamente con le chiavi del motorino di sua sorella.
I medici mi chiesero se ci fosse qualche adulto da contattare e io risposi che stava arrivando, ma che non sarebbe giunto in città prima di una o anche due ore. Vidi le loro facce preoccupate e mi dissero che allora sarebbe toccato a me seguirli in pronto soccorso, in quanto parente. Io annuii, nel frattempo che mia madre mi scorreva sotto gli occhi su una barella, coperta fino al collo. Li seguii in silenzio, prendendo al volo le poche cose che potevano servirmi (cellulare, chiavi di casa, fazzoletti) e chiudendo la porta alle mie spalle, ma quando feci per salire sull’autoambulanza mi fermarono, dicendo che non c’era posto per me lì sopra e domandandomi se potevo raggiungere l’ospedale con qualche altro mezzo. Stavo per scuotere il capo, poi udii alle mie spalle la voce di Willy rispondere che ci avrebbe pensato lui.
Tutto si mosse come al rallentatore: vidi i dottori annuire, le porte del veicolo chiudersi con un tonfo secco e, voltandomi, Willy che montava sul motorino, azionandolo.
Mi sedetti dietro di lui senza proferir parola, né lui disse alcunché, mi abbracciai alla sua schiena e partimmo all’inseguimento dell’autoambulanza che correva con le sirene ululanti.
 
*****
 
Non sono mai riuscita a capire se mia madre quella sera avesse tentato il suicidio o semplicemente volesse stordirsi per smettere di pensare ai problemi che la stavano distruggendo, e che aveva tessuto con le sue stesse mani. Una tela di ragno nella quale era rimasta impigliata personalmente.
Di sicuro aveva fatto tanti errori nella sua vita, come rimanere incinta a sedici anni di mio fratello e costretta a scappare di casa con il suo attuale marito di circa dieci anni più vecchio. Dopo un altro decennio ero nata io. Tuttavia lo sbaglio più grande era stato tradire mio padre con un ragazzo più giovane. Questa era mia madre: l’incoerenza fatta persona.
Non mi sono mai chiesta se amasse davvero papà quando a soli sedici anni era scappata con lui, spaventata dai suoi genitori troppo cattolici e troppo antiquati, cittadini di un villaggio di montagna, chiusi in sé stessi e ottusi. I figli danno per scontato che i genitori si amino, che si siano scelti e sposati, che niente e nessuno li dividerà.
E invece…
Fra tutte le scelte sbagliate di mamma, quella di tradire mio padre con un ragazzino – a dispetto della sua età – fu la peggiore, poiché non aveva messo in conto il dolore dell’abbandono di una persona con cui si è condiviso una vita intera.
Non so se intendesse uccidersi quella sera, ma so che non sarei riuscita a salvarla se Will non fosse corso in mio aiuto e me ne vergognavo.
Mi vergognavo per quello che gli avevo sbattuto in faccia meno di un’ora prima; mi vergognavo della mia situazione famigliare, con un padre dall’altra parte della provincia, un fratello maggiore inutile e una mamma adultera che aveva tentato il suicidio strapazzandosi peggio di una drogata in astinenza.
Mi vergognavo perché mi sentivo io stessa una traditrice: era come se attraverso il bacio che avevo dato a Cris lo avessi tradito, anche se non stavamo insieme per davvero.
Mi vergognavo perché lui mi aveva portato a casa sua senza preoccuparsi della situazione sociale, di passeggiare a braccetto con me fra i suoi amici, di presentarmi alla sua famiglia e di raccontarmi con umiltà il suo triste passato e il suo difficile presente.
Mi vergognavo perché mi vergognavo.
Giunti in ospedale tentai di seguire mia madre all’interno del reparto di pronto intervento, ma un dottore in camice bianco mi mostrò il palmo, indicandomi un cartello appiccicato a sinistra delle porte scorrevoli: vietato l’ingresso ai minori. Le porte si chiusero con uno sbuffo e l’ultima cosa che vidi fu il corpo inerme di mamma che veniva spostato da un lettino all’altro.
