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Autore: Luana89    18/06/2018    0 recensioni
Nessuno può dire cosa succede in quel sottile processo di cambiamento tra la persona che eri e la persona che diventi. Nessuno, oltre te, può tracciare la linea immaginaria dell'inferno. Nessuna mappa. Nessuna via indicativa. Sei semplicemente uscito dall'altra parte, e non ti resta che camminare e sperare. In molti provano a scombinarmi i pensieri, a capire cosa ci sia dentro quel lerciume coperto da strati di capelli e ossa. Fottuti idioti. Nessuno entrerà mai nel mio castello. Nessuno ne varcherà mai nemmeno i cancelli. O forse si, forse tu?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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V




Rigirai il cartoncino finemente intarsiato tra le dita che tremavano appena, non vedevo Stuart e Alice dal giorno del funerale. Inizialmente la mia era semplice chiusura verso il mondo, verso coloro che mi amavano, verso i loro sguardi così pieni di pietà da corrodermi come acido sulla pelle. Dopo quella notte il motivo era cambiato, era subentrato il senso di colpa, ero ripiombato in quel vortice dalla quale pensavo di essere uscito per sempre. E non bastava pentirmi, non bastava cospargermi il capo di cenere, no stavolta nessun ‘’mi dispiace’’ sarebbe bastato, lo sapevo e non riuscivo ad affrontarli. Loro però sembravano ancora una volta decisi a non mollare la presa su di me, avevo trovato tra la posta l’invito alla festa per il pensionamento del Generale Stuart Wilson, e a quella proprio io non potevo mancare. Spesso mi chiedevo se avrebbe mai fatto differenza avere un padre come lui o se il problema di base ero io piuttosto che la mia infanzia e il mio passato che mi tormentava in ogni attimo delle mie giornate.
 
— Hai ancora il vestito del matrimonio di tua sorella?
— Perché?
— Ce l’hai o no?
— Perché?
— James hai rotto il cazzo, ti ho chiesto se ce l’hai.
— Si, ma a che cazzo ti serve?
— Ho una cena, il generale l’ha organizzata.
— Passo a portartelo dopo il lavoro.
— Okay.
— Ah, la prossima settimana ci sarà una corsa.
— Parteciperò.
 
 
Mi fissai allo specchio sistemandomi i polsini della camicia, non era male nell’insieme. Io e James avevamo praticamente la stessa taglia e altezza. Provai a fare il nodo alla cravatta, i miei occhi dallo specchio incrociarono i suoi. Lo vidi seduto sulla poltrona intento a bere della birra.
«Devi dirmi qualcosa?». Lo conoscevo come le mie tasche, modestamente.
«No figurati». Sollevò una mano mostrandosi disinteressato, lui sembrava invece non conoscere me.
«Okay.»
«In realtà—» si stoppò un secondo e per un attimo ebbi il timore si fosse accorto di qualcosa. «In realtà si, c’è qualcosa.»
«E cosa?». Disfai nuovamente il nodo, la mia mente era più confusa del solito.
«Alice esce con un ragazzo». Le mie dita si bloccarono contro la stoffa grigia, i miei occhi si piantarono sulla figura seduta a qualche metro da me.
«Chi?». Mostrai un’indifferenza ben lontana dalla realtà.
«Non lo so, un collega forse.. che ti aspettavi? Chi tardi arriva male alloggia». Sollevò la bottiglia con un mezzo sorriso ed ebbi l’impulso di mandarlo a cagare e sbatterlo fuori da casa mia.
«E’ complicato, tu lo sai». E adesso ancora di più, ma evitai di dirlo.
«Non lo so, non so cosa ci sia di così complicato. Mi sembrava soltanto giusto avvisarti». Scrollò le spalle con indolenza alzandosi, sparì lungo il corridoio e due minuti dopo sentii la porta chiudersi lasciandomi solo coi miei pensieri. Chiusi gli occhi sedendomi ai bordi del letto, sostenendomi il capo quasi temessi potesse cadere e ruzzolare sul pavimento. Il solo pensiero che delle mani sconosciute la toccassero mi provocava più nausea di quando iniettavo male l’eroina nelle mie vene.
 
