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Autore: Luana89    14/06/2018    0 recensioni
Nessuno può dire cosa succede in quel sottile processo di cambiamento tra la persona che eri e la persona che diventi. Nessuno, oltre te, può tracciare la linea immaginaria dell'inferno. Nessuna mappa. Nessuna via indicativa. Sei semplicemente uscito dall'altra parte, e non ti resta che camminare e sperare. In molti provano a scombinarmi i pensieri, a capire cosa ci sia dentro quel lerciume coperto da strati di capelli e ossa. Fottuti idioti. Nessuno entrerà mai nel mio castello. Nessuno ne varcherà mai nemmeno i cancelli. O forse si, forse tu?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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II



Chicago non fu un semplice anno della mia vita. No quello a Chicago fu L’ANNO della mia vita. L’anno in cui passai dall’essere un semplice ragazzo problematico al diventare un rifiuto tossico incapace di guardarsi persino allo specchio. Persi la mia identità, persi me stesso tra quelle mura intonacate di un bianco sporco che mal copriva il precedente colore. Un po’ come me, pennello invisibile nella mia anima che non riusciva a coprire del tutto la sporcizia in cui ero piombato.
I primi tempi non furono male, quando l’eroina entrava dentro le mie vene vi era pace. Come un orgasmo al contrario che durava un singolo minuto, sessanta secondi di quiete in cui il resto del mondo spariva e restavo solo con me stesso. Niente più mostri. Niente più sensi di colpa. Niente più fughe e niente più urla di mia madre. Ma la marea si alzò anche per me, le dosi iniziarono ad aumentare e i soldi a scarseggiare, io e Shanti spesso dividevamo la dose e non bastava mai. Il mio corpo iniziò a soffrire internamente, durante le mie crisi d’astinenza sentivo come se qualcuno torturasse le mie budella da dentro. Soffrivo steso su quel letto, con l’afa a distruggermi, contorcendomi tra le lenzuola madide di sudore. Ricordo persino le lacrime sparse sul cuscino quando sapevo che la droga non sarebbe arrivata da me.
Mi arenai. Semplicemente.
Mi fissavo allo specchio guardando gli occhi scavati, le pupille perennemente dilatate, il colorito grigiastro e una perdita di peso che mi rendeva quasi irriconoscibile. Così preso da me stesso iniziai a non vedere più lei. Lei così magra e pallida, lei e le sue braccia martoriate. Ricordo un giorno in cui stavo male, male sul serio, i miei occhi fissi sulla sua figura che con mani tremanti provava a mettersi il rossetto sbavandone i contorni. Sapevo in che modo aveva iniziato a procurarsi la droga e non me ne fregava un cazzo. Si faceva scopare agli angoli delle strade, cedeva il suo corpo per soldi o peggio per delle dosi che poi avrebbe diviso con me. A modo suo credo mi amasse, amava quel me stesso così dipendente da lei, e odiava allo stesso tempo quel me stesso arido incapace di amarla davvero. Il suo corpo aveva finito col ripugnarmi forse perché in primis ripugnavo me stesso. Svendevo il suo corpo, non le dicevo nulla fingendo di non sapere con la paura che avrebbe smesso lasciandomi agonizzante. Ripensavo ad Alice, il suo viso stampato a fuoco nella mia mente diveniva sempre più lontano, era come se il mio stesso cervello si rifiutasse di pensare a qualcosa di così perfetto e pulito.
«Torno dopo». La sua voce flebile accolse il mio totale silenzio. Non riuscivo neppure a spiccicare parole, mi sentivo vuoto dentro, morto. Desiderai la morte parecchie volte, iniziavo a sentirmi un estraneo nel mio castello. Quando mi vestivo, quando parlavo, quando scopavo (ormai raramente) e persino quando piangevo. Era come se fossi un piccolo robottino a cui tirano la corda, eseguivo meccanicamente dei gesti che non sentivo miei. Questo corpo nella quale risiedeva la mia anima rotta non era più di mia proprietà.
 