Tornai indietro e lo vidi seduto su una delle sedie di plastica rosse e sudice del pronto soccorso, intento a smanettare con il cellulare. Mi accomodai al suo fianco e lui ripose il telefonino nella tasca dei jeans, intestardendosi a non parlare. Sapevo che dovevo essere io a fare il primo passo, a rompere il ghiaccio, e lo feci con la frase più sbagliata che potessi pronunciare:
«Mio padre arriverà a momenti, puoi anche tornare a casa. O dovunque eri a divertiti.»
«Aspetterò che arrivi e poi me ne andrò» rimase in silenzio per qualche secondo. «E comunque ero all’inaugurazione di un bar di un mio amico.»
«Non ti ho chiesto dov’eri.»
«Dovremmo andarci insieme, sa fare un caffè schiumato che è la fine del mondo!»
Mi veniva da piangere, di nuovo, perché lui era una di quelle persone fastidiose che volevi prendere a schiaffi e rispondere a tono, ma che se fosse andata via avresti sentito un profondo vuoto dentro e intorno a te…
Il paramedico dell’autoambulanza che era venuto a prendere mia mamma si fermò davanti a noi, porgendo a Willy un flaconcino di plastica trasparente. Entrambi lo fissammo confusi:
«Metti questa crema sul livido» Willy prese il medicinale. «Sei andato da un dottore per farti controllare l’occhio?» Lui disse di no. «Ecco, appunto, mettici questa sopra, due volte al dì, comincia da ora.»
«Dottore, mia mamma?» Chiesi.
«È fuori pericolo. Di sicuro la tratterranno qualche giorno per disintossicarla e capire il motivo del suo gesto. Molto probabilmente i medici vorranno parlare anche con te a tal proposito.»
Abbassai lo sguardo sulle mani che tenevo in grembo. Non mi andava di parlare con degli estranei di quello che era accaduto in quel periodo a casa, ma se questo poteva aiutare la salute mentale di mia madre lo avrei fatto senza lamentele.
L’autista dell’autoambulanza si affacciò e chiamò a gran voce il dottore, annunciandogli che avevano un’altra emergenza. Un incidente stradale o qualcosa di simile.
«Mi raccomando, ragazzo, metti questa crema. È miracolosa» gli fece l’occhiolino e si affrettò a raggiungere la sua combriccola.
William si rigirò il flaconcino fra le mani, quindi si alzò e si diresse verso la toilette provando ad aprire la porta, ma una signora si rivolse a lui che le sorrise e tornò indietro, sedendosi pesantemente sulla sedia.
«É fuori servizio» certo, aveva bisogno di uno specchio per spalmarsi la crema sull’intero livido che partiva dalla palpebra e arrivava fin quasi alla guancia. Il giorno prima non era così grande. Gli mostrai il palmo:
«Dai qua» dopo un attimo di incertezza mi passò il flacone, lo svitai e feci pressione fino a farne uscire una specie di vermiciattolo gelatinoso e incolore sui polpastrelli. «Sdraiati» accompagnai l’imperativo con un cenno del capo.
«Scusa?»
«In questo modo ho la luce di spalle e non riesco a vedere bene il livido, quindi poggia la
testa sulle mie gambe…» lui alzò un sopracciglio, quello dell’occhio buono.
«Ti piace farlo strano, eh Stellina rossa?» Ruotai gli occhi al cielo, sbuffando, mentre si muoveva per acconciarsi meglio su di me.
«Idiota!» Risposi mentre mi sporgevo sul suo viso. Avvertivo le sue pupille scure bruciare sulle mie gote o forse semplicemente stavo arrossendo, come sempre mi accadeva quando ero imbarazzata o arrabbiata. Appena prima di poggiare le dita sporche di gel gli chiesi di chiudere gli occhi e lui lo fece, senza contraddirmi. Era già qualcosa.
Presi a passare i polpastrelli sotto l’occhio, piano:
«Ahi!»