 
***
 
 
«E’ proprio vero che l’abito cambia totalmente un uomo». La voce divertita di Stuart mi accolse nell’atrio, lo fissai con un mezzo sorrisino stringendogli la mano. Scrutai in quelle pozze chiare, così simili a quelle della figlia, cercando tracce di consapevolezza. Recentemente temevo chiunque potesse accorgersi dell’errore in cui ero ricaduto, eppure in quel sorriso bonario non colsi nulla se non il palese affetto che lo legava a me. A uno scarto come me.
«Credo di essere in ritardo». Potendo sarei arrivato direttamente a cena finita, quei posti mi mettevano sempre a disagio. Quelle persone così diverse da me mi facevano sentire ancora più in difetto.
«Alice sarà felice di vederti, era sicura non saresti venuto e io ho appena vinto la scommessa». La sua risata profonda ci immise direttamente nel grande salone brulicante di gente, fissai i loro abiti abbastanza simili ai miei, i loro visi rilassati e altri troppo pieni di botox per riuscire a capire quanto poco o molto si divertissero.
I suoi capelli lunghi e rossi attirarono la mia attenzione, accanto a lei un ragazzo le sussurrava qualcosa all’orecchio, serrai la mascella ripensando alle parole di James. Quand’è che il mio treno aveva lasciato la stazione? O meglio, era mai arrivato a quella dannata stazione? C’era mai stata una fermata che l’avesse coinvolta? Si era mai sbracciata verso il treno in partenza supplicandolo di fermarsi? E io? L’avevo fatto io? SI. Lo urlai nella mia mente, avevo preso un fottutissimo treno da Chicago solo per ritornare da lei. Da mia madre che non c’era più. Cosa mi restava adesso?
I nostri occhi si incontrarono soppesandosi, i suoi colmi di sorpresa e un altro sentimento che non volli definire, era forse imbarazzo per la presenza dell’altro? Quindi sapeva quanto male mi facesse in quel momento? Le andai incontro e per la prima volta non sorrisi.
«Sei venuto davvero..» la sua voce sottile si cristallizzò tra noi.
«Ti dispiace?». Il mio tono inacidito la fece sobbalzare, aprì la bocca per rispondere ma l’intervento dello sconosciuto glielo impedì.
«Sono Matthew, tu devi essere Jayden.. Alice parla spesso di te». Mi sorrise porgendomi la mano, la strinsi senza ricambiare la premura.
«Chissà cosa dice». Il mio tono fintamente cordiale ingannò lui ma non lei.
«Dovremmo—» Alice provò a interromperci senza successo.
«Ha detto che siete cresciuti insieme». Mi stava sul cazzo quella sua sottospecie di bontà.
«Ha detto proprio così? In realtà sono il semplice ragazzo di strada accolto per pietà.»
«Jay». La sua voce tremante, le sue dita sulla mia giacca.
«Oh, beh in realtà—» per un secondo mi fece tenerezza, non era lui il cattivo in quel momento. Ma io. Mi scrollai da quella presa allontanandomi da lì, afferrando un calice pieno di qualcosa che scolai senza indugio.
«Festicciola noiosa, eh?». Seguii il suono di quella voce trovandomi di fronte una ragazza dai lineamenti eleganti e i capelli biondi.
«E tu saresti?». Inarcai un sopracciglio, mi ero già rotto il cazzo dei convenevoli e stavo lì solo da dieci minuti.
«Katie, tu devi essere Jayden». C’era qualcuno tra quelle merde umane a non conoscermi? Iniziavo a dubitarne.
«E’ una festa in mio onore e non ne sapevo nulla?». La mia battuta la fece ridere, o forse si sforzò di farlo.
«Non ti ricordi proprio di me». Aggrottai la fronte mandando giù il bolo che ostruiva la mia gola.
«Ci siamo già visti?». In quel momento vidi Alice fissarmi, mi spostai appena ignorandola.
«Un bel po’ di tempo fa, ricordi il compleanno di Alice? I suoi quindici anni, ero la ragazzina grassa che tutti prendevano in giro». Ci credo che non mi ricordavo di lei, si era praticamente dimezzata e la mia faccia rese palese quel pensiero facendola ridere.
«Katie, ma certo.. mi ricordo di te». E non mentivo, quella ragazza all’epoca era un’emarginata come me. Io ero lo straccione, lei la grassona. Mi sentii improvvisamente peggio, lei quantomeno era riuscita a uscire da quelle vesti lerce, io ero rimasto il solito scarto che ero a diciassette anni. Afferrai un altro calice bevendolo tutto d’un fiato.
 
«Possiamo parlare?». Osservai le sue dita esili aggrappate alla mia giacca.
«No non possiamo, se vuoi scusarm—» provai a divincolarmi ma non me lo permise.
«Perché fai così?». Odiavo la sua voce sconsolata, sul serio mi rendeva ancora più miserabile di quanto non fossi già di mio.
«Credimi, non vuoi saperlo sul serio» le sorrisi sciogliendo la presa con poca delicatezza.
«Invece si». Tornò ad afferrarmi, mi guardai intorno senza percepire alcuno sguardo su di noi.
«Dove hai lasciato il tuo accompagnatore? Non è carino da parte tua mollarlo così sai?». La mia ironia scivolò tra noi come acqua sporca.
«Hai idea di quante chiamate io ti abbia fatto? O di quante volte abbia bussato alla tua porta?». La sua rabbia mi rimescolò dentro, l’afferrai trascinandola in disparte, verso il giardino illuminato a festa e al momento deserto.
«Abbassa la voce». Sibilai quelle parole a un centimetro dal suo viso, fissando la porta finestra schiusa.
«Altrimenti?». Mi sfidò apertamente senza scostarsi.
«Altrimenti un cazzo, piantala di sfidarmi». Restammo in silenzio un istante, la sentii ridere ma non c’era gioia nel tono.
«Stavi provando a sedurre anche Katie?». Aggrottai la fronte.
«Anche? Quante tue amiche avrei sedotto, di grazia?». Stranamente mi sentivo innocente.
«Non è mia amica». Il tono velenoso mi lasciò interdetto.
«Perché? Adesso è magra si conforma agli standard della tua gente». Se l’avessi schiaffeggiata probabilmente avrebbe messo su un’espressione meno ferita.
«Pensi questo di me?». La fissai in silenzio senza sapere bene cosa