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Autore: Nina Ninetta    12/06/2018    8 recensioni
Viola è una ragazza disposta a tutto pur di conquistare il cuore della persona che ama, anche fare qualcosa di stupido come fraternizzare con il "nemico", ma talvolta ciò che noi detestiamo può rivelarsi un'autentica benedizione. La giovane si ritroverà a fare i conti con i problemi tipici degli adolescenti, un amore a due facce, un'amicizia persa e una madre emotivamente scompensata.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 9
Pezzi che si rincollano



 
Come un uragano che passando lascia dietro di sé solo macerie e un tremendo silenzio, così le grida di dolore dell’uomo senza braccio spegnendosi lasciarono uno strascico di assoluto mutismo. Nel pronto soccorso calò una quiete irreale.
Restammo abbracciati l’uno all’altra per qualche altro secondo ancora o forse furono minuti, non so dirlo con certezza: il tempo non ha sempre lo stesso grado di misurazione.
Riuscivo a sentire il suo cuore e il mio, il proprio battito lento e regolare, contrariamente da quello della sottoscritta che non accennava a rallentare. Per un attimo fui certa che sarei scoppiata in lacrime, invece riuscii a ricacciarle indietro, dovevo solo trovare il coraggio di guardarlo in faccia. Di fissarlo negli occhi.
Ero fin troppo conscia di quello che era successo e di quello che avevo detto. Gli avevo chiesto non solo di abbracciarmi, ma di abbracciarmi forte, di abbracciarmi di più, come se non mi bastasse una semplice stretta.
E lui aveva esaudito la mia richiesta. Perché?
Forse per pietà di una stupida con i capelli rossi e le lentiggini sul naso che aveva visto la sua mamma sfiorare il suicidio e che ritrovatasi da sola, con un padre e un fratello dall’altra parte della regione, aveva telefonato all’unico ragazzo che prendeva a cattive parole dalla mattina alla sera.
Qualsiasi fosse stato il motivo per cui io gli avevo chiesto di stringermi a lui e, in tutta risposta, l’aveva fatto, prima o poi avrei dovuto riaprire gli occhi e guardarlo. E mentre cercavo dentro di me il coraggio per farlo, mi prese le mani che tenevo ancora premute sulle orecchie, allontanandomele con delicatezza dal viso:
«Tutto ok?» Mi domandò senza lasciarmi le dita e io alzai su di lui uno sguardo riluttante. Temevo che fosse scoppiato a ridermi in faccia da un momento all’altro, prendendomi in giro per la mia codardia e per avergli fatto quella richiesta inadatta a due come noi. A quello che eravamo e a quello che eravamo stati fino al giorno prima: dei finti innamorati che se si erano sfiorati era stato solo per rendere quella messa in scena un po’ più reale.
Tuttavia, la mia richiesta di un abbraccio – forte, più forte – era stata tutt’altro che finta.
Lo guardai, le sue mani che tenevano le mie erano una presenza pesante, materiale, concreta. Non sapevo cosa fare, né tantomeno cosa dire.
Lentamente vidi le sue labbra allargarsi in un sorrisino:
«Sei proprio una cacasotto, Cappuccetto» la mia espressione si corrucciò, feci per ricordargli che era stato lui il primo a coprirmi gli occhi, a toccarmi, poi un’infermiera veterana si rivolse a noi, chiedendoci se fossimo i parenti della signora che era arrivata incosciente qualche ora fa.
Si, io ero sua figlia.
 
