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Autore: SirioR98    18/06/2018    2 recensioni
In fisica, un sistema isolato è un sistema posto così lontano dagli altri da non interagire con loro, oppure un sistema chiuso che non ha scambi con l’ambiente circostante.
È un sistema perfetto, in equilibrio, costante.
Mi chiamo Noah e mi hanno costretto in un sistema isolato.
Noah è un sedicenne nato e cresciuto in una piccola comunità di mormoni nello Utah. Apertamente omosessuale e fiero di esserlo, si ritrova a convivere per cause di forza maggiore con Alex, la sua “persona preferita”, che si identifica come nonbinary. Esplorando la comunità LGBTQ+ di Salt Lake City e sopravvivendo alle sfide della città natale di Joseph Smith, Noah si vede costretto a crescere prima del tempo e a cercare la sua voce.
Genere: Azione, Dark, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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*Angolo dell'autrice*
Buonsalve a tutti e ben trovati. Il brano di oggi è High Hopes, ultimo singolo del nientepopodimeno che il cuore, l'anima, l'unico (nel senso, unico membro del gruppo) frontman (inteso come uomo dotato di una fronte sproporzionata) dei Panic! at the Disco: Brendon Urie. La canone è tratta dall'album che uscirà venerdì, Pray for the Wicked, secondo progetto (quasi) da solista, ancora sotto il nome della band. È un brano ambizioso, che mostra in tutta la sua bellezza due/tre delle quasi cinque ottave che si ritrova in gola quell'uomo.
Vi auguro una buona lettura e al prossimo capitolo, che quasi sicuramente tarderà a causa del tirocinio. Stay tuned.


 
Capitolo 7


“Noah, a che ora ha detto che arriva?” Mi chiede nuovamente Alex, guardandosi intorno.
Alzo le spalle, continuando a guardare il cielo.
“Per la decima volta: alle quattro.” Rispondo pazientemente, cercando di mantenere la calma.
Alex si gira verso di me, guardandomi dall’alto in basso.
Non metaforicamente.
Io, dato che sono nato stanco e vivo per riposare, mi sono sdraiato sul tavolo da picnic. La mia persona preferita, invece, a stento non fa avanti e indietro per ammazzare la noia.
“E che ore sono adesso?” Mi domanda, quasi vomitando le parole.
Sospiro sonoramente.
“Ancora le quattro meno dieci.” Ribatto, coprendomi gli occhi con il braccio.
“Come fai a esserne certo? Non hai nemmeno guardato l’orologio!” Protesta.
Mi alzo di scatto per afferrare le sue spalle, ma la velocità mi fa girare la testa. Mi sorreggo sulla struttura in legno per non cadere.
“Tutto bene?” Mi domanda con voce preoccupata.
Annuisco, aspettando che la vista ritorni.
Ormai ci sono abituato, mi capita piuttosto spesso negli ultimi tempi.
“Alex, calmati. Sarà qui fra poco, ne sono sicuro.” Affermo, finalmente del tutto cosciente.
La mia persona preferita, come l’infante che è, si mette a battere i piedi e a sbuffare per protestare.
Quando fa così, non so come reagire.
Ogni tanto ha questi colpi d’infantilismo acuto, in cui ti chiedi se tu non sia in realtà un babysitter.
Alzo due dita.
“Ti do due anni mentali, solo perché sono buono. Uno e mezzo, pensandoci bene. Ora basta fare capricci, altrimenti niente gelato.” Continuo, assumendo il tono di un padre che sgrida i propri figli.
Alex smette immediatamente di lamentarsi.
“Dopo prendiamo il gelato?” Domanda con tono serio.
Alzo un sopracciglio.
“Solo se smetti di fare così.” Pongo come condizione.
Questo è tutto quello che serve per far calmare subito Alex, basta nominare del cibo e diventa docile come un agnellino.
“Perché non l’hai detto subito?” Borbotta, prendendo il cellulare e guardando lo schermo.
Scuoto la testa, incapace di arrabbiarmi.
Torno a sedermi e a guardare le famiglie raccolte nel parco subito dopo la fine della scuola.
Un pallone, lanciato fino al nostro tavolo, colpisce delicatamente il piede di Alex. La mia persona preferita si china a prenderlo e lo porge a questa bimbetta adorabile, con tanto di treccine e apparecchio ai denti, sorridendole cordialmente.
