Un giorno qualunque di pioggia
Pioveva di nuovo.
L’ennesima giornata buia e umida
trascorsa ad osservare il mondo fuori dalla finestra mentre sua figlia giocava
e leggeva.
Già, aveva una figlia.
Aveva provato a negare, ma le
somiglianze erano così evidenti che nessuno, persino lui, avrebbe potuto
provare il contrario.
L’aveva cresciuta come aveva
potuto, ricordando il meglio dei propri genitori e il meglio dell’essere stato
un insegnante, il resto, istinto di sopravvivenza e basta.
Una mattina piovosa come quella,
aveva aperto la porta e si era ritrovato un piccolo fagotto tra le mani
consegnatogli da un qualche impiegato del Ministero, e una lettera con una
scrittura incerta, frettolosa.
Righe storte e lettere quasi
incomprensibili che sbiadivano tra le lacrime o forse tra gocce di saliva,
lettere di aiuto, ricerca di speranza.
«Deve esserci uno sbaglio» aveva
detto, mentre la creaturina dormiva tra le sue braccia, ma il mago sulla porta
aveva scrollato la testa e se n'era andato senza neppure dargli una
spiegazione.
In un giorno qualunque di pioggia
era diventato padre.
L'aveva portata via da Spinner's
End.
Troppo dolore intriso in quelle
quattro mura, troppa sofferenza. Persino troppo squallore da far sopportare ad una bambina.
Lui c'era abituato da tutta una
vita, era abituato all’asfissia di un mondo corrotto e sporco, erano sempre
stati il suo mondo.
Erano lui.
Ma mai avrebbe costretto la figlia
a camminare su quel vecchio pavimento dove lui ci si era rifugiato per anni,
nella speranza che a terra non arrivassero le urla.
E allora l’aveva presa e portata
via.
Lontano da dove lui era cresciuto,
sotto quel tetto che gli aveva insegnato a soffrire.
In quel posto avrebbe rivisto
solamente l’immagine di un bambino con le mani strette alle ginocchia e le
lacrime sui vestiti.
L’immagine di altre lacrime.
Lì aveva smarrito ogni suo sogno e
ogni speranza gli era sfumata davanti agli occhi.
Non avrebbe voluto essere un
genitore in quella casa, lì dove non aveva mai davvero avuto i suoi, di
genitori, dove aveva sperimentato nient’altro che abbandono.
Aveva perso ogni amore per poi
ritrovarlo e perderlo ancora una volta.
Amore in occhi diversi. Colori che
sbiadivano fino a disintegrarsi in ogni singolo atomo.
Per lei voleva qualcosa di nuovo,
dove poter costruire una vita da capo, dove ricostruirsi egli stesso.
Per lei e per sé.
L’aveva portata via e basta.
In un giorno qualunque di pioggia
era riuscito a trovare la madre della bambina, ma lo aveva fatto troppo tardi.
L'aveva trovata in un ospedale di
provincia dove era stata ricoverata per l’ennesimo buco di troppo sulla pelle,
ma quella volta non erano riusciti a salvarla, troppa quella schifezza che si era iniettata per poter
reggere ancora: il cuore aveva ceduto e basta.
E mentre l'aveva guardata per
l'ultima volta immobile e bianca, col viso triste ma disteso, aveva ricordato.
Aveva ricordato quella sera di
anni prima in cui l'aveva incontrata quell’unica volta, in cui aveva visto
quegli occhi spenti, che sembravano gialli. Occhi gentili.
Labbra spaccate e troppo aride.
Aveva ricordato ogni cosa. Ogni
stupida azione compiuta.
E alla fine erano finiti in una
stanza anonima di un albergo altrettanto squallido, non lo sapeva neppure lui
perché, non aveva risposta nemmeno a distanza di anni.
Era successo e basta, come
accadevano tante cose nella vita, anche quelle che non si mettono in conto.
E lui non aveva messo in conto di
diventare padre.
Eppure, in un giorno qualunque di
pioggia, gli avevano portato sua figlia.
E tutto era cambiato.
La solitudine svaniva mentre la
guardava e stringeva una lettera tra le dita.
Lettere distrutte di una vita
altrettanto distrutta.
Potrai
darle un futuro migliore di quanto non possa fare io,
ma come avrebbe garantito futuri se era ancora in cerca dei propri? Cosa lo
avrebbe reso migliore dopo una vita spesa da solo e odiato, respinto e
respingente, nient’altro che sangue sulle dita?
