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Autore: Enchalott    12/06/2018    7 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a chi si appassionerà! :)
"Percepì il Crescente tatuato intorno all'ombelico: la sua salvezza, la sua condanna, il suo destino. Adara sollevò lo sguardo sull'uomo che la affiancava, il suo nemico più implacabile e crudele. Anthos sorrise di rimando e con quell'atto feroce privò il cielo del suo colore".
Genere: Avventura, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La rivolta
 
La neve cadeva pigra, danzando leggera nell’aria fredda in volute candide e ipnotiche, senza fretta. Niente vento impetuoso, nessuna tempesta, solo una coltre bianca e perpetua, posata sui tetti spigolosi e sulle torri possenti di Jarlath. Un connubio di forza e delicatezza che creava un ossimoro perfetto nella luce fioca del mattino.
La finestra della camera reale era aperta: dal balcone sporgente Anthos osservava un paesaggio che non possedeva la spettacolarità della novità ma si ripeteva, uguale a se stesso, nel tempo congelato del Nord. Il suo sguardo era fisso sulla città, arrampicata intorno alle mura del palazzo in una spirale soffocata dal ghiaccio evanescente. Nella volta blu cobalto le stelle scintillavano l’addio alla notte, mentre il cielo s’imperlava senza riuscire ad acquisire alcun colore. Intorno alla capitale, i picchi adunchi e scabri contornavano incombenti la terra di Iomhar, segnando il confine del Regno e racchiudendo in un’algida stretta quel mondo sposato all’inverno perpetuo.
Le mani del reggente, prive di guanti, posavano sulla murata, affondando nella neve che si era depositata sul bordo. Non indossava né il mantello né la pelliccia, il colletto della camicia turchese sbatteva, rivoltandosi al vento; gli alamari dorati erano aperti sul petto, sul quale scintillava il Medaglione d’oro bianco.
Il suo sguardo era lontano, splendente di tenacia e di rabbia, come se la sua vita fosse ancorata a quei sentimenti che emergevano sul viso dalla carnagione ambrata. Gli occhi dorati balenavano profondi tra i capelli biondi, scompigliati dalla corrente ascensionale che sferzava Leu-Mòr; era l’unico a vantare l’ardire di affacciarsi da quell’altezza, incurante del pericolo e della temperatura.
Dietro di lui i pesanti tendaggi di broccato avorio roteavano schioccando. Nella stanza non c’era nulla, eccezion fatta per un enorme letto a baldacchino e un paio di sedie di legno lavorato. Il camino era spento e sembrava che non fosse stato usato di recente. Tutto ritraeva un’enorme solitudine, uno stanco abbandono.
Anthos si aggrappò al ciglio di pietra e le sue iridi s’illuminarono di remoti bagliori verdi: il potere con cui conviveva lo avvertiva dell’imminente partenza della delegazione proveniente dal Sud. Lui attendeva, così come era stato scritto più di mille anni prima. La attendeva, anche se nessun testo sacro lo aveva riportato.
Rientrò nella stanza e un’ancella si precipitò a chiudere le impannate.
«Vattene» intimò.
La ragazza si inchinò, stringendosi addosso l’abito sgualcito e tremando di paura; fuggì dalla camera il più in fretta possibile. Spesso trascorrere una notte con il principe significava non svegliarsi mai più o sparire senza lasciare traccia.
Il giovane agganciò la spada al fianco e recuperò dalla seggiola a faldistorio il mantello candido bordato di pelliccia. I suoi passi risuonarono per la stretta scala a chiocciola sbalzata nella roccia, richiamando l’attenzione di chi lo attendeva nell’atrio sottostante.
«Fa’ sellare il mio cavallo.»
L’ufficiale scattò sull’attenti e si precipitò alle scuderie. Anthos si diresse verso la tavola imbandita e iniziò a sbocconcellare in piedi.
«Cosa sta succedendo nei quartieri remoti della capitale?» domandò al buio in fondo alla sala, senza sollevare il capo dal calice di vino speziato che teneva tra le mani.
Una figura familiare prese forma, componendosi di tutto ciò che non era luce e scivolò al suo fianco ammantata, tetra. Due iridi borgogna si accesero sotto il cappuccio di lana nera, regalando un’anima all’oscurità.