E quella bimba che fa?
Strappa di mano il pallone, fa una linguaccia ad Alex e dice, con la sua vocina acuta: “È il mio pallone. Trovatene uno tuo, pezzente!”, lasciando quel povero essere umano senza parole.
Scoppio a ridere, proprio non mi trattengo.
Alex si gira verso di me con sguardo di ghiaccio.
“Smettila.” Sputa fra i denti.
Cerco di trattenere le risate, mascherandole con un colpo di tosse.
“Mi ha detto pezzente? Ma dove ha imparato una parola del genere?” Domanda ad alta voce a nessuno in particolare.
Mi stringo nelle spalle.
“Genitori?” Propongo, guardando la bambina trotterellare verso due adulti vestiti di tutto punto. I classici medio-borghesi, come se ne ritrovano a decine in questo quartiere.
“Io alla sua età credevo esistesse un albero delle caramelle, figuriamoci conoscere certi termini…” Continua, scuotendo la testa.
Rido canzonatorio.
“Non è che tu abbia mai brillato per intelligenza.” Ribatto con un sorrisino, meritandomi una gomitata nelle costole.
“Sei simpatico quanto un dito nel-“ Interrompo Alex, indicando con la testa un gruppo di ragazzi vicini a noi, non così tanto da capire cosa stiano dicendo, ma abbastanza da vedere cosa stiano facendo.
“È una mia impressione o quelli stanno parlando di noi?” Domando curioso.
Alex si sporge un po’, giusto per vedere meglio.
“Chi? Quelli?” Mi chiede, indicando il gruppo.
Indice che abbasso immediatamente, fra parentesi, per non essere scoperto.
“Sì, loro. Non indicare, ti farai scoprire.” Sussurro, cercando di sembrare il meno sospettoso possibile.
Certo, perché due persone che bisbigliano fitti fitti e indicano gente a caso ovviamente stanno parlando del tempo.
Alex alza gli occhi al cielo.
“Probabilmente avranno visto la scena con quella figlia di Satana, non diventare paranoico.” Afferma, tornando a guardare il cellulare.
Alzo nuovamente un sopracciglio.
“Soltanto perché si è rivolta sgarbatamente, non la definirei una figlia di Satana.” Ribatto.
“Non è figlia di Satana perché si è rivolta male, ma perché è una bambina.” Specifica, con tono ovvio.
Ridacchio.
“Ma anche tu eri una bambina, una volta.” Faccio notare.
“Non hai prove. Io non ero una bambina, ma un piccolo adulto, c’è differenza.” Si difende.
“E di sicuro non un figlio di Satana come-“
“Vuoi smettere di parlare di Satana?” M’immetto, prima che possa finire la frase.
“Perché parlate di Satana, mi devo preoccupare? Che mi sono perso?” Domanda una voce alle mie spalle.
Mi giro, ritrovandomi uno Steve perplesso davanti.
Lanciando un'occhiataccia ad Alex, scuoto la testa.
"Lascia perdere, lunga storia. Come stai? Ti trovo…” Non riesco a continuare, lo guardo dalla testa ai piedi.
Sono passate all’incirca dall'ultima volta che l'ho visto.
"Più alto?" Mi suggerisce, facendomi rompere la contemplazione in una risata nervosa.
"Sì, più alto, esatto." Rispondo, grattandomi la nuca.
"E i capelli... Insomma, ti... ti stanno bene." Aggiungo, puntando alla sua doppia base e cercando di non smascherare il mio dissenso.
Steve sorride sotto i baffi.
"Non ti piacciono, vero?" Mi chiede, scherzando.
"Li detesto!" Ammetto, scoppiando a ridere.
"Avevi dei capelli così belli, ora sono..." Aggiungo, continuando a indicare la sua testa.
"Non ti preoccupare, ricresceranno." Mi rassicura, ammiccando.
Alex ci interrompe giusto in tempo, mettendomi un braccio al collo.
"Se voi ragazzi avete finito di flirtare, c'è un gelato che ci aspetta." C’informa con tono canzonatorio.
Alzo gli occhi al cielo, mentre la mia persona preferita mi lascia andare e saluta Steve.
"Finalmente posso dare un volto alla tua voce! È un piacere vederti, Alex." Afferma Steve, iniziando una di quelle strette di mano che si fanno fra amici, niente di complicato.