C'era altrettanto schifo nella propria esistenza,
altrettanto veleno ad ammazzare ogni cosa intorno a sé.
Potrai
essere migliore persino tu che non ti sei mai reputato degno di niente, io c’ho
provato, ma ho fallito miseramente, ho provato a prendermi cura di lei, ma alla
fine ciò che guardavo erano una siringa e la mia pelle che si bucava, l’ago che
scendeva mentre lei
piangeva. Non sei marcio come me, saprai prendertene cura; ma lui davvero
non era marcio?
Corrotto e basta.
Lui, un buco lo aveva avuto nel
petto per anni. Un pozzo enorme, una voragine infinita.
Non era neppure riuscito a
salvarla, salvare quella donna che gli aveva spento i pensieri per una notte.
Quella madre che gli aveva donato
una figlia.
Quante madri non era riuscito a
salvare? Quanti figli?
L’aveva lasciata lì, distesa sul
letto e il veleno nelle vene, avrebbe dovuto prosciugarlo in ogni singola
goccia e invece si era rivestito ed era uscito da quella stanza, dalla sua
vita, ignorando che quell’unica scelleratezza avrebbe cambiato entrambi.
Lei, però, non era cambiata
abbastanza.
Aveva continuato la sua esistenza
tra siringhe e fuoco, una vita altrove.
E lui, invece, l’aveva lasciata
andare.
Morire.
«Papà» lo chiamò, seduta sul
pavimento a colorare.
Si voltò a guardarla, a fissare i
propri occhi neri in un altro paio così identici ai suoi e aspettò che
continuasse a parlare, senza distogliere lo sguardo neppure un solo istante:
quella parola lo faceva tremare ogni volta. Ogni volta, ancora dopo tanti anni,
era una sorpresa che riannodava i fili della propria anima ancora a brandelli.
«La mamma domani non verrà, vero?»
«No. Te l’ho già spiegato che la
mamma non verrà più. Mai.»
La madre, ormai, non era che un
ricordo scolorito nell'inchiostro, disperso in carta da due soldi che aveva
dovuto incantare per non farla divorare dal tempo che trascorreva.
Seppellita in un incantesimo e
nascosta agli occhi della figlia.
Nascosta alla sua memoria labile
di bimba, di quel fagotto che era stato troppo piccolo per ricordarsi il volto
della donna che l'aveva messa al mondo.
Avventura di una sera.
Desiderio di non essere soli
almeno per qualche ora.
Un vuoto da riempire.
Ed ora, quel vuoto nel viso di sua
figlia non lo avrebbe mai colmato.
Di quella donna aveva conosciuto
soltanto dolore e solitudine, amore disilluso, sentimenti così simili ai propri
da farli collidere almeno per una notte.
Per l'alcol e un po’ d’amore.
Che cosa avrebbe mai potuto
raccontare a sua figlia?
Della merda che buttava giù come acqua?
Di quella bellezza ormai sfiorita,
gettata nel bagno di qualche hotel di ultima mano insieme all’infima speranza
di essere salvata, di un amore che l'aveva resa uno straccio?
No, sua madre era morta e basta.
Non c'era mai davvero stata.
Forse quando sarà più grande le
racconterai di me, di quel poco di bello che c’era in me…
«Ok» la bambina tornò per un
attimo al disegno, le mani e il viso sporcati di nero. «E Harry?» si fermò di
nuovo, per guardarlo ancora una volta, e quegli occhi facevano male. Quella
parola faceva male.
E in quegli attimi, mentre spiava
di nuovo la pioggia, si accorse che la risposta alla domanda che si era sempre
fatto era lì, in quel nome.
Lettere altrettanto distrutte che
lo avevano distrutto.
*
La pioggia sembrava non volerlo
abbandonare neppure quel giorno.
C’era sempre un che di malinconico
in quelle gocce che cadevano dal cielo, tratti di fascino che aveva trovato fin
da quando era bambino, piccoli assaggi di speranza che gli facevano credere che
tutto potesse essere lavato via.
Che tutto potesse nascere ancora
una volta.
Ci aveva sperato per anni, finché
non era cresciuto e la realtà gli si era abbattuta addosso come una frana.
Aveva, però, continuato ad amare
la pioggia.
Un vetro che tornava pulito, una
pianta che bucava la terra.