«Scusa» sorrisi, c’era qualcosa che mi divertiva e so che era il momento meno adatto per sorridere, ma non riuscivo a trattenermi. Lui era lì con me e non mi passò neanche per la mente di desiderare qualcun altro al mio fianco. Willy aveva il capo adagiato sulle mie cosce, le mani intrecciate in grembo, la gamba destra piegata con la scarpa sulla sedia e l’altra penzoloni. Con delicatezza cosparsi la zona livida di gel, con estrema lentezza.
«Will?» Lo chiamai e lui mugolò. «Grazie» continuai e sorrise.
«”La prossima volta che mi vedi fingi di non conoscermi”, eh?» Era l’ultimissima frase che gli avevo gridato dietro davanti alla piscina, solo un paio di ore prima.
«Beh, potremmo fingere che non ci conosciamo» proposi.
«Abbiamo già finto una volta e non ha portato bene» mi fece notare.
«Perché no? Tu sei riuscito a prendere il posto in squadra che desideravi tanto.»
«Me lo sarei comunque guadagnato, perché sono il migliore!» Su questa faccenda era davvero poco umile e modesto. «Diciamo che abbiamo solo accelerato i tempi. E comunque tu non sei riuscita ad arrivare a quel che volevi, quindi il piano si è realizzato solo al cinquanta per cento.»
Smisi di spalmargli la crema sul contorno dell’occhio, poggiandogli il braccio sul petto, attenta a non sporcarlo con le dita fatte di gel. Sollevai lo sguardo ed espirai profondamente:
«Christian mi ha baciata.»
«Quando?»
«Oggi, dopo scuola.» Rimase in silenzio per un po’, prima di aggiungere:
«Quando stavamo ancora insieme dunque. Sei una pessima fidanzata» lo guardai in faccia e mi accorsi che aveva riaperto gli occhi.
«Non stavamo veramente insieme.» Ci tenevo a specificare quella cosa anche se la sua era stata solo una battuta, in realtà lo feci più per la quiete della mia coscienza.
Si rimise seduto e soppesò gli spiccioli che teneva nella tasca del giubbotto blu notte, quindi si alzò, stiracchiandosi rumorosamente e annunciando che sarebbe andato a prendere un caffè. Feci per chiedergli dove pensava di trovarne uno, poi mi fece notare che alla fine del lungo corridoio c’erano alcuni distributori: uno di bevande fresche, l’altro di caffè e simili, infine uno con le merendine e i crackers.
Tornò con un cappuccino e una brioche imbustata. Presi dalle sue mani il bicchiere caldo che mi veniva offerto e soffiai sulla schiuma marroncino, facendo librare il fumo davanti alla mia faccia. Lui intanto riprendeva posto sulla sedia vicino a quella dove stavo io, scartando il croissant e dandogli un morso. Sorseggiai la bevanda calda, non era un granché, ma perlomeno mi sciolse i nervi.
«Non te lo bere tutto, Cappuccetto, lasciane un po’ anche a me» disse, porgendomi il resto della merenda al cioccolato, che era più della metà. Lo guardai, indecisa se mangiarlo o meno, non avevo fame – e come potevo averne! – ma mi rendevo conto che non avevo ingerito nulla dopo lo spuntino fatto a scuola: l’incontro con Cris mi aveva obbligato a saltare il pranzo e la cena era finita nel dimenticatoio, per non parlare del fatto che avevo bruciato parecchie energie con l’allenamento in piscina.
«Hai baciato Christian, non dirmi che ti fa schifo questa brioche perché l’ho morsicata» gliela strappai l’addentai, rispondendogli a bocca piena:
«Non fai ridere proprio nessuno con le tue battutine, sai?!» Diedi un secondo morso e bevvi un po’ di cappuccino prima che soffocassi, quindi glielo passai a lui scrutò il bicchiere con attenzione:
«Da quale parte hai bevuto? No, perché vorrei evitare di toccarlo» mi guardò di sbieco con un sorrisetto sulle labbra. «Non è per te, ma potresti aver baciato chissà chi e la cosa mi fa ribrezzo» gli diedi un leggero colpo sul braccio, fingendomi offesa.
Lui allargò il sorriso, poi bevve fino all’ultimo sorso.