«Una ribellione, mio signore.»
«Dimmi qualcosa che non so, Urien.»
L’essere si ingobbì e sporse le dita adunche davanti a sé, mormorando: una sfera picea comparve sul suo palmo, mostrando uno scorcio di Jarlath, dove una folla di persone era riunita in atteggiamento di inequivocabile rivolta. Anthos osservò in tralice il globo scuro, sorseggiando la bevanda con calma apparente: dentro di lui un’ira profonda ma illeggibile montò esponenziale.
«Odhran» disse tra i denti «Il sobborgo più disgraziato e lontano dal palazzo. Ci andrò di persona. Sono curioso di scoprire cosa li spinge a osare tanto. Tu verrai con me.»
«Come desiderate, sire.»
 
Gli zoccoli ferrati del possente stallone bianco battevano il selciato, schizzando la neve congelata ai lati della strada. Il principe lo tratteneva a redine corta, procedendo a un trotto moderato, e la gente si affrettava a scostarsi, inchinandosi con intimorito rispetto al suo passaggio. Il prezioso mantello copriva la groppa del destriero e l’ampio cappuccio celava il viso di Anthos. Impossibile decifrarne l’espressione. Impossibile saggiarne le reali intenzioni.
Poco discosto procedeva il suo Primo Consigliere, misterioso e sfuggente nel suo abito bruno, lo sguardo che dardeggiava attento in tutte le direzioni, avvolto in un’ombra di ardua inaccessibilità. Forse nessuno l’aveva mai visto per davvero in volto. O aveva dimenticato di averlo fatto. Le mani scarne con le unghie laccate di nero reggevano le briglie lente e il suo frisone procedeva al passo.
Li seguiva un drappello di una decina di uomini, abbigliati con l’uniforme della Guardia Reale, tuttavia negli sguardi abbassati al suolo c’era ben poca fierezza per il ruolo prestigioso che stavano ricoprendo.
Il principe si arrestò sullo sperone ghiacciato che sovrastava Odhran, alzando una mano per segnalare l’alt. Il purosangue si impennò nitrendo.
«Calmo, Illtyd» mormorò Anthos, battendogli una mano sul collo
Lui sbuffò nervoso dalle froge, raspando il terreno e scuotendo la folta criniera.
La moltitudine rumoreggiante riunita nella piazza del quartiere si acquietò all’unisono, sollevando un insieme di sguardi sospettosi e sdegnati.
Anthos abbassò il copricapo sulle spalle, fissando la sua gente con freddezza. Alcuni indietreggiarono, altri spalancarono gli occhi impauriti, altri ancora abbassarono le armi improvvisate, trattenendo il fiato.
Alle spalle del sovrano i soldati si aprirono a ventaglio, impugnando le lance a rostro.
«Inchinatevi al principe!» tuonò il capitano della Guardia.
In mezzo alla folla qualcuno accennò a inginocchiarsi, molti piegarono la testa; ma una voce risuonò chiara dal centro.
«Non sarà Odhran a prestare omaggio a costui!»
Anthos inarcò un sopracciglio e strinse le palpebre, mentre la neve cominciava a imbiancargli le spalle muscolose e i capelli chiari.
«Chi ha parlato!?» intimò l’ufficiale, battendo al suolo l’asta.
La gente atterrita non fiatò ma fece ala, aprendo uno spazio simile a un sentiero nella direzione da cui quelle irriverenti parole si erano sparse all’aria.
«Io non ho paura di te, Anthos di Iomhar!»
Il principe sogghignò, socchiudendo gli occhi come un predatore che sta pregustando la caccia mattutina.
Una figura piccola e sottile avanzò dal cuore del quartiere, incurante delle mani che cercavano di trattenerla e delle preghiere sussurrate, che le suggerivano di restare nascosta. Una donna anziana, vestita di un consunto abito marrone, uscì allo scoperto, i capelli argentei raccolti in uno chignon, il viso solcato dalle rughe e da misteriosi segni blu, tracciati con le dita incerte sulle guance scavate e sulla fonte. Sulle spalle portava uno scialle di lana intessuto con gli stessi simboli e si appoggiava con fatica a un lungo bastone ad arco.