Forse perché qualche frammento del
bambino che era stato giaceva ancora lì da qualche parte, seduto in un angolo a
guardarla scendere, a contare ogni goccia che correva giù lungo il vetro sporco
della casa, e passare le ore ad incitarle mentre gareggiavano una dopo l’altra,
piccole e grosse.
«Papà, sbrigati! Arriveremo
tardi!» lo riscosse la piccola dopo essersi inconsapevolmente bloccato sul
marciapiede, a pochi passi da una pozzanghera che doveva essersi formata da
poco.
«Non arriveremo tardi, nessuno
Snape arriverà mai in ritardo» le sorrise, cercando di confortarla: sapeva
perfettamente quanto fosse agitata per quella partenza, per l’inizio della sua
nuova vita.
Aveva provato a dissimulare, ma,
anche se il DNA era lo stesso, le sarebbero occorsi ancora tempo e pratica per
diventare come lui: quel pensiero lo fece sorridere di nuovo.
Ed erano sempre quelle piccole
cose a riempirgli il buco nel cuore, un sasso dopo l’altro gettato in un pozzo,
quel viso che gli ricuciva gli squarci che si portava dietro appoggiati
all’anima.
«Papà»
«Sì?»
«Ma siamo soltanto io e te?»
«Sì.»
Lo fissò per un attimo, quegli
occhi identici ai propri e le belle labbra tese così uguali a quelle di sua
madre, piene e rosse, però, poi si mosse appena. «Mi piace che siamo solo io e
te» e gli sorrise ancora una volta mentre gli stringeva le dita intorno alle
sue, riempiendogli ancora un poco il petto.
Loro due e nessun altro.
Camminavano per le strade di
Londra mentre la pioggia scendeva, bastandosi e aggrappandosi ognuno all’anima
dell’altro.
L’aveva presa per mano, fuori
casa, e, con i bagagli nelle tasche e la pioggia sopra di loro, l’aveva
accompagnata fino alla stazione.
Due passi più grandi e due più
piccoli, uno dietro l’altro, loro due e basta.
Non avevano bisogno di nessun
altro, si ripeteva spesso.
Erano loro, padre e figlia. Nessun
altro.
Anche se quel vuoto continuava a
reclamare di essere colmato. Riempito e basta.
Un corpo sopra un altro corpo.
Due anime a contatto.
«Dov’è Tal?»
«Starà rincorrendo qualcosa, ma
torna, non preoccuparti.»
«Tal! Tal! TAL!»
In un giorno qualunque di pioggia,
aveva aperto la porta a un piccolo ammasso nero di pelo che lo fissava, triste.
Triste come lo era stato lui per giorni e forse per una vita intera.
Solitario e infreddolito.
Vuoto.
Sua figlia se n’era innamorata
subito e lo aveva costretto a prenderlo con sé, con loro, un cumulo di dolcezza
nelle loro vite, un piccolo lampo nero che correva per casa insieme ad altre
due piccole gambe sempre meno malferme.
Tal apparve di nuovo
all’improvviso, strusciandosi alle gambe di entrambi per poi accucciarsi vicino
alle valigie tornate alla loro grandezza originale.
Si guardava intorno svogliato,
annusando ogni tanto l’aria alla ricerca di qualcosa da mangiare, mai sazio,
nonostante sua figlia gli avesse dato qualcosa appena prima di uscire di casa.
«Lo fai mangiare troppo.»
«Non è colpa mia se ha sempre
fame. E poi non sta fermo un minuto, ha bisogno di energie!»
«Io ho bisogno di energie
per stare dietro ad entrambi.»
La bambina iniziò a ridacchiare,
prima piano e poi così forte da spaventare persino Tal, nonostante fosse
abituato a quel suono quasi sgraziato che era dannatamente identico a quello
che aveva sentito tra la bocca di sua madre, qualche volta, durante quella
notte in cui l’aveva conosciuta.
Un suono che, però, sapeva così
tanto di vita da sembrare ridicolo sul volto infossato della donna e quel corpo
quasi scheletrico che aveva avuto paura persino a sfiorare. Stringere a sé per
non sentirsi solo.
E lei aveva riso a qualche sua
parola mentre le aveva posato una mano sulla spalla, temendo di spezzarla tra
le dita; e aveva riso persino di alcuni suoi timori.
Una risata così forte in un corpo
così fragile. Un sorriso che sapeva di primavera su labbra spaccate e stanche.