"Ti immaginavo in modo diverso, a dire la verità." Continua, guardando Alex dalla testa ai piedi.
"Non nel senso negativo del termine, sia chiaro." Aggiunge velocemente, alzando la mano.
Alex scuote la testa, con un sorriso divertito.
"Tranquillo, me lo dicono tutti." Spiega, stringendosi nelle spalle.
"Noah mi ha spiegato qualcosa in anticipo, quindi è da un po' che ho il dubbio: che pronome devo usare?" Chiede il ragazzo, tornando serio.
Alex s’illumina.
"Vai di neutro." Afferma con la felicità di chi è consapevole di parlare con una persona rispettosa.
Steve annuisce soddisfatto e si sfrega le mani.
"Quindi… questo gelato?" Domanda, leccandosi le labbra.
"Da questa parte, signori." Rispondo, indicando il sentiero di fronte a noi che porta all’uscita del parco.
"Vi avverto: il primo che tenta, anzi no, che solo pensa di assaggiare il mio gelato... È un uomo morto. Non scherzo. Mordo." Ci minaccia Alex, aprendo la porta della gelateria.
Steve mi rivolge uno sguardo confuso, chiedendomi silenziosamente se stia scherzando.
Non rispondo, ma alzo un sopracciglio, tenendogli la porta e invitandolo a entrare con un cenno del capo.
"Quindi, se ci tenete alle dita, siete avvisati. Chi ordina per primo?" Domanda, girandosi verso di noi e intrecciando le dita per assumere un'aria innocente.
"Penso si debba ordinare direttamente al tavolo." Fa notare il mio ex-coinquilino.
Di comune accordo, i miei due amici prendono posto a un tavolo retrò vicino alla finestra, di quelli che si vedono nei film anni '50, con tanto di rivestimento in pelle rossa. Io, invece, mi dirigo al tabellone per controllare i prezzi.
E mentre sono intento nella mia analisi, sento qualcuno bisbigliare emozionato in una panca vicina. Sposto lo sguardo senza muovere la testa, attirato dalla foga con cui questa ragazza parla al padre. I due sono chini sul tavolo, lanciano occhiate fugaci nella mia direzione generale e continuano a parlare. Mi giro in direzione del loro sguardo, pensando che stia succedendo qualcosa, però ritrovo solo la normalità dell'entrata, così come ci ha accolto qualche minuto fa.
Che stiano parlando di me?
Mi volto nuovamente verso i due, ma pare che abbiano smesso di parlare e siano tornati ai piatti quasi vuoti.
Scuoto la testa, concentrandomi di nuovo sul tabellone di fronte a me.
Sto diventando paranoico.
Ovviamente non stavano parlando di me, perché mai dovrebbero farlo?
Mi allontano dal listino prezzi deciso a prendere il solito cono al cioccolato, ma a metà strada dal mio tavolo una mano mi tocca la spalla, facendomi voltare curioso. È la ragazza di prima che, insieme a suo padre, si avvia verso l'uscita.
Mi saluta con la mano, sorridendomi.
Confuso, la saluto di rimando.
Raggiunge il padre, fermo davanti la cassa, ed escono dalla gelateria.
"Chi era quella che ti ha salutato?" mi domanda Alex, quando mi siedo alla sua destra.
Mi stringo nelle spalle.
"Non lo so..." Rispondo perplesso.
"La conosci?" Aggiunge Steve.
Scuoto la testa.
"Non ne ho idea, forse sì? Prima mi sono accorto che stava parlando di me con suo padre... Almeno credo. Non so, probabilmente la conosco e mi sono dimenticato di lei, non sarebbe la prima volta." Spiego velocemente, in imbarazzo per l'attenzione.
Steve e Alex si guardano dubbiosi, ma lasciano cadere la questione con una scrollata di spalle.
Ordiniamo i gelati e ci mettiamo a parlare del più e del meno, Steve ci aggiorna su cosa mi sia perso durante le ultime due settimane al riformatorio.
"Non sto scherzando, a Berkley per la rabbia stava esplodendo quella vena sulla tempia! Si vedeva palesemente che voleva alzarmi le mani. Ma ormai sono maggiorenne, non potevano più tenermi in gabbia." Spiega il ragazzo, ridendo al ricordo.
"Sei un pazzo!" Commenta Alex, unendosi alle risate.