Mi allontanai con un balzo, imbarazzata come due innamorati che vengono scoperti dai genitori a fare cose proibite, credendo di essere soli in casa.
L’infermiera scrutò velocemente l’ambiente, stupendosi di non vedere nessun altro all’infuori di noi due sedicenni con il viso stanco e spossato dalla preoccupazione (e non solo!). Mi chiese dove fosse mio padre e Willy mi precedette nella risposta:
«Sta arrivando. Era a lavoro.»
La giovane donna lo fissò, poi si rivolse nuovamente a me, invitandomi a seguirla all’interno. Feci un passo avanti, annuendo, e William mi si parò davanti afferrandomi per entrambi gli avambracci, scuotendomi leggermente e parlando a voce bassa:
«Non dire che eri sola a casa perché tuo padre se n’è andato» scossi il capo piano, prima a destra poi a sinistra, non capivo.
«Signorina» era l’infermiera, «prego, da questa parte.»
Lui mi diede un’altra leggera scossa:
«Hai capito? Dì che era a lavoro e perciò eri a casa da sola.»
Continuavo a non  capire il motivo per cui avrei dovuto mentire ai medici là dentro, ma mi fidai, in fondo era accorso in mio aiuto e avevo l’obbligo di credergli. Se lo meritava. Solo più tardi avrei scoperto che avevo salvato mio padre da una denuncia certa che non lo avrebbe portato al carcere, solo gli evitai diversi grattacapi. Non solo a lui, ma a tutta la mia famiglia. In parole povere, William quella notte non salvò solo mia madre e me, ma la famigliola per intero.
Raccontai ai medici dell’accaduto, omettendo il fatto che mio padre non fosse in casa perché la sera prima aveva fatto le valigie e ci aveva lasciate. Mi ascoltarono in silenzio, assentendo con il capo senza far trapelare alcuna emozione. La dottoressa di turno, una donna di piccola statura che non avrà avuto più di sessant’anni, con gli occhiali, capelli scuri e ondulati di media lunghezza, si mise in piedi stirandosi il camice bianco per chiedermi con estrema dolcezza se volevo vederla.
Ovviamente si stava riferendo a mia madre.
La seguii fuori dalla camera, a testa bassa, con il cuore che, se possibile, mi martellava nel petto peggio di quando ero stretta a Willy, peggio di quando avevo capito che Christian mi avrebbe baciata.
Mia mamma era distesa su un lettino bianco, le lenzuola tirate fin sotto le ascelle e le braccia di fuori per permettere alla flebo di scorrere fin nelle vene. Aveva ancora il pantalone della tuta, quello che metteva in casa per stare comoda, ma la parte superiore del corpo era nudo, fatta eccezione per il reggiseno di cui potevo scorgere le spalline azzurre.
Era profondamente addormentata, mi chiesi se avesse ripreso conoscenza in quel lasso di tempo che ero stata fuori, di sicuro aveva ripreso un po’ di colore e le labbra, che erano state violacee mentre la tenevo fra le braccia, sul pavimento del bagno, ora avevano una pallida tinta di rosa. Meglio di niente.
«Quanti anni hai?» Mi chiese la dottoressa e le risposi sedici. «Sedici anni…» sembrò soppesare la mia età attentamente. Troppo attentamente, «Ascoltami, tua mamma è fuori pericolo, questo è sicuro, ma lo è solo perché ha ingerito pochi antidepressivi.»
«La boccetta era vuota» risposi, senza riuscire a staccare gli occhi dal viso smunto della donna sdraiata sul lettino che più fissavo, più non mi sembrava mia madre: sempre gioviale, parecchio apprensiva, ma mai scorbutica.
«Sai se ne prendeva regolarmente?» Questa volta guardai il medico alla mia destra e scossi il capo, sentendo le lacrime pungermi agli angoli degli occhi.
«No. Non lo so. Cioè… forse.» Mi coprii il volto e iniziai a singhiozzare come una bambina. Come quel che ero in fondo. Mi sentivo una fallita, delusa da me stessa, ero stata così presa dai miei futili problemi adolescenziali in quegli ultimi tempi che avevo dimenticato di guardarmi intorno. In altre circostanze avrei potuto notare quei campanelli d’allarme in mia mamma che avrebbero potuto cambiare le cose, e invece non avevo fatto altro che chiudermi a riccio e pensare solo ai fatti miei. Ero una pessima figlia.
La dottoressa mi circondò le spalle, aveva dita sottili e affusolate con unghie corte e curate, accompagnandomi fuori dalla stanza e prendendo a passeggiare per il lungo corridoio che portava all’uscita del reparto.
«Va bene così. Aspetteremo il tuo papà per saperne di più.»
Le porte automatiche si spalancarono, piano, e asciugandomi le guance con i polsini del giubbino vidi mio padre e mio fratello. Il primo stava discutendo animatamente con l’uomo dietro l’accettazione. Lo chiamai a gran voce e solo quando si voltò a guardarmi potei leggervi tutta la preoccupazione che lo attanagliava. Sembrava invecchiato di colpo.
Mi abbracciò, sussurrandomi che gli dispiaceva, gli dispiaceva tanto, poi esortato dalla dottoressa la seguii, sparendo dietro le porte che si richiusero con uno sbuffo.
 