«Sono Siavon, veggente di Odhran. Non mi nascondo, poiché la verità scritta nelle stelle va enunciata senza alcun timore.»
«Se non mostri né terrore né rispetto, vecchia, è solo perché non puoi vedermi» ribatté sprezzante il principe, riferendosi allo sguardo vacuo e opaco della donna.
«Vedo con altre pupille. La cecità non mi impedisce di chiamare le cose con il loro nome. Non m’inganno e non mi pento di gridare davanti a tutti che sei un impostore, Anthos di Iomhar! Non sei il nostro sovrano!»
«Come osi!» intervenne minaccioso Urien, facendo avanzare il cavallo.
Il reggente lo bloccò con un movimento della mano.
«Fammi capire quale follia ti sta possedendo, Siavon, e forse arriverai a stasera.»
«Non sono pazza, non cerco facili scusanti alla sincerità che intride le mie affermazioni e non temo la morte. Gli astri non s’ingannano, il loro responso è privo di incertezze. Il male è sceso tra noi e tu, che sei il portatore del Medaglione, hai lasciato che si diffondesse come una cancrena!»
«Mi hai quasi convinto, veggente» replicò sarcastico Anthos «Ancora poche parole e ti risparmierò la vita, perché stai farneticando in preda alla demenza senile. Invece quelli che ti hanno seguita e con l’ardire di impugnare un’arma contro di me sono a mio giudizio ingiustificabili.»
«Sei tu a essere imperdonabile, giovane sovrano!» rispose l’anziana, muovendo qualche passo nella sua direzione, mentre la calca si stringeva, ammutolita dalla sferzante condanna «Non hai riconosciuto il male che attanaglia la nostra amata terra! Non sei degno di portare la corona, poiché non ci hai difesi per difetto o per disinteresse! Oppure, fatto più esecrabile, sei tu il male, Anthos di Iomhar! E se così fosse, dovrai redimerti con la morte!»
Lo sguardo dell’uomo si fece letale. Piccoli punti verdi iridescenti iniziarono a vorticare nelle iridi color ambra e la neve posata su di lui evaporò all’istante.
«Di cosa mi stai accusando, Siavon? In cosa consiste il male che mi contesti con ottusa ostinazione?»
«La Profezia si sta realizzando e tu, che possiedi l’arcana magia, fingi di non vedere i segnali che sconvolgono il Nord. La luna ha assunto il colore del sangue vent’anni orsono e il gelo che ci flagella si è intensificato di giorno in giorno. È il percorso prestabilito, che conduce alla fine del mondo. Le sabbie di Elestorya sono giunte alle nostre case, ma tu hai scelto di non raggiungere il portatore del Diadema. Stai attendendo. Non sei un uomo governato dalla paura e neppure uno stolto: la tua è una decisione ponderata, che mira a perderci tutti. Lo leggo nel tuo animo!»
Anthos scoppiò a ridere, gettando la testa all’indietro. Poi la fissò.
«Io non credo alla Profezia! Gli dèi non contano, quaggiù sono io l’unica legge. E non sono responsabile degli sconvolgimenti climatici che ti terrorizzano tanto!»
«Stai mentendo!» echeggiò lei puntandogli contro l’indice «Irkalla, dio della Distruzione, è tornato come prescritto ed è ben lungi dall’accettare la sua sorte. Sta cercando vendetta, vuole sopravvivere al destino impostogli dalla celeste Amathira e questa risoluzione segnerà l’apocalisse definitiva! Tu lo sai bene!»
«Amathira?» ringhiò il principe, serrando i pugni con forza.
«Irkalla sta calcando questa terra e tu sei il suo malvagio strumento, il suo complice, il suo mezzo d’azione nel tuo non agire! Se così non fosse, ti saresti mosso da tempo!»
Si girò, spostando il dito teso alla destra del reggente.
«E tu, Urien! Tu sei quanto di peggiore potesse capitarci! Un essere perverso che rifugge la luce e si nutre di dolore, questo sei! Nessun mantello può celare la crudeltà che trasuda dal tuo intero essere! Sei sporco e reo, non puoi fuorviarmi! Dimmi, Urien lo sfuggente, confessalo davanti al popolo di Odhran: sei forse tu Irkalla, il dio reincarnato?»