La regina dei contrasti, l’aveva
rinominata dentro di sé, mentre pian piano si avvicinavano per scacciare per un
attimo qualche lembo di solitudine, spostarlo come una tenda logora finché non
si stanca la mano e ti ricade addosso, colpendoti ogni volta più forte.
«Papà, papà! Guarda, c’è Harry!»
Harry era entrato nella sua vita
ben prima di lei.
C’era entrato completamente con
semplicità, nel silenzio di una stanza d’ospedale.
Era rimasto lì, per giorni, a
guardarlo e basta, immobile e poi risvegliarsi pian piano.
Aveva aperto gli occhi con un
dolore lancinante alla gola che lo avrebbe fatto urlare se non fosse stato per
quel braccio che gli si era proteso, così, senza dire niente, e lui lo aveva
afferrato, stringendolo fino a fargli male, fino a fargli uscire il sangue
dalla carne.
Harry, però, era rimasto fermo, aveva
serrato la mascella e si era concesso al suo dolore.
Gli aveva donato il proprio.
E quando aveva lasciato quella
stanza, in un giorno qualunque di pioggia, lui era lì, con lo stesso silenzio
sulle labbra e tante parole da dire.
«Non mi serve la balia» poche
parole in cui gli aveva sputato tutta la sua rabbia per essere lì, per esserci
lui stesso, per essere sopravvissuto. Per guardare ancora quegli occhi.
Harry aveva sorriso e basta.
Sotto la pioggia si era avvicinato
regalandogli un sorriso.
Regalandogli il perdono.
E giorno dopo giorno dopo giorno,
aveva iniziato a trafiggergli il cuore.
Ad inchiodare i pezzi d’anima
persi qua e là.
A riempire quel buco che aveva nel
petto.
Con lui, Spinner’s End era
diventata un po’ meno squallida, le urla avevano perso volume e il dolore
sembrava essere uscito dalla porta principale.
Ed aveva amato a lungo come mai
aveva fatto, ed era stato amato in ogni angolo per cancellare anche le più
piccole impronte di dolore intrise nelle pareti e a terra, tra le crepe e le luci
e ogni pagina di un libro.
Aveva amato risvegliarsi tra le
braccia di qualcuno, di un respiro sommesso sulla propria pelle. Di un cuore
che batteva.
Ed Harry, che era stato per anni
nient’altro che tormento, aveva trasformato la sua vita in una gioia che mai
aveva sperimentato, neppure quand’era stato lui stesso bambino e correva con il
profumo di Lily accanto.
Harry gli aveva donato la
speranza.
E poi si era ripreso ogni cosa.
Il camino della locomotiva aveva
iniziato già a tirar fuori fumo quando sua figlia si era alzata e di corsa era
andata incontro al giovane Potter con le braccia già tese per essere afferrata
e lanciata in aria.
Sapeva che ci sarebbe stato il
rischio di incontrarlo, in fondo i loro figli avevano la stessa età e
iniziavano la scuola quello stesso anno, insieme, come insieme erano cresciuti.
Quasi una famiglia.
Egoisticamente aveva persino
sperato che la figlia nascesse Babbana come sua madre pur di non vederlo
ancora, ma la piccola aveva iniziato a manifestare la magia fin da piccola,
prima ancora che riuscisse a tenersi in piedi.
E nonostante tutto, quando aveva
visto i libri sfrecciare per le stanze era stato un padre orgoglioso, e aveva
sorriso.
«Ehi, piccola tempesta!» Harry
l’aveva presa in braccio e fatta volare, e lei era felice.
Era sempre felice quando era con
lui e quando la loro relazione era finita, aveva fatto in modo che
continuassero a vedersi, che giocasse con lui e con i suoi figli, Al
soprattutto.
«Potter» lo salutò mentre il
giovane Potter posava a terra la bambina, più per educazione che per reale
voglia.
«Professore.»
Quante volte si erano pronunciati
quelle parole sulle labbra fino a trasformarle in nient’altro che sospiri? E
poi in silenzi.
In dita tra le dita.
In corpi che si muovevano per poi
fermarsi e respirarsi addosso.
«Papà, io voglio stare nella
stessa Casa di Al!»
«Non sei tu a decidere, ma il
Cappello. Ti collocherà dove riterrà più opportuno» e avrebbe voluto aggiungere
che sua figlia in Grifondoro proprio non l’avrebbe voluta, ma rimase muto a
guardarla mettere il broncio.
«Con me ha tenuto conto della mia
scelta.»