***
 
 
«Hai intenzione di tenere il broncio per molto?». La fissai roteando gli occhi in maniera eloquente.
«Se avessi fatto guidare me, magari—» mi zittì con un cenno della mano, i suoi bracciali tintinnarono producendo una dolce melodia.
«Oh andiamo piantala di fare il maschilista, pensi di essere l’unico in grado di portare una macchina?». Ci fissammo qualche istante, sorrisi e valse più di mille parole. In realtà si, pensavo di essere l’unico. Anche volendo non avrei saputo spiegare il filo sottile che mi teneva legato a quei cuori artificiali fatti di pistoni e olio. Con le auto riuscivo a fare magie, quasi come se fossi nato da dentro un fottuto motore e non dalla figa di mia madre. Mia madre. Non la vedevo ormai da anni, so per certo vivesse ancora lì. Con lui. A quanto pare non era riuscita a fare qualcosa di concreto nella sua vita. E io? Mi venne da ridere a quel pensiero,  e lo feci beccandomi un’occhiata risentita dalla piccola vipera di fianco a me.
Osservai il portone incrostato e pieno di graffiti, da qualche parte doveva ancora esserci il mio. Ignorai andando avanti, entrando dentro l’androne scuro e maleodorante. Abitavo al quinto piano di un palazzo fatiscente, l’ascensore era un lusso che nessuno in quel quartiere poteva permettersi, eppure non me ne lamentavo. Mi piacque la sensazione di stanchezza nelle mie gambe, ero stato così tanto steso su una brandina a riflettere e vomitare maledizioni verso me stesso. Quando l’ingresso di casa mia mi accolse delle urla seguirono pochi istanti dopo. James e Peter applaudirono il mio rientro con quelle facce adesso più ‘’mature’’, sorrisi loro andandogli incontro ricevendo il secondo abbraccio sincero dalla mia uscita di prigione.
«Il bastardo è tornato quindi?». La voce profonda di James interruppe quel momento forse troppo dolce per gente come noi.
«Avremo di che pentircene». La voce atona e cinica di Peter gli fece da sfondo, diedi loro due cazzotti ben assestati mentre Alice spariva in cucina probabilmente cercando le pizze promesse dagli altri due.
«Alle corse aspettano tutti te.» James mi fissò in maniera eloquente, annuii circondandogli le spalle con un braccio.
«Lo so. Sono tornato solo per questo, dove cazzo andreste senza di me?»
«Probabilmente ai Caraibi a bere del Mojito». Peter spense al solito la mia arroganza con poche battute sparendo lungo il corridoio, era l’unico che si preoccupava di aiutare Alice nelle faccende domestiche. Aveva un modo tutto suo di esternare l’affetto, sempre così cinico e quasi brutale dai suoi occhi irradiava però una luce così calda da sopperire la sensazione di disagio che procurava solo aprendo la bocca.
Fissai i tre volti attorno al tavolo sentendo una strana sensazione partire dalla bocca dello stomaco, mi avevano perdonato? Mi avrebbero perdonato se avessi sbagliato ancora? Perché io conosco me stesso, so di cosa sono capace, so quanto è precario l’equilibrio che mi tiene ancorato al baricentro.
 