La creatura in nero sollevò lo sguardo fosco, ma il suo volto rimase in ombra. Per un istante sembrò non accogliere la provocazione, poi mosse la mano, pronunciando poche incomprensibili parole. Siavon crollò a terra, lasciando cadere il bastone e portandosi le mani alla gola con un gemito soffocato. Strabuzzò gli occhi in cerca d’aria, rantolando penosamente. La folla iniziò a tumultuare sconvolta, qualcuno ebbe il coraggio di soccorrerla. Un’esplosione di luce verde fece desistere tutti dall’avvicinarsi.
Anthos abbassò il braccio e scosse la testa, indifferente all’agonia della donna che si era rivolta a lui con tanto coraggio.
Il corpo di Siavon si contrasse e si contorse, oscillò al tocco della forza che la stava uccidendo, iniziò a scomporsi come vapore sotto gli sguardi attoniti dei convenuti. Poi sparì in un refolo di ceneri, che si confusero con la neve fluttuante.
Urien ritirò la mano all’interno dell’ampia manica, una statua nera contro il cielo latteo.
Per un lungo attimo nulla si mosse intorno al ramo ricurvo della veggente, che era rimasto a terra, spiccando ligneo sul suolo ghiacciato. Poi dal capannello uscì una ragazza poco più che adolescente: avanzò soave ma decisa, i capelli color miele raccolti da una fascia che portava gli stessi simboli blu presenti sul volto dell’anziana defunta, ai polsi due bracciali sbalzati con una teoria geometrica sacra. Raccolse da terra il bastone, facendo tintinnare il sonaglio squadrato, e sollevò gli occhi azzurri al principe.
«La morte dell’amata Siavon non cambia il responso delle stelle» asserì con voce ferma «Un tale atto di perfidia prova che le sue accuse non erano infondate. Il male è tra noi. Il male vi ha corrotto, reggente di Iomhar.»
La folla si schierò alle sue spalle, decisa e sfidante, alzando le armi improvvisate e preparandosi all’attacco. Le guardie, in netta minoranza, si innervosirono attendendo l’ordine del loro capitano.
«Tarlach» gli intimò Anthos «Prendetela e tenetela ferma. Voglio che guardi molto attentamente che cosa succede a chi osa oltraggiarmi. A chi tradisce Iomhar.»
I soldati afferrarono la giovane per le braccia, trascinandola indietro e bloccandola sulla scena. Lei cadde in ginocchio nella neve.
Il principe inspirò, i suoi occhi si illuminarono di bagliori verdi. Immobile sulla sella, si concentrò e fece scaturire il potere, che iniziò a danzargli intorno in lampi vibranti. L’onda di energia fuoriuscì dal suo corpo come un velo rovente e si abbatté sugli astanti in un’esplosione devastante, distruggendo tutto ciò che era vivo e non vivo, senza pietà alcuna.
La ragazza urlò straziata, divincolandosi in lacrime, lottando per liberarsi, ma gli uomini la trattennero saldi, distogliendo a loro volta lo sguardo dal massacro di quella che era anche la loro gente.
La luce si spense, improvvisa come era esplosa.
Odhran era una voragine scura: tutto era precipitato in quel buco fumante, dell’antico quartiere di Jarlath non restavano che macerie annerite e riarse.
Anthos sollevò il capo, fissando il nulla che aveva creato con il solo pensare e fece girare il cavallo verso le guardie.
«Comandante, fa’ in modo che questo si sappia in tutto il Regno» ordinò, dando di sprone «Raccontate l’accaduto senza omissioni.»
Volse lo sguardo alla ragazzina che piangeva in silenzio, travolta dalla disperazione e accasciata a terra senza più forze.
«Sarai condotta alla fortezza. So io cosa fare di te. Sei una veggente, prova a leggere il tuo futuro, ora.»
 
 
La piazza a forma di conchiglia antistante il palazzo reale era gremita di persone, giunte sin dagli estremi confini del Sud per assistere alla partenza della delegazione. Sventolavano i drappi rossi con l’emblema delle tre shad e pregavano gli Immortali, affinché la missione potesse sortire un effetto positivo.