«Puoi pensare ai figli tuoi e non
ai miei?» ma Harry per tutta risposta cominciò a ridere, una risata così
diversa da quella di sua figlia o della madre. Quasi dolce che nascondeva quella
di un bambino.
E quanto l’aveva amata.
E quanto ancora l’amava.
In un giorno qualunque di pioggia
si era innamorato e basta.
E aveva capito di essere fottuto.
Se ti butti da quel ponte sei
andato.
Perché il giorno in cui t’innamori
sei un piccolo idiota che si getta da un ponte, ma il tempo non si riavvolge e
non c’è corda che ti riporti su.
Sei andato.
Ormai perso.
E dal giorno in cui t’innamori,
quelle labbra sono sempre davanti a te e quando non ci sono, le cerchi come un
pazzo.
Cerchi ogni lembo di pelle.
Quella particolare parola detta in
quel particolare modo. Una lettera scritta.
Cerchi un profumo, e anche quando
non c’è, ti sembra di percepirlo ovunque tu vada.
E allora impazzisci e basta,
perché sei andato.
Ormai fottuto.
E in un giorno qualunque di
pioggia si era fottuto.
Aveva aperto gli occhi ed era
rimasto sul letto a guardare la pioggia fuori la finestra, quel cielo grigio
che ogni tanto si apriva di bianco, le mani a massaggiare le tempie mentre
desiderava nient’altro che un corpo accanto a sé.
Nient’altro che ci fosse lui
accanto a sé, al proprio corpo seminudo e sudato.
Gocce che si mischiavano le une
sulle altre, come l’acqua sulla terra, e respiri sopra altri respiri.
Era corso fuori, incurante di
tutto, sperando che quelle lacrime dal cielo lavassero via quei pensieri, che
sciogliessero ogni brama e ogni speranza fino a fargli dimenticare ogni cosa.
Ma in un giorno qualunque di
pioggia, lui aveva bussato alla sua porta, fradicio, ed era rimasto in
silenzio a guardarlo, mentre il verde dei suoi occhi aveva provato a parlare,
ad urlare quei sentimenti che anche lui aveva tentato di nascondere.
Ed erano rimasti di nuovo muti a
scrutare ognuno l’anima dell’altro fin quando non si era scostato per lasciarlo
entrare.
Per lasciarlo entrare definitivamente
nella sua vita.
E nel cuore.
«Papà, ma se finisco a Grifondoro,
tu mi vorrai sempre bene?»
Fissò per un attimo Harry che
sorrideva compiaciuto, ma distolse subito lo sguardo, quelle labbra gli
facevano ancora male.
Si piegò su un ginocchio per
essere alla stessa altezza della figlia e le sfiorò il viso, delicato. «Ti
vorrò sempre bene qualsiasi sarà la tua Casa, mi basta che tu sia felice.»
La piccola guardò per un attimo il
padre e poi Harry, poi di nuovo entrambi. «E voi eravate felici ad Hogwarts?»
Per un attimo gli parve di cadere,
perdere l’equilibrio e rovinare a terra davanti a tutti: era stato felice ad
Hogwarts?
Sì, si disse, ma per quanto?
Quanto erano durati i propri
sogni? Le speranze.
Il tempo di continuare a sentirsi
un diverso, un escluso.
Il tempo di imboccare nient’altro
che strade sbagliate e sentieri colmi di sangue.
Era stato felice a correre con
Lily, poi, però, l’aveva persa. Aveva perso ogni cosa bella che c’era stata
nella propria vita e gli era rimasto soltanto il desiderio di essere qualcun
altro e un marchio sulla pelle, quello che continuava a nascondere a sua
figlia.
Quello che sua madre aveva
guardato a lungo, curiosa, chiedendogli cosa fosse quello strano tatuaggio,
cosa rappresentasse.
E lui le aveva raccontato tutto,
forse perché non l’avrebbe mai più rivista o forse perché non avrebbe ricordato
più nulla dopo l’ennesima porcheria iniettata nel braccio.
Avevano avuto dentro due veleni
diversi e lui, probabilmente, lo aveva ancora.
Soltanto la morte avrebbe potuto cancellarlo,
ma nemmeno Lei lo aveva voluto, se lo era preso per qualche minuto per poi
sputarlo di nuovo in mezzo alla vita e ai dolori.
Sputato sulla terra per essere un
padre, lui che era sempre stato nell’ombra.