***
 
 
Dopo trecentosessantacinque giorni di pura sofferenza scattò in me qualcosa, ruppi lo specchio del bagno perché incapace di fissarmi ancora. Shanti dormiva ubriaca sul letto, alle volte l’alcool riusciva a farti tirare un po’ di più, riusciva a farti sentire un po’ più tardi l’esigenza di farti. Tornai in camera fissandola, le cosce piene di lividi mi ricordarono mia madre, una lacrima sfuggì solcando la guancia. Non l’asciugai lasciando che corrodesse la mia pelle, che cosa ero diventato? Molti pensano che gli eroinomani non siano in grado di intendere e volere, si sbagliano. Sbagliano tutti. Il senso di colpa è così viscerale da mozzarti il respiro. Scrissi un biglietto sbagliando parecchie parole a causa del tremore, parole semplici: ‘’mi dispiace, Jay’’.
Fuggii come un ladro nel cuore della notte, l’abbandonai al suo destino seguendo il mio che si prospettava ben più oscuro di quella notte senza luna. In giro per i vicoli fissavo volti smunti e sofferenti, senza neppure rendermene conto i miei piedi mi condussero alla stazione dei treni. Ricordo di essermi fatto nei cessi durante il viaggio, e quando le ombre dei grattacieli di New York mi accolsero sentii di essere nel posto giusto. Se dovevo morire l’avrei fatto lì, lì dove stava il mio cuore, i miei affetti. Una parte di me in realtà pensava di poter cambiare, con l’aiuto di James e Peter magari. Con l’aiuto di Alice. Non credo dimenticherò mai il suo viso quando mi intrufolai nella sua camera qualche notte dopo.
«Che cosa hai fatto..» sapevo cosa volesse dirmi, mi chiedeva cosa avessi fatto del me stesso che aveva lasciato. Come potevo spiegarle di non saperlo? Stuart mi indirizzò a parecchi centri di disintossicazione, ma fuggivo puntualmente da ognuno di essi. Randagio persino nella mia stessa città. Rubavo per mantenermi la droga, il cibo adesso era irrilevante. Allontanai James, allontanai Peter. I miei scatti di rabbia erano incontrollabili e furiosi. Non riuscivo a gestire più tutta la rabbia di una vita passata a prendere mazzate, non riuscivo ad avvicinarmi alla porta di mia madre, fino a una notte. Bussai alla sua porta e quando i nostri occhi si incrociarono qualcosa si ruppe dentro di me.
«Te l’avevo detto che sarei tornato». Mi sorrise, lei bambola sgualcita dai vestiti sporchi.
«Amore mio..» odiavo quando lo diceva. Non so perché, quel nomignolo che tanto avevo adorato da bambino adesso sembrava divenuto la mia peggiore condanna. Mi fissò le braccia chiudendo gli occhi per un secondo.
«Mamma..»
«Non posso credere tu l’abbia fatto». Non c’era giudizio nelle sue parole, ma una lenta rassegnazione. La rassegnazione di chi sa di aver peccato, contro Dio, contro se stessa e contro la sua stessa carne. La rassegnazione di chi sa che non potrà mai cambiare le cose.
«Mi manchi così tanto—» la  mia voce si ruppe, serrai i denti tirando su col naso. Le grate dalle quali mi guardava restarono chiuse. Per me. Per suo figlio.
«Devi andartene. Lui sta tornando». Quando il suo volto sparì mi sentii perso come quando stavo a Chicago. Che senso aveva tornare se lei non era disposta ad accogliermi? Perché non riuscivo a farmi amare abbastanza? Perché uno sconosciuto sembrava contare più di me? Perché la droga sembrava ormai essere la mia unica ancora di salvezza in quel mare di disperazione?
Quando la mia vita andò totalmente alla deriva, dopo anni di dipendenza, accadde qualcosa. Quella notte era un lavoro apparentemente semplice, avrei dovuto rapinare un supermercato, togliere tutto l’incasso e portarlo con me. Ancora oggi non mi spiego come sia potuto accadere, vidi solo le volanti arrivare come se sapessero già che sarei stato lì. Avevo fatto jackpot, niente più ammonimenti per me. Le porte della galera si aprirono: avevo ventidue anni. Nessuna cauzione per un relitto come me, non potevo comunque permetterla. Soffrii le pene dell’inferno lì dentro, mi disintossicai a forza strappando pezzi della mia carne, aggrappandomi alla poca voglia di sopravvivere che mi era rimasta. Aggrappandomi ai colloqui con Alice, con James e Peter, con Stuart.
«Mia madre—» lo fissai dal vetro senza riuscire a continuare.
«Si, lo sa. Sono andato da lei qualche giorno fa». Sopperii ancora una volta la voglia di piangere annuendo mestamente. Il generale mi fissò con affetto.
«Non sei solo Jayden». Era da sempre l’unico a chiamarmi così. Volli credergli, per un singolo istante io volli credergli davvero. Mia madre non venne mai a trovarmi, non chiamò, non mandò neppure un biglietto. Sembrava avermi semplicemente rimosso dalla sua esistenza, e così dovetti adeguarmi. Dovetti strapparla a forza dal mio cuore, nonostante facesse male. Passai lì dentro due anni, uscendo mi sentii un uomo nuovo. Un uomo ritrovato.