Scuoto il capo, disapprovante.
"Amico, devi fare attenzione adesso. Devi mettere la testa a posto, non puoi litigare e insultare i poliziotti, ti potrebbero arrestare per oltraggio a pubblico ufficiale. Come hai detto tu, sei maggiorenne, finiresti veramente in galera." Lo rimprovero, con tono grave.
Steve alza gli occhi al cielo.
"Non ti preoccupare, mamma, so badare a me stesso. E poi non ho la minima intenzione di tornare in gabbia, nossignore. Voglio vivere come un uomo libero, trovare un lavoro decente e mettere pianta stabile. Sono stanco di avere le sbarre alla finestra." Mi rassicura, girando il cucchiaino nella coppetta.
Sospiro.
"Lo so quello che stai pensando: nessuno assume una persona con precedenti, soprattutto se sono furto e rissa. Però non ti preoccupare, ho già un aggancio. Andrò a lavorare con mio fratello nel suo ristorante, giusto per raccogliere i soldi, e poi, quando avrò racimolato il necessario, apriremo quel negozio di tatuaggi. Diventeremo più famosi di Kat Von D, te lo assicuro." Afferma, offrendo il bicchiere d'acqua per un brindisi.
"Avremo il nostro programma televisivo, gli spettatori dimenticheranno Tattoo Inc." Ribatto io, facendo tintinnare il bicchiere contro il suo.
Ci sorridiamo complici, mentre Alex propone di chiedere il conto e tornare a casa.
Chiama la cameriera, che arriva con il taccuino in mano.
"Oh, un signore ha già pagato il vostro conto, non preoccupatevi." C’informa con un sorriso cordiale sulle labbra.
Ci guardiamo disorientati, intanto che la cameriera si allontana, chiamata da altri clienti.
Mi alzo velocemente e la blocco, quasi inciampando sulla panca per la fretta.
"Mi scusi, di che signore sta parlando?" Le domande, aspettando che le macchie si dissolvano dalla mia vista.
"Era nel tavolo all'angolo, insieme a sua figlia. Ha pagato una mezzoretta fa. Oh, vero, vi augura anche buona fortuna!" Aggiunge, per poi tornare ai suoi clienti.
Steve e Alex si alzano e insieme usciamo dalla gelateria, più confusi di prima.
"In che senso 'buona fortuna'?" Domanda Alex, stranito.
Mi stringo nelle spalle.
"Noah, sei sicuro di non conoscere quella ragazza?" Mi domanda nuovamente Steve.
"Ma no, ti dico che non ricordo! Insomma..." Rispondo agitato, a disagio per la situazione.
"Non ha senso. Tutta questa storia non ha senso." Concludo, alzando le braccia al cielo, incapace di risolvere il rompicapo.
"Torniamo a casa, su." Ci esorta Alex, velocizzando il passo.
Girato l'angolo, vediamo l’orda di protestanti giusto fuori dalla proprietà dei Winterfield. In una settimana si sono moltiplicati come i ratti, anche più velocemente. E la disinfestazione è altrettanto difficile. Penso che, ormai, i coniugi se ne siano fatti una ragione, neanche ci fanno caso. Così anche i miei coinquilini temporanei, li ignorano e basta, andando avanti con la propria vita. Ogni tanto uno o due ragazzi si mettono a chiacchierare e cercano di ragionare con loro, ma ricevono solo insulti e parole d’odio.
C'è poco da fare: con persone così indottrinate e convinte di essere nel giusto non si può parlare, prima lo si capisce, meglio è.
Abituato come sono ad avere la porta di casa sbarrata, quasi mi dimentico che non sia una situazione ordinaria. La reazione di Steve me lo ricorda.
“Sapevo che stessero protestando davanti al rifugio, ma non immaginavo che la situazione fosse così drastica…” Commenta sorpreso, indicando le persone dietro i cartelli, quelle sedute sul prato dei Paget e altre stese in fila al limite del giardino della proprietà, a formare una sorta di recinto umano.
Mi stringo nelle spalle, indeciso su come rispondere.
“Tu ignorale. Se dai loro conto, li fai vincere. Ricorda che lo scopo della protesta è attirare l'attenzione, togli quella e diventa un campeggio leggermente diverso.” Spiega Alex con nonchalance.