Presentai Willy a mio fratello che dopo avergli stretto la mano si isolò dal resto del mondo con le sue immancabili cuffie, mentre William mi chiedeva se avessi visto mia madre e accertandosi delle sue condizioni psico-fisiche, ma non fece parola sulle lacrime.
Scoprii così che, quando voleva, sapeva essere molto discreto e gliene fui grata.
Dopo che ero riuscita a riprendere il controllo delle mie emozioni, gli dissi che poteva tornare a casa, adesso papà era arrivato e non c’era più motivo per restare. Non mi voltai a guardarlo, non osai incontrare i suoi occhi che invece li sentivo puntati addosso come la canna di un fucile. Non so se stava per rispondermi che sarebbe rimasto, oppure che sì, sarebbe andato via, perché appena fece per aprire bocca il suo cellulare squillò e lui rispose a sua mamma:
«Mà… ti ho mandato un messaggio, l’hai letto?» Silenzio. «Si, sta meglio… è qui vicino a me…» mi tornò a guardare a questa volta i nostri occhi si incrociarono e lui, abbozzando un sorriso, mi fece l’occhiolino. «Si, te la saluto… no mamma, non posso darle un bacio da parte tua e di Lu» rise. «È timida» abbassai di colpo il capo e arrossii. Era totalmente deficiente o cosa?! «Ok, tanto sarò a casa tra poco.»
Chiuse la conversazione e ripose il cellulare nella tasca anteriore dei jeans, da cui l’aveva estratto. Rimase muto per un po’, quindi si alzò e io lo seguii con lo sguardo:
«Allora io vado…»
Avrei voluto dirgli qualcosa, ma tutte le frasi che mi venivano in mente mi sembravano stupide e mi sapevano da fidanzati: “vai piano” oppure “stai attento” o ancora “andrai direttamente a casa?” ecco, l’ultima in particolare mi sapeva di fidanzata gelosa. Quindi decisi di fargli solo un cenno di assenso con il capo. Salutò mio fratello seduto diverse sedie più in là e se ne andò, senza aggiungere altro.
 