Non mi chiese più nulla riguardo all’argomento del bacio fra me e Christian e, sinceramente, in quel momento era diventato l’ultimo dei miei pensieri. Mi sembrava accaduto in un’altra vita, quando avevo ancora una mamma mentalmente stabile e una famiglia su cui poter contare. E un finto fidanzato.
Non parlammo quasi più, se non domande di circostanza del tipo “che ore sono?” o espressioni quali “ sono stanca di aspettare!”.
 
Il pronto soccorso quella sera era stranamente vuoto e tranquillo, più il tempo passava e più si svuotava dei parenti in attesa della diagnosi dei dottori e dalle autoambulanze che andavano e venivano.
I minuti scorrevano lenti, ma le ore andavano veloci. Le ventidue. Le ventitre. Mezzanotte. E di mio padre e mio fratello nemmeno l’ombra.
Ogni tanto mi affacciavo in reparto quando le porte automatiche si aprivano con la speranza di captare un segno, seppur minimo, delle condizioni di mia madre, ma puntualmente mi beccavano e mi dicevano di tornare al mio posto.
«Sei troppo piccola per poter entrare!»
Evidentemente ero troppo piccola per entrare lì, ma non lo ero stata quando avevo trovato mia madre sul pavimento del bagno e terrorizzata avevo chiamato prima mio padre, poi Willy, infine mi ero imbarcata dietro un’autoambulanza a sirene spiegate.
In lontananza il suono di queste stesse sirene squarciò il silenzio come un fulmine farebbe con il cielo. Una strana sensazione di paura mi attanagliò lo stomaco e sentii quello che avevo mangiato pocanzi spingere per venire a galla. La guardia giurata fuori dal pronto soccorso urlò qualcosa a quelle dentro che aprirono le porte senza richiuderle, qualcun altro, forse un infermiere, corse in strada, aveva il camice verde macchiato di sangue. Un’autoambulanza frenò proprio davanti ai miei occhi, gli sportelli si aprirono all’unisono e velocemente ne uscì una barella con un uomo che gridava a squarciagola.
Le strilla erano tremende, sembravano entrarmi in testa e corrodermi le pareti cerebrali e i timpani. L’infermiere che avevo visto uscire dal reparto di pronto intervento cercò di sovrastare le urla del malato:
«Mi sente signore? È in ospedale! Adesso ci pensiamo noi! Lei però deve stare calmo! Riesce a sentirmi, signore? Sa dirmi il suo nome?» In tutta risposta l’uomo bestemmiò una decina di Martiri e la Santissima Trinità.
«Sempre siano lodati» mi voltai e William era proprio dietro di me, con gli occhi rivolti verso quel quadretto tragicomico.
Due volontari spinsero la barella verso di noi e quando lo vidi, quell’uomo urlante con al posto del braccio sinistro un moncherino grondante sangue fresco, fui sicura di svenire; invece per mia sfortuna rimasi in piedi. L’infermiere correva dietro di loro con il braccio amputato del paziente che teneva come fosse un neonato.
Poi il buio.
Mi sentii premere sugli occhi il palmo di una mano e, con uno scatto neanche tanto violento ma saldo, voltarmi e schiacciarmi contro l’addome.
Era Willy, non poteva essere altrimenti.
Potevo sentire ancora il vociare di tutte quelle persone, il rumore stridulo prodotto dalle rotelle della barella sul pavimento di linoleum, soprattutto sentivo le grida del paziente che, seppur lontane, mi gelavano ancora il sangue nelle vene.
Mi premetti le mani sulle orecchie per non sentirle più, spiaccicandomi contro il suo petto:
«Stringimi forte» dissi con la voce roca di pianto e Willy mi abbracciò. «Stringimi di più» e lui lo fece.
Nell’istante in cui avvertii la sensazione delle sue braccia che si chiudevano intorno alle mie spalle mi resi conto che non avevo desiderato altro da quando lo avevo visto varcare la porta di casa mia, con quell’espressione un po’ spaurita e preoccupata e il respiro affannoso di chi ha corso per arrivare prima.
Per arrivare in tempo.
  
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