Nascosto nell’oscurità di tutti.
Harry sembrò notare immediatamente
i turbamenti che avevano preso a vorticargli in mente e subito si avvicinò alla
bambina, prendendo con sé anche suo figlio Al. «Siamo stati felici ma anche
tristi, fa parte della vita. Fa tutto parte dell’essere persone» li strinse entrambi, come a volerli
confortare, mentre lui era rimasto immobile ad osservare; e ad ascoltare. «Ma
non conta ciò che siamo stati noi o ciò che ci è successo, conta che voi stiate
bene, che siate felici e vi divertiate.»
«E soprattutto che studiate» si
affrettò ad aggiungere, come se un incanto lo avesse riportato improvvisamente
sulla banchina.
Il giovane Potter gli sorrise,
vedendolo tornare in sé, tornare il solito Snape, gelido professore che
aveva tormentato i suoi anni di scuola, anche se non lo era più da tempo, non
da quando quegli occhi non erano più il ricordo di un passato.
«Papà» stavolta fu Al a parlare.
«Io ho fame.»
In un giorno qualunque di pioggia,
si erano baciati per la prima volta, e aveva pronunciato quelle stesse parole
nella mattina di Spinner’s End.
«Io ho fame.»
«E cosa vuoi da me?»
«Nulla, ma ho fame.»
Per tutta risposta si era alzato e
lo aveva lasciato lì, da solo sulla poltrona, per andare in cucina a fare non
sapeva bene cosa, ma, ricordando le sue disastrose avventure con le pozioni, si
era alzato e lo aveva seguito, trovandolo a rovistare nel frigo.
«Cosa stai cercando?»
«Ti ho detto che ho fame.»
«Non
ti ho concesso il permesso di frugare nel mio frigorifero.»
«Quando mai ho seguito le regole?»
e lo aveva fissato con quel ghigno spavaldo e insolente che gli aveva visto
tante volte sulle labbra e che, piano piano, aveva iniziato a farlo impazzire
perché aveva desiderato solamente cancellarlo da quella bocca. Farlo suo e
basta per poi farlo sparire.
Aveva afferrato uova e pancetta e
tutto quello che c'era dentro, mentre lui era rimasto a fissarlo, allarmato e
incuriosito.
«Sei sempre stato una sciagura con
le pozioni, non ti lascerò usare la mia cucina» e gli aveva strappato dalle braccia
tutto quello che aveva preso, suscitando nient’altro che l’ilarità del ragazzo.
«Quando avevo il libro del
Principe Mezzosangue, non ero poi così male,» ma lui non aveva replicato a
quell’affermazione, aveva iniziato a cucinare senza degnarlo di uno sguardo.
Poi, Harry, semplicemente, si era
avvicinato, e nel silenzio avevano accostato anche le loro anime ben prima dei
loro corpi. Uno di fianco all’altro tra i profumi.
Così, all’improvviso, gli aveva
stretto il viso tra le mani e aveva avvicinato le labbra.
Il cucchiaio a terra mentre le
bocche si parlavano in silenzi, e gli occhi si cercavano oltre le palpebre.
E alla fine si erano soltanto
saziati l’uno dell’altro.
«Fra un po’ parte il treno, non
possiamo allontanarci. Potete prendere qualcosa dal carrello dei dolci.»
«Ma io non voglio dolci!» aveva
protestato Al, battendo i piedi come solo un bambino sapeva fare.
«Papà…» osservò la figlia tirargli
un angolo della giacca, curioso piegò appena la testa, ma rimase in silenzio.
«Anche io ho fame…» aggiunse, quasi titubante.
«Potete
andarci a prendere qualcosa.»
«Al.»
«Rimaniamo qui con mamma.»
«Al!»
«Va
bene.» Non credeva di averlo detto davvero, ma avrebbe fatto tutto pur di non
sentirli più parlare come due mocciosi che volevano soltanto fare i capricci.
Sarebbe andato persino con Harry pur di farli smettere.
Il giovane Potter lo aveva
guardato, allibito lui stesso per quella concessione che stava facendo ai loro
figli, ben sapendo – e lo sapeva persino lui – quanto fosse raro, ma ancora più
stupefatto – ne era ben conscio – perché aveva accettato di andare insieme al
mago più giovane. Camminargli vicino.
Non si parlavano davvero da tempo
ormai, da quando era davvero finita tra di loro.
Si erano lasciati e basta.