Mio padre uscì dal reparto di pronto intervento dopo parecchi minuti. Aveva la faccia di un uomo distrutto dal senso di colpa e io non feci nulla per alleviarglielo, nel profondo ero soddisfatta che si sentisse come mi sentivo io: colpevole. Disse che mamma era stata ricoverata e che quindi era inutile rimanere ancora lì. In silenzio e a testa bassa ci dirigemmo alla macchina nel parcheggio deserto, l’aria fredda e umida mi fece stringere nel giubbino, rabbrividendo un po’.
Non mi piaceva l’idea di lasciare mamma da sola in ospedale, mi resi conto che in sedici anni non ci eravamo mai separate e la cosa mi faceva salire il magone, però sapevo che aveva bisogno di cure e che quello era il luogo ideale, anzi l’unico luogo, dove potevano dargliele.
Durante il tragitto di ritorno nessuno osò parlare e quando mio padre vide la bottiglia di whisky sul pavimento del bagno scoppiò in lacrime, battendo più volte il palmo sul bordo della vasca. Feci un passo indietro e usai il bagno di servizio, che raramente utilizzavamo. La doccia calda mi tolse l’umidità della notte e i brutti pensieri, che mi avevano accompagnato per tutta quella sera, iniziarono a sciogliersi, lasciando spazio alla stanchezza. Mi rimboccai le coperte proprio nell’attimo in cui la sveglia sul comodino segnava le tre.
In testa non mi ronzava solo il pensiero di mamma, ma anche quello di William. Mi sentivo responsabile per la sua incolumità, dato che era andato via dall’ospedale a notte inoltrata e su un mezzo a due ruote solo per starmi vicino. Afferrai il cellulare e fissai lo schermo bianco dei messaggi, quindi lo riposi sul comò; passarono pochi secondi e lo ripresi, cominciando a digitare:
“Sei a casa?”
 
Mi feci forza e coraggio per premere “invio”. Ero ormai certa che non mi avrebbe risposto, quando il telefonino vibrò sotto al cuscino, dove lo avevo riposto.
 
“Perché?”
 
Strinsi con tutta la forza il cellulare. Che razza di risposta era “perché?” Mi maledissi, chi me lo aveva fatto fare di inviargli quel messaggio?
 
“Lascia stare. Buona notte”
 
Dovetti sforzarmi di non aggiungere uno degli appellativi che spesso usavo per rivolgermi a lui, un esempio su tutti: idiota.
 
“Tranquilla sono a casa. E tu sei ancora in ospedale?
PS. Buona notte a te Stellina mia :-)”
 
Inevitabilmente il suo messaggio mi tranquillizzò per davvero, strappando alle mie labbra un accenno di sorriso nella penombra della stanza, con l’immancabile beagle di pezza a tenermi compagnia nel letto.
Gli scrissi velocemente:

“Non sono la TUA stellina! E comunque sono tornata a casa.
Mamma è stata ricoverata.”

 
 
Glielo inviai e abbassai le palpebre. Dopo pochi minuti ero già profondamente addormentata.

 
*****
 
Il giorno dopo Christian si arrabbiò molto. Moltissimo.
Quando la mattina aprii gli occhi il sole era già alto nel cielo e potevo udire in sottofondo il vociare della gente in strada e il via vai delle macchine. Mi trascinai in cucina, con le palpebre pesanti e un leggero mal di testa ad intontirmi, qui trovai mio padre a fumare e con il telefonino all’orecchio. Si voltò a guardami: una sedicenne con i capelli scompigliati e il pigiama coi pupazzetti un po’ troppo grande che le scendeva informe sul corpo. Mi rivolse un sorriso smagliante, nonostante le occhiaie sembrava sollevato. Mi porse il telefono:
«É per te» disse e io risposi, incerta, poteva esserci chiunque dall’altra parte del telefono, invece c’era mia mamma. Sentire il tono dolce della sua voce mi fece diventare le gambe molli, tanto che raggiunsi la sedia a tentoni e vi crollai sopra, iniziando a piangere come una cretina. Lei dall’altra parte rise, prendendomi in giro come faceva quando ero bambina, poiché ho sempre avuto la lacrima facile. Piangevo per ogni cosa: di rabbia, di gioia, di dolore.
Innanzitutto si scusò. Disse che le dispiaceva, non voleva farmi penare a quel modo, ma che ora potevo stare tranquilla, era tutto passato, stava bene e forse l’avrebbero dimessa in giornata.
Mamma non uscì in giornata, né quella dopo, bensì dopo una settimana, non perché avesse problemi fisici, ma perché i psicologi volevano vederci chiaro su quel gesto che loro definivano estremo ed evitare che si verificasse ancora. Il problema principale sorse quando rifiutò le cure neurologiche e psichiatriche, continuando a dire che stava bene. Fu solo grazie all’imposizione del primario di psichiatria, seguita da diverse minacce, tra cui quella di internarla in qualche clinica per malati mentali, che si convinse ad accettare la terapia.
Mio padre provò diverse volte ad aprire il discorso, ma io trovavo sempre un modo per svignarmela. Non volevo parlarne ancora, non volevo sentire ragioni. Quel che era accaduto era accaduto e basta, adesso volevo solo guardare avanti, tornare a pensare ai miei stupidi problemi amorosi e alla gara di nuoto che mi attendeva di lì a qualche giorno.