Ci avviciniamo alla fila di protestanti, che ci ostruiscono il cammino con la loro presenza. Quando ci vedono, alcuni si mettono a urlare slogan già riportati sui cartelloni, sventolandoceli davanti al naso per sottolineare la loro indignazione. Li guardo inespressivo negli occhi, tutti, a uno a uno. Non c'è umanità in quelle pupille, non un briciolo di gentilezza, solo uno sguardo ferino illuminato di odio e rancore e irrazionalità. Non le vedo come persone, ai miei occhi hanno perso il loro status, sono diventate presenze di quei fumetti che leggevamo qualche tempo fa con Alex, pensando che una ferocia simile potesse essere solo inventata.
Solo ora capisco che la fantasia, in qualsiasi sua forma, presenta sempre uno sfondo di realismo.
“Se volete entrare, dovrete passare sui nostri corpi, progenie del demonio!” Urla l'uomo sdraiato davanti ai miei piedi.
Progenie del demonio?
Non sapevo di essere tornato al XV secolo… d'altro canto, tenendo conto per cosa stiano protestando, non dovrei stupirmi.
Mi giro a guardare i miei due amici, che mi osservano in attesa di una mia reazione. E io, semplicemente, scrollo le spalle e scavalco il protestante, facendo poi segno agli altri di seguirmi.
L'uomo in questione si alza allibito e, rosso in faccia per l'umiliazione, ci urla contro insulti.
“Come osate trattarci così? Siamo esseri umani.” Si lamenta fra le grida di dissenso per le nostre azioni riprovevoli.
“Siamo cittadini attivi di Salt Lake City, dovete portarci rispetto, randagi che non siete altro!” Prosegue, urlandoci contro.
Lo guardo inespressivo, con la stessa attenzione che si riserva alla pubblicità di YouTube prima di un video, nell'attesa che spunti l'opzione per saltarla.
Quando l'uomo chiude la bocca e finisce di lagnarsi, mi volto verso la porta di casa senza degnarlo di una risposta.
Steve, dal canto suo, non la prende bene come noi.
Fa un passo avanti, pronto a iniziare un diss, di quelli di cui abbiamo avuto esperienza in riformatorio, ma lo fermo dandogli di nascosto una gomitata sulle costole, che lo fa desistere dai suoi intenti.
Alex mi lancia un'occhiata confusa. Indico con un cenno della testa una finestra al piano superiore, dalla quale s’intravede la sagoma di Winterfield, intento a monitorare la situazione.
La mia persona preferita annuisce, avendo capito il perché delle mie azioni. Non vorrei che l'uomo avesse un altro scatto d'ira, sento che non riuscirei a sopportarlo. Da quando ha fatto quella scenata, sono stato in continuo stato di vigilanza, pronto a mettere al riparo Alex al minimo segno di agitazione da parte dell'uomo.
Non importa se io sono in pericolo, ma non voglio che Alex sia in pericolo per colpa mia.
Non di nuovo, non posso permettere che succeda.
Proprio per evitare episodi del genere, sono diventato molto più cauto nelle mie azioni, uscendo solo quando necessario per non incappare nei protestanti e, di conseguenza, reagire alle loro provocazioni. Evito il più possibile di stare in compagnia di Winterfield, che Alex stia da solo nella stessa stanza con l'uomo… in generale, siamo rimasti molto nella nostra camera, durante l'ultima settimana, accettando visite dai nostri amici, ma non scommettendo più e cercando di distrarci per non pensare a ciò che succede fuori dalla finestra.
“Non mi sentite, per caso? Oppure non avete coraggio di accettare le conseguenze del vostro stile di vita? Marcirete all'inferno, se non vi pentite. All'inferno, dico io, e non vi permetteremo di contagiare i nostri figli con le vostre scelte, diavoli tentatori. Giratevi e affrontate la realtà!” Prosegue l'uomo, alzandosi da terra e venendo verso di noi.
Mi mordo le guance, cercando disperatamente di aprire la porta prima che l'uomo ci raggiunga e finisca in rissa.
Sento Steve irrigidirsi, non voglio che la situazione degeneri.
Lo so, mi ha promesso di rimanere sulla retta via e mi dovrei fidare di lui, ma quando si tratta dei suoi amici, non pensa due volte a mettersi in pericolo.