Dall’alto della scalinata di pietra, Shion fissava il popolo festante, facendo scorrere lo sguardo sul movimento della moltitudine, che si perdeva fino agli edifici più lontani del sestiere principale. I suoi capelli castano ramati, sciolti sulle spalle, ondeggiavano al vento, fermati sulla fronte dal Diadema in oro rosso, scintillante al sole del primo mattino. Gli occhi nocciola erano carichi di turbamento e avevano l’intensità dolorosa del cielo estivo all’approssimarsi di un temporale. I pensieri erano profondi, addirittura distanti, tumultuosi e si accavallavano senza sosta, donandogli un aspetto inquieto e meditabondo.
Niente era come prima. Niente lo sarebbe stato mai più, quale sarebbe stato l’esito della missione, quale si fosse rivelato il vero intento della Profezia. Sospirò, teso.
Mio padre è prigioniero degli Aethalas.
Quella notte era giunto un messaggio che parlava di gentile ospitalità, ma non era stato difficile leggere tra le righe formalmente cortesi. Il re era tenuto in ostaggio perché i Guardiani del Mare avevano interpretato a modo loro gli antichi testi e le stelle. Le tribù delle lande assolate riuscivano a scorgere i presagi negli astri, difficile che sbagliassero.
Il lungo mantello color tortora si sollevò per una folata particolarmente fresca.
Aveva tentato invano di nascondere la notizia a sua madre.
Quando Eudiya era uscita dagli appartamenti reali, gli aveva letto in faccia che c’era qualcosa che non andava e aveva impiegato poco a scoprire la realtà dei fatti. Gli aveva chiesto di non rivelare la notizia a Adara e di mostrarsi più riservato nelle reazioni: una caratteristica importante per un futuro sovrano. Strinse i pugni.
Essere un libro aperto non mi agevolerà nel mio compito. Lasciar intendere a mia sorella che si sono verificati dei problemi non l’aiuterà a partire per il Nord, anzi insisterà per liberare il re.
Il non saper celare le proprie elucubrazioni era dannoso sia a livello personale sia per il ruolo di principe della corona. Una posizione che percepiva come un cappio al collo, che andava stringendosi di giorno in giorno. Non si sentiva sicuro, non scorgeva la via da intraprendere. Il Diadema aveva un peso insospettabile e portava con sé il potere del tempo.
Dionissa, affacciata alla torre per assistere all’evento e sorretta dalla sua dama di compagnia, gli rivolse un cenno di saluto, avvolta in una nuvola di veli verdi fluttuanti.
Ogni volta che la principessa veggente lo fissava con quegli occhi intensi, che leggevano il futuro attraverso il Kalah, Shion si sentiva sotto una lente arroventata dal sole. La sorella era dolce, amorevole e sincera, ma non poteva fare a meno di provare per lei un rispettoso timore: gli succedeva sin da quando erano bambini, quando tra loro l’anno di differenza nell’età non pesava e quando scherzavano nel giardino del palazzo, rincorrendosi tra gli alberi di melograno, nascondendosi per scherzo. Dionissa lo trovava sempre, senza bisogno di cercarlo. Lo comprendeva, senza bisogno di interrogarlo. Dionissa parlava come una donna anche quando era solo una ragazzina che giocava con il fratello maggiore.
La regina lo affiancò avanzando a testa alta, il lungo abito leggero come vapore, lo scialle rosso allacciato in vita, la corona svettante tra i capelli scuri. Il suo sguardo non lasciava trapelare nulla, anche se la preoccupazione per la sorte del marito la stava divorando. I suoi occhi erano privi di angoscia, come sempre, come desiderava mostrarsi al popolo per trasmettere lucidità e saldezza. Al suo fianco sinistro tuttavia era agganciato il pugnale cerimoniale. Shion sapeva che non era solo una decorazione, ma che la lama era letale, soprattutto nelle mani di una donna dei Thaisa: la madre non lo portava mai e da quel particolare poteva dedurre la sua inquietudine.
Adara montò a cavallo con una mossa elastica, riservandogli un sorriso. Qualche volta avrebbe voluto essere come lei: tenace, forte e orgoglioso. Quel suo carattere indomito si manifestava da come stava in sella, stretta nei pantaloni amaranto, il mantello tinta ocra affibbiato sulla spalla sinistra e drappeggiato intorno al corpo snello, la spada agganciata alla cintura di cuoio, i lunghi capelli serrati in una folta treccia scura, che spiccava sulla schiena eretta. Dal suo fianco pendeva un cilindro metallico cesellato, chiuso da un sigillo dotato di un meccanismo: il contenitore dello scritto con la Profezia.