Quel pomeriggio Jenny passò a trovarmi e vedendola sull’uscio della porta, con in mano i compiti assegnati a scuola - saltata bellamente - provai un tuffo al cuore. La felicità per le parole che Cris mi aveva rivolto, lasciandomi intendere che prima o poi qualcosa sarebbe cambiato tra noi, mi avevano fatto dimenticare la sensibilità di cui era dotata la mia amica. Come avrebbe reagito se solo avesse saputo?
Sedute al tavolo della cucina, le raccontai a grandi linee quello che era successo a mia mamma, mossa da vergogna evitai di incontrare i suoi occhi da cerbiatta; però lei balzò dalla sedia, rischiando di rovesciare il bicchiere d’aranciata che le avevo versato, per abbracciarmi e dirmi che avrei potuto telefonarle, che sarebbe venuta a tenermi compagnia, che lei c’era e ci sarebbe sempre stata per me.
Mi sentii terribilmente in colpa, chiusi gli occhi stringendola forte e chiedendole scusa in cuor mio, ma io amavo Christian e avrei fatto di tutto per averlo. Anche far soffrire una brava persona come lei.
Non ebbi neanche il coraggio di confessarle che mio padre era lontano perché aveva litigato con mamma, usai la stessa scusa suggeritami da Willy in ospedale: in quel momento non c’era per questioni di lavoro. Jenny allora si incuriosì:
«Sei stata tutto quel tempo da sola in pronto soccorso?»
«No, no» la tranquillizzai. «C’era Will con me» e si batté un palmo sulla fronte, sorridendo:
«Ma certo! Il tuo fidanzato! Me ne ero quasi scordata.»
Le sorrisi, nascondendomi dietro il bicchiere di aranciata che non avevo ancora toccato.
 