Finalmente, con uno scatto si apre la serratura. Spingo Alex e Steve all'interno, chiudendomi la porta alle spalle, proprio davanti alla faccia del manifestante. L'uomo, non contento, prende a battere i pugni sulla porta, continuando a esortarci a uscire e ad affrontarlo.
“Ma che stai facendo? Dobbiamo reagire, dobbiamo-“ Inizia Steve, indicando freneticamente la porta.
“No. Non faremo niente. Ignora i colpi e andiamo nella nostra stanza.” Lo interrompo gelido, non lasciando spazio a opposizioni.
“E quindi ti lascio insultare a quel modo? Dov'è finita la tua dignità, Noah?” Mi rimprovera il ragazzo, cercando di farmi ragionare.
“Non è una questione di dignità, Steve. Non possiamo reagire, dobbiamo rimanere nella parte della giustizia. Ti pare che non voglia reagire? Mi sono letteralmente masticato una guancia per non sputargli in faccia. Non puoi neanche immaginare quanto lo voglia prendere a pugni, ma non ho intenzione di abbassarmi al suo livello!” Urlo in risposta, tanto forte da farmi sentire anche fuori, visto l'intensificarsi dei battiti sul legno d'ingresso e delle grida del protestante.
Steve apre la bocca per rispondere, ma non gliene do occasione.
“Devo prendere scelte che al momento non puoi capire, Steve. Ti chiedo di fidarti di me.” Continuo con tono tanto fermo da farlo desistere.
Con mio sollievo, Steve serra le labbra e annuisce.
“Saliamo in camera?” Propone Alex, cercando di spezzare la tensione.
In corridoio, veniamo fermati dal resto del nostro gruppo, munito di casse da computer, sedie sdraio, ombrellone e limonata in busta.
“Oh, siete tornati?” Chiede Sayid sorpreso.
Alzo un sopracciglio.
“No, in realtà siamo ologrammi, non si vede?” Ribatto sarcastico.
Sayid ha questo vizio di sottolineare l'ovvio.
“Molto spiritoso, Noah. E chi è il tuo amico?” Domanda, scrutando dalla testa ai piedi il mio ex-coinquilino, che porge la mano al ragazzo libanese.
“Steve. Ero il compagno di cella di Noah.” Si presenta, ricevendo un'occhiata sospettosa da Sayid.
“Capisco. Sayid.” Risponde lui, guardando Steve negli occhi.
È impressione mia o l'aria si è fatta stranamente pesante?
Steve mi guarda di traverso, mimando con le labbra ad Alex: “Quel Sayid?”
Alex annuisce con convinzione, ghignando sotto i baffi che non ha.
“È un piacere conoscerti, Noah mi ha parlato di te.” Ribatte Steve, lasciando Sayid piacevolmente sorpreso.
“Davvero? Il piacere è tutto mio, allora.” Ribatte il ragazzo, alleggerito dalla tensione.
M’intrometto nella conversazione, prima che per me diventi imbarazzante.
“Che fate con tutta quella roba?” Domando, indicando gli oggetti che tengono in mano.
Audrie si stringe nelle spalle.
“Abbiamo pensato di goderci un po’ di musica in giardino.” Spiega innocentemente.
La guardo scettica.
“Veramente? E cosa ascolterete, se posso saperlo?” Domando sospettoso.
“Una playlist di Heather, nulla di che…” Risponde la ragazza, sorridendo maliziosa.
Le faccio segno con la mano di specificare.
“Un po' di Tomboy, Village People, Sam Smith, Macklemore, Hayley Kioko… forse anche Katy Perry.” Ribatte Marlene, contando gli artisti sulle dita.
Sospiro sonoramente, premendomi la radice del naso fra due dita.
“Giuro sul Dio in cui non credo che se sparate a tutto volume Ok 2 B Gay, non vi faccio entrare più in casa.” Li minaccio, indicandoli singolarmente.
“E la limonata liofilizzata?” Chiede Alex, notando solo ora la busta.
“Fuori fa caldo e siamo troppo pigri per spremere limoni.” Spiega Sayid, scrollando le spalle.
“Vi volete unire a noi?” Aggiunge Audrie, mettendomi un braccio al collo, che sposto immediatamente.
“Eh… No. Non voglio finire nei guai, grazie mille.” Rifiuto, incrociando le braccia.
“Finire nei guai? Non stiamo facendo nulla di male!” Si lamenta Sayid, ricevendo uno sguardo di rimprovero.