In un giorno qualunque di pioggia
avevano preso strade diverse, lontane, ed era di nuovo andato in frantumi.
Quando gli aveva detto che avrebbe
sposato Ginny, era andato in mille piccoli pezzi, ma poi, ciò che li legava,
era stato più forte di tutto il resto, e non era riusciti a stare lontano,
giorno dopo giorno, notte dopo notte. Menzogna dopo menzogna fino alla fine.
Aveva impiegato tempo e dolore a
riaprire quel cuore che non aveva mai smesso di sanguinare e poi,
semplicemente, si era ritrovato di nuovo il petto sporcato di rosso, densità
scarlatta che colava in centinaia di gocce. Altro dolore.
Più lo guardava e più era
consapevole che il buco che aveva nel petto non si sarebbe mai più richiuso.
Che nessuno avrebbe mai potuto farlo. Nessuno.
«Ti vedo bene» eppure la sua voce
continuava ad essere dolce miele sulle ferite, persino quelle che lui stesso
gli aveva procurato.
«Me la cavo,» ma i suoi occhi
proprio non era in grado di fissarli. «Come sempre.»
«Di cosa?»
«Io…»
«Hai fatto semplicemente quello
che dovevi fare. Non ti biasimo per questo.» No, non lo biasimava per aver
scelto la propria famiglia, ma faceva tremendamente male. Ancora e sempre.
Lo guardava e c’erano nient’altro
che i ricordi a tormentarlo, ricordi di felicità ormai passate, di sorrisi e
notti insonni uno accanto all’altro.
Di notti e basta.
Camminavano uno di fianco
all’altro e gli tornarono alla mente i tanti profumi che avevano condiviso, le
giornate nascosti a difendersi dal mondo.
Quando la più piccola dei Weasley
era rimasta incinta, gli era crollato il mondo sulle spalle: sapeva che avrebbe
perso di nuovo tutto, che l’amore gli sarebbe stato strappato di nuovo di dosso
come erba cattiva dai muri di una casa. E le sue pareti avevano vacillato
sempre di più, poi erano semplicemente crollate.
Uno schianto a terra che aveva
risuonato per miglia e miglia fino a perdersi nel vuoto. Nel nulla.
Fino a perdersi di nuovo egli
stesso.
Si erano feriti a lungo, lasciati
per poi riabbracciarsi più forti di prima. Stretti e poi allontanati.
Abbandonati.
Distrutti e basta.
Quando tornarono, i loro figli
erano lì, felici a rincorrere Tal, passando tra la folla che attendeva lungo la
banchina.
Ginny la guardò appena, troppa la
vergogna che provava per fissare i propri occhi ai suoi, a quella donna alla
quale aveva strappato l’amore per più di una volta, e come poteva lui dolersi
di ciò che gli era stato tolto, se lui aveva fatto altrettanto?
Aveva usurpato ciò che non era mai
stato suo. Che mai lo sarebbe stato.
E ci si sentiva nient’altro che a
pezzi e sporchi.
Uno schifo ogni volta che
sentiva pronunciare il nome della donna o la vedeva, anche solo da lontano.
E in quel momento avrebbe voluto
sprofondare; anche se era passato ormai del tempo e lui ed Harry si erano
lasciati, voleva soltanto andarsene da lì, il più lontano possibile.
Scappare come un vile codardo
anche se codardo non lo era mai stato.
In quel momento si scoprì
impaziente, desiderava solo che il treno partisse al più presto: sapeva che sua
figlia sarebbe stata al sicuro e l’avrebbe lasciata in buone mani, le sarebbe
mancata, certo, tremendamente, ma voleva allontanarsi e basta.
Rinchiudersi nuovamente nella
propria solitudine. Lontano da quel dolore che gli torceva ogni muscolo.
«Papà,
cos’hai?» sua figlia gli si parò davanti, ancora ansimante per la corsa: aveva
sempre avuto la straordinaria capacità di intuire ogni sua emozione, ogni più
piccolo turbamento; poteva anche non capire fino in fondo ciò che provava, ma
sapeva sempre che qualcosa in lui non andava.
«Niente, stai tranquilla.»
«Sei triste perché ti lascio da
solo?»
«Certo, ormai ero abituato al mio
piccolo folletto» e le scompigliò un poco i capelli, facendola ridere. «Ma so che starai bene e che sarai
felice. Sono contento che inizi questa nuova avventura.»