Lo ero davvero?
 
 
***
 
 
L’orologio segnava le due, e la luna alta nel cielo ci vide seduti a fissarci in silenzio. Aveva da sempre quello strano modo di entrarmi dentro, rovistare un po’, capire cosa avessi e come mi sentissi. Alle volte mi domando se senta anche ciò che provo quando lei è attorno, mi domando se lo ignori perché è meglio così. Perché due vite come le nostre non potrebbero mai incontrarsi, non nel modo in cui vorrei io.
«Hai stilato un prospetto di vita diciamo da qui ai prossimi mesi?». Mi sorrise bevendo distrattamente dell’acqua.
«Lo sai, sono un accanito fatalista. Seguirò la corrente». Mi stiracchiai rumorosamente ignorando il suo sguardo di disapprovazione.
«Quindi nel tuo gergo sarebbe qualcosa come: farò lo stronzo incapace sul divano di casa mia fin quando le piaghe sul mio culo non andranno in putrefazione?». Restai in silenzio qualche secondo prima che la mia risata non facesse tremare persino le pareti.
«Può darsi, ti dispiace?». Mi avvicinai col busto, i nostri visi adesso vicini. Riuscivo a vederle quella spruzzata di lentiggini così assurdamente adorabile. Mi beccai uno spintone poco carino prima di fissarla alzarsi, i piedi rigorosamente scalzi, dirigendosi lungo il corridoio. La seguii docilmente permettendomi di osservare la mia camera, il mio letto, non vedevo un materasso decente da anni. Si stese dal lato destro, consapevole della mia predilezione verso il lato opposto. La ignorai togliendomi la maglia, spogliandomi davanti a lei senza vergogna; alle volte era più un metterla alla prova, capire fino a che punto si sentisse a suo agio con me. Per qualche secondo non la sentii respirare, quando mi voltai tornando in boxer sul letto recuperò egregiamente lanciandomi il cuscino in faccia.
«Non puoi dormire come tutte le persone normali?». Mi stesi sospirando fintamente insoddisfatto.
«Dovresti ringraziarmi sai?» mi fissò interrogativamente. «Di solito dormo nudo» sorrisi malizioso poco prima che affondasse i suoi artigli tra i miei capelli dandomi una severa scrollata.
«E’ il momento di crescere, hai quasi venticinque anni, idiota». Borbottò quell’insulto dandomi le spalle, un invito implicito a circondarle la vita con il mio braccio avvicinandola a me. Seppellii il viso nell’incavo del suo collo, mi piaceva il suo odore. Da sempre lo stesso, Alice odiava i profumi e come le bambine utilizzava semplicemente il borotalco. Eppure a me piaceva, non so, era come abbracciare qualcosa di bello, di confortante, qualcosa di pulito. Come fare un bagno nell’acqua limpida e fresca quando il tuo corpo è talmente sozzo da risultare putrescente.
«Mi sei mancata». Dovevo aggiungere altro?
«Anche tu». Forse no, forse sapeva e conosceva le cose meglio di me.
«Tuo padre sa che sei qui?». Si mosse a disagio tra le lenzuola.
«Sa che sarei venuta a prenderti, si.» Alice aveva un modo impeccabile di evadere le mie domande.
«E sapeva anche che saresti rimasta a dormire?». Si voltò così repentinamente da spaventarmi quasi, i nostri nasi sfregarono tra loro. Probabilmente se ne rese conto in quel momento provando ad allontanarsi, ma la mia stretta divenne micidiale.
«No. Non sarebbe comunque d’accordo, lo sai com’è fatto..» mi domandavo spesso se Stuart avrebbe approvato dormisse con un qualsiasi altro ragazzo, magari di buona famiglia e dal passato limpido. Sapevo comunque quanto fosse un pensiero bastardo il mio, quell’uomo mi aveva sempre trattato come un figlio, ma potevo biasimarlo davvero se provava a proteggere quella che figlia lo era davvero per lui?
«Alice—» provai a parlare, volevo sul serio chiederle se ricordasse il nostro bacio, ma qualcosa me lo impedì.
«Mh?»
«Niente, ho pensato che domani ti porterò a mangiare un bel gelato». Sorrise in maniera disarmante e per un secondo scordai il filo logico dei miei pensieri. Restai a fissarla dormire per ore, mi piaceva. Lo facevo da anni ormai, le scostavo i capelli dal viso, fissavo come le ciglia lunghe ombreggiassero le guance, o come la bocca appena schiusa divenisse quasi lucida. Quando la fissavo così intensamente sembravo possedere tutte le risposte alle mie domande, compresa quella sul perché non saremmo mai potuti stare insieme. E tra tutte era sicuramente la risposta che più odiavo.
 