“È una chiara provocazione rivolta ai manifestanti. Avete sentito Winterfield, non dovete interagire con loro.” Replico, serio in volto.
Odio essere il guastafeste di turno, ma qualcuno deve avere un minimo di senno.
“Come ti pare…” Sbuffa il ragazzo, facendo segno agli altri di uscire.
Non fanno due passi che Winterfield si catapulta in corridoio, ci sorpassa ed esce in giardino, lasciando la porta di casa aperta.
Curiosi di scoprire cosa stia succedendo, lo seguiamo di corsa.
“Andate immediatamente via dalla nostra proprietà, prima che chiami la polizia!” Urla a un gruppetto di persone sul nostro prato, due donne e un uomo, per essere precisi.
Due di loro hanno in mano una telecamera e un microfono, mentre una indossa delle cuffie e smanetta con un tablet. La donna con il microfono sta parlando, mentre l'uomo con la telecamera inquadra la folla di protestanti.
Giornalisti.
Quando vedono arrivare Winterfield, puntano la telecamera sull'uomo.
“È lei il proprietario del rifugio? Può lasciare un commento?” Chiede la giornalista, puntando il microfono sotto il naso di Winterfield.
“Non ho nulla da dirvi. Andatevene subito dalla nostra proprietà.” Ripete, mettendo una mano dietro le spalle della donna per spingerla delicatamente fuori dal giardino.
Osservo la scena dalla porta d’ingresso, fermo come una statua. Succede tutto contemporaneamente: i giornalisti e Winterfield, le urla dei protestanti, i miei amici che commentano la scena bisbigliando.
I rumori mi assalgono, sovraccaricando sensorialmente il mio cervello.
La mia attenzione salta da un gruppo all'altro, incapace di concentrarsi su una cosa sola.
È disorientante.
La giornalista ci guarda da sopra la spalla.
Vedo il suo volto illuminarsi.
Liberandosi dalla presa di Winterfield e non prestando orecchio alle sue proteste, ci viene incontro.
“Tu sei il ragazzo del video, ho ragione? Come ti chiami?” Domanda, porgendomi il microfono.
Senza preavviso, mi ritrovo ancora una volta involontariamente davanti a una telecamera.
“Io… Uh…” Balbetto, osservando in successione la giornalista, la telecamera, Winterfield e i protestanti, per poi tornare nuovamente sulla giornalista. 
Mi hanno preso alla sprovvista, sto entrando nel panico.
La testa mi gira, sento il sangue inondarmi il viso.
Odio essere al centro dell'attenzione.
“Noah…” Riesco a rispondere, prima che Winterfield si ponga fra me e la giornalista, intimandola di lasciarci in pace.
“Noah, come ti fa sentire questa situazione? Come voce della causa, hai qualcosa da dire?” Continua la giornalista, ignorando l'uomo.
Winterfield decide, quindi, di farci rientrare.
Cerca di spingermi dentro.
Tutto d’un tratto, capisco perfettamente l'atto di quell'uomo in gelateria e tutti gli sguardi, i sussurri e i saluti che ho ricevuto oggi.
Riesco a liberarmi e a prendere il microfono.
Piantandomi saldamente sui piedi, guardo fisso in telecamera, non facendo caso allo sguardo di rimprovero di Winterfield.
“Vorrei solo ringraziare chi ci sta vicino, dimostrandolo con i piccoli gesti. Fra tutto questo odio a cui siamo sottoposti quotidianamente, le vostre voci ci danno la forza di andare avanti. Chiediamo soltanto un po’ di pace e un minimo di stabilità, come dovrebbe essere diritto di tutti i ragazzi, noi inclusi.
Non capisco quale sia la differenza fra noi e i vostri figli, forse una delle parti è stata più fortunata dell'altra, francamente non so quale, vedendo la reazione degli adulti intorno a me.
Non sono un oratore, sono solo un ragazzo che si è stancato di non avere potere sulla propria vita, di essere parte passiva del sistema, qualunque esso sia. Vorrei evitare che la situazione degeneri ulteriormente.
Per favore, lasciateci vivere in pace. Non ho altro d’aggiungere.” Concludo, restituendo il microfono alla giornalista e rientrando in casa, per poi collassare a terra quando la porta si chiude e l'adrenalina porta via con sé ogni forza che mi è rimasta per stare in piedi.
 
  
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