Un brivido gli corse lungo la spina dorsale. Quelle parole arcane e segnanti gli avevano sempre trasmesso un senso di ineluttabilità. Come se tutti gli esseri umani fossero condannati a non operare scelte o come se quelle opzioni fossero le uniche concesse, come se non esistesse nessun libero arbitrio. La Profezia era qualcosa di reificante, di oppressivo, di inaccettabile. Avrebbe volentieri preso quelle carte usurate dai secoli e le avrebbe gettate nel fuoco del Tempio, per vedere se gli dei si sarebbero davvero adirati per l’azione sacrilega. In quel caso avrebbe potuto ribellarsi a buon diritto e non percorrere quel cammino obbligato, fatto d’inchiostro sbiadito e di misteriose rivalse reincarnate.
Aska Rei saltò in groppa al suo destriero senza usare le staffe, provocando un mormorio di ammirazione tra gli astanti. Gli occhi d’acciaio del capitano della Guardia erano attenti e sicuri mentre scrutavano con cipiglio i dieci uomini della scorta. Abbaiò un paio di ordini e quelli si misero in fila senza fiatare, le armi che rifrangevano i raggi solari in bagliori accecanti.
Un uomo come lui era in grado di opporsi a qualsiasi Profezia, forse era capace di cavalcarla come una puledra o di piegarla alla sua volontà con un semplice sguardo. Forse, impegnandosi, avrebbe persino fatto innamorare la dea del Cielo, se l’avesse trovata o avrebbe spaventato Irkalla stesso.
Invece lui, Shion, lui no. Non era  fatto di quella pasta. Ma era lui a portare il Diadema.
Sua madre gli porse la mano, spezzando l’autoesame, e insieme avanzarono verso la scalinata per porgere il saluto ufficiale alla Campionessa e ai suoi compagni.
 
Eudiya sollevò le braccia, facendo scivolare le lunghe maniche di velo sulle spalle e il silenzio calò sullo spiazzo. Tutti i visi si volsero a lei, splendida regina che rappresentava il Sud.
«Il commiato è la parte difficile di una partenza» disse «Noi non ci abbandoneremo alla malinconia, solleveremo i nostri spiriti di gente non arrendevole, le nostre speranze accompagneranno i nostri cari lungo il viaggio. Ciascuno di noi, tutta Elestorya, è chiamata a portare lo stesso peso che incombe sulle spalle di queste persone, che si congedano dalla nostra terra, rappresentando l’aspettativa di ogni creatura vivente. Da regina, da donna del deserto, da madre, a nome vostro levo le mani al cielo, affinché la nostra dea vegli su questo percorso, allontanando il pericolo e l’oscurità.»
Shion si fece avanti per parlare, ma qualcosa lo distolse. Un movimento appena percettibile si propagò attraverso i convenuti, originando un mormorio di sconcerto. Le teste degli astanti si volsero in simultanea, indicando l’oggetto di tanta sorpresa. La regina abbassò d’istinto la mano sul pugnale, stringendo le palpebre per cogliere un indizio che rivelasse l’identità di chi stava giungendo inatteso.
Una figura alta e vigorosa avanzò attraverso la piazza, celata dal mantello color terra sollevato sul capo. Di traverso sulla sua spalla portava un arco da guerra.
Aska Rei voltò il cavallo e corrugò la fronte, poi sfoderò la spada e si mise in guardia.
Adara strinse le redini e non si mosse, lo sguardo scese sulla faretra dell’uomo, zeppa di frecce a doppia punta.
Lui abbassò il cappuccio, scoprendo il viso giovane e abbronzato. Gli occhi scuri si posarono sulla principessa, squadrandola da capo a piedi. Accennò un lieve inchino e i capelli bruni si scostarono dalla fronte, rivelando la fascia scarlatta e oro che la cingeva. Un pendente rosso sangue luccicò al suo orecchio sinistro.
Un Aethalas.
   
 
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