Christian si presentò a casa mia quella sera stessa, lo raggiunsi all’ingresso e lo vidi di spalle, nel vialetto antistante la casa, con le mani nei jeans e il naso all’insù.
Mi avvicinai piano, annunciando il mio arrivo e fermandomi di colpo: era nero di rabbia. Cominciò a inveire così forte contro di me che dovetti alzarmi sulle punte dei piedi e tappargli la bocca con una mano, mentre con quella libera lo trascinavo all’interno della casa, ma si liberò dalla mia presa appena prima di superare lo zerbino.
«Sono calmo» si acconciò il giubbino di jeans. «Sono calmissimo» un’aggiustatina ai capelli gelatinati. «Ti sei rincoglionita del tutto?» gridò di nuovo.
«Schhhh!» sibilai, con l’indice premuto sulle labbra. «Se alzi di nuovo la voce me ne vado in casa e ti attacchi al tram!»
«Scusa, scusa!» mi adagiò le mani sulle spalle, scrutandomi in volto, poi mi tirò verso di sé e mi abbracciò, passando le dita fra i miei boccoli. «Quando Jenny mi ha detto quello che è accaduto… perché non mi hai chiamato, Viola, perché?»
Come facevo a dirgli che non conoscevo la risposta alla sua domanda?
Come facevo a spiegargli che d’istinto avevo composto il numero di Willy scritto quasi per sfottò su un foglietto di carta, quando io ero la prima a non riuscire a darmi una spiegazione plausibile?
«Non volevo disturbarti» fu l’unica cosa che mi venne da dire e lui tornò a guardarmi in faccia, scuotendo il capo.
«Disturbarmi? Viola, ma che dici!» sorrise e io sentii ogni parte del mio corpo sciogliersi. “Lasciala” avrei voluto dirgli “Lascia Jenny e mettiti con me!”
«Però non hai avuto timore a disturbare l’altro» lo sputò fuori con un pizzico di cinismo.
«Lui … ci eravamo salutati da poco e…» mi incitò a continuare, non sapevo più che pesci pigliare, mi stavo arrampicando sugli specchi. «… e niente Cris, tu stai con Jenny.»
«Ti ho detto di darmi tempo.»
«Non è giusto nei confronti di Jenny e lo sai. Mi sento male solo a guardarla negli occhi.»
«Io voglio te, Viola» mi accarezzò la guancia, addolcendo i suoi occhi color nocciola che sprizzavano affettuosità dappertutto. Erano diversi da quelli di William, benché fossero entrambi castani, quelli di Willy avevano una sfumatura più scura e, anche quando si burlava del prossimo, non perdevano mai quella loro caratteristica bontà mista a ironia.
«L’hai lasciato?» Mi chiese e io caddi dalle nuvole, facendo di sì con la testa.
Mi prese in braccio, letteralmente, cominciando a girare su sé stesso, ridendo e baciandomi dove capitava: sul naso, sulla fronte, sulle palpebre, sulla bocca, sulle guance.
E io non potei che passargli le braccia dietro al collo e stringerlo forte. Era tutto quello che volevo, era tutto quello che desideravo, dopo le numerose sebbene veloci chiacchierate con mamma al telefono, quell’abbraccio finì per incorniciare una giornata in cui i pezzi di un vaso rotto – del mio vaso rotto – si stavano rimettendo insieme, con tanta colla, ma pur sempre insieme.
 