 
«Seriamente sei cieca?». Allargai le braccia sbuffando stizzito.
«HAI FINITO? Scusami tanto se non solo la nuova Michael Jordan della nazione, ok?». Mi lanciò la palla con rabbia voltandomi le spalle pronta ad andarsene. La fermai costringendola a voltarsi.
«Sei arrabbiata?». Mi fissò come fossi un demente.
«Ovvio che lo sono. Ti incazzi perché non riesco a fare uno schifosissimo canestro?». Il suo modo di rigirarsi le cose era a tratti adorabile e a tratti snervante.
«Vorrei ricordarti che mi hai chiesto tu di insegnarti, e adesso ti lamenti?». Battibeccare era ormai consuetudine per noi. Avevo diciassette anni, lei quindici. Veniva spesso nel campetto malmesso per vedermi giocare, se c’era lei a fare il tifo per me allora la vittoria era assicurata.
«Non pensavo di certo fossi un pazzo isterico nell’insegnare. Dammi questa maledettissima palla». Me la strappò di mano posizionandosi nuovamente vicino al canestro, sorrisi rubandogliela di mano ignorando i suoi strepiti, lasciando che mi inseguisse. Sollevai il pallone in alto, saltellò di fronte a me cercando di prenderlo finché le mie braccia non caddero sulle sue spalle bloccandole ogni via d’uscita. Mi fissò immobile aggrottando la fronte.
«Se faccio canestro da questa distanza, avrò un premio?»
«Non ci riuscirai mai». Più mi sfidava e più diventavo competitivo. Con lei praticamente vicinissima sollevai le braccia, mirai con un occhio socchiuso lanciando la palla. La sua testa rossiccia seguì i movimenti come al rallentatore, e quando centrai perfettamente il canestro tornò a respirare.
«Ho vinto». La mia voce la colse di sorpresa, voltò il viso repentinamente solo che ad accoglierla non ci fu alcuna risata ma le mie labbra che traditrici toccarono le sue. Mi ero sempre chiesto che consistenza avessero, dal colorito così simile alle ciliegie, e finalmente lo seppi: morbide e calde, sembravano state create apposta per me, o probabilmente volli convincermene io. Ciò che non mi aspettavo fu sicuramente il sentirle schiudersi e ricambiare quel bacio che suggellò la fine di un torrido pomeriggio d’agosto. Non ne parlammo più dopo quella volta, né io provai ancora a baciarla. Avrei desiderato farlo, ma la vita pochi mesi dopo mi portò lontano da lei, lontano dalle sue labbra, lì a Chicago dove forse un suo bacio avrebbe dato un nuovo destino alla mia vita.
  
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