«Papà, è sempre una scuola, dovrò
studiare, non è un’avventura!» La bambina sembrava un po’ sconsolata e a
vederla così gli si allargò spontaneo un sorriso.
«E tu che farai senza di me?»
«Finalmente potrò rilassarmi.»
«Papà!»
urlò indignata, anche se non riuscì a nascondere un po’ di divertimento sul
viso, poi si voltò verso il giovane mago che stava parlando con sua moglie:
«Zio Harry, è vero che andrai a fare compagnia a papà?»
«Tuo padre non ha bisogno di
compagnia e poi Harry ha altro da fare.»
«Ma papà…»
In un giorno qualunque di pioggia,
si erano fatti compagni l’uno dell’altro, a guardare altrove nel silenzio di
una casa in mezzo al nulla.
Non erano riusciti neppure a dirsi
una parola in quella sera, sfiorandosi a malapena con gli sguardi.
Avevano provato ad andare oltre le
bugie ed oltre le reciproche rotture.
Avevano provato a riempire i buchi
che entrambi avevano nel petto, a curarsi dopo essersi feriti a lungo, a
cancellare passati e dolori che li avevano resi così simili eppure così
diversi.
Così legati.
Erano dovuti scappare lontano per
provare a dare un senso a quei sentimenti che sentivano dentro di loro, per
capirsi dopo quel primo timido bacio a Spinner's End.
E quanto era stato forte
l’imbarazzo che avevano provato entrambi mentre i suoni della notte crescevano
nella foresta e loro si facevano sempre più vicini.
Un passo e poi un altro e ancora
uno per ritrovarsi infine uno di fronte all’altro a sorreggersi e a farsi
forza, tutta quella che sarebbe servita per andare avanti, insieme, per percorrere una vita insieme, stretti uno nell’altro
oltre pregiudizi e dolori.
Oltre tutto.
Non erano, però, riusciti ad
andare oltre loro stessi.
Neppure il desiderio e l’amore
erano serviti per tenerli legati.
Neppure tutti gli istanti che
avevano rubato al mondo per essere un unico corpo, uno in compagnia dell’altro,
uno tra le labbra dell’altro.
Non era servito niente.
Né baci rubati mentre i loro figli
giocavano né sguardi al di là della folla che li separava.
Niente.
Niente notti o oscurità. Niente
lenzuola.
Si erano guardati a lungo per poi
non sfiorarsi nemmeno.
«Forse io e te siamo destinati ad
un’altra vita» gli aveva detto un ultimo giorno qualunque di pioggia mentre lo
teneva stretto a sé, nel letto che li aveva accolti per l’ultima volta. «Questa
non è la nostra, finiamo sempre per allontanarci» e lì, in quella stanza, si
erano allontanati per l’ultima definitiva volta.
Si erano alzati entrambi,
rivestiti senza guardarsi né parlarsi, un silenzio che pesava come macigni
mentre pian piano uscivano da lì, da loro, dall’anima, per lasciare nient’altro
che un buco enorme nel petto, una fessura che sanguinava e che doleva.
Doleva tremendamente, ogni giorno
senza mai affievolirsi.
In un giorno qualunque di pioggia
erano diventati estranei e basta.
Il treno stava ormai per partire,
mancavano che pochi minuti e i ragazzi erano già saliti.
Guardava quel piccolo viso oltre
il vetro, orgoglioso e fiero della bambina che era e della donna che sarebbe
diventata, e si sentì un poco triste nel vederla andare via, allontanarsi da
lui dopo che le aveva riempito giornate intere per anni.
Le avrebbe scritto spesso, per
sapere ogni cosa, per non perdersi dettagli importanti della vita di sua
figlia. Per non perderla come aveva perso tante cose nella propria esistenza.
«Buona fortuna, Rainn» sussurrò
appena, mentre il treno correva via sbuffando.
In un giorno qualunque di pioggia,
quel volto che spariva all’orizzonte lo aveva cambiato per sempre.
Era un padre, ed era felice di
quello, ma, guardando il giovane uomo alla propria destra, comprese che la
ferita che aveva nel petto non si sarebbe mai del tutto rimarginata.
Lui era lì, ma distante, più
distante di qualsiasi galassia, oltre persino i confini dell’universo, e quello
faceva male.
E nessun filo o incantesimo
sarebbe stato utile.
Nulla.
Soltanto due cuori e due sorrisi.
Una metà, però, non sarebbe mai
stata sua.