La mattina seguente mi svegliai al solito orario, non più quello che avevo impostato sulla sveglia da un mese circa, quando preferivo buttarmi dal letto all’alba solo per evitare di incontrare Christian nell’autobus. Adesso, finalmente, non vedevo l’ora di risedermi al suo fianco e fare quel tragitto fino a scuola a ridere e scherzare come avevamo sempre fatto. Nel bel mezzo della settimana mi disse che lui è Jenny sarebbero stati insieme ancora per poco, lo sussurrò mentre poggiava una mano sulla mia intanto che il pullman frenava alla sua ennesima fermata per far salire gli studenti, e io gli credei, perché lo conoscevo bene e sapevo quando mentiva e quando no.
Io e William tornammo ad essere quello che eravamo stati prima di tutta quella assurda storia: due conoscenti che si punzecchiavano. L’unica volta che parlammo in maniera “normale” fu durante le ore di educazione fisica, quando le rispettive classi s’incontrarono nell’area adibita allo sport, alle spalle della costruzione. Erano gli ultimi quindici giorni di scuola e i professori, più stanchi di noi, spesso organizzavano passeggiate all’aperto o incontri amichevoli di partitelle di calcio fra i ragazzi, e di pallavolo fra le ragazze.
Io ero appena stata sostituita, non potevo permettermi uno spreco di energie dato che di lì a qualche giorno avrei gareggiato per la medaglia d’oro di nuoto regionale, men che meno un infortunio. Me ne stavo in un angolo all’ombra, seduta sul muretto che divideva il campo di pallavolo da quello di pallacanestro, con il cellulare in mano; ogni tanto alzavo gli occhi al grido delle mie compagne di classe, esultando con loro per un punto conquistato, altre volte mi sventolavo con la mano. Quell’anno l’estate arrivò con un mese di anticipo e se ne andò con un mese di ritardo.
Non lo vidi arrivare, troppo presa a rileggere i messaggi che ogni giorno ormai mi scambiavo con Christian, e quando sentii la sua voce già così vicina per poco non urlai.
«Ciao Pel di carota! Che fai?» Con i gomiti poggiati sul muretto si sporse sul mio cellulare che prontamente nascosi alla sua vista.
«Non sono fatti tuoi!» Esclamai con il viso in fiamme. Sorrise come qualcuno che conoscesse comunque la risposta, poi prese a osservare la partita in corso, anche se la sua attenzione sembrava lontana anni luce.
Lo scrutai con la coda dell’occhio: indossava la divisa da calcio, la maglia blu con i bordi gialli era sporca di terriccio ed erba, del bianco dei pantaloncini vi era rimasto davvero poco tanto erano macchiati di terra, i calzettoni tirati fino al polpaccio e le scarpette sporche di fango. Lui si voltò, dando le spalle al campo e facendo penzolare le mani oltre il muretto per guardarmi in faccia. Prontamente abbassai lo sguardo, pur sapendo che era troppo tardi: si era accorto che lo stavo fissando. Sentii un gran calore salirmi fin sulle guance.
Quanto ero patetica!
«Ti piaccio come sono vestito?» Si avvicinò un po’, abbassando il tono di voce. «Tutto sporco e sudato…» gli diedi una leggera spintarella per allontanarlo.
«Smettila di fare il cretino!» Lui rise e tornò al suo posto.
«Tua mamma sta bene?» mi chiese. Alzai gli occhi per prendere tempo, il cielo azzurro era completamente privo di nuvole.
«Non è ancora uscita dall’ospedale, ma sì, sta meglio, deve solo accettare il fatto che è depressa e di conseguenza le cure che i medici le impongono» non disse più niente per un po’ e poiché mi imbarazzava che se ne stesse lì senza fare conversazione, senza accennare ad andarsene – sembrava di nuovo caduto in trance, con gli occhi fissi sulle proprie mani – gli domandai se anche sua mamma, quando il padre era andato via, era caduta in depressione.
«Chi? Mamma?» sorrise. «Con tre figli piccoli non ha avuto neanche il tempo di pensare alla depressione. Ricordo solo che disse: se quel pezzo di merda di vostro padre si è fatto un’altra vita con una donna da quattro soldi, perché noi dovremmo smettere di vivere? E il giorno dopo uscì di casa alle sei di mattina per cercare lavoro.»
Ricordo che pensai che un giorno sarei voluta essere come quella donna, come la mamma di Willy, che era riuscita a superare lo shock del tradimento e dell’abbandono, la fame e la carestia, senza mai far mancare nulla ai suoi figli.
«Domenica hai la gara di nuoto» quasi sospirò lui e io annuì, quindi si girò completamente verso di me. «Verrò a vederti» sgranai gli occhi, balbettando che non ce ne era bisogno, pensando che sarebbe potuto esserci anche Christian e non mi andava che si incontrassero. Le cose con Cris stavano migliorando da quando gli avevo detto che io e Willy non stavamo più insieme, avevo paura che vedendolo avesse potuto pensare chissà cosa e sarebbe crollato tutto. Ma lui insistette:
«Non vuoi che venga a tifare per te? Avevo anche in mente uno striscione» spalancò le braccia in alto, con le mani aperte, in un gesto plateale. «“Forza Stellina rossa”» gli diedi dell’idiota e rise. «E poi ci saranno un sacco di ragazze in costume» lo guardai male e lui strizzò l’occhio, scompigliandomi i capelli. «Ciao ciao, Celestina!» e trotterellò via.
Notai come alcune delle ragazze che stavano giocando a pallavolo gli lanciassero occhiate di ammirazione, sghignazzando tra loro. Scossi il capo e scesi dal muretto con un balzo, proponendo il cambio a Jenny che sembrava stremata: era troppo delicata per strapazzarsi sotto il sole di maggio. E al diamine la gara di nuoto, avevo bisogno di sfogare quella strana e inaspettata sensazione di ansia.



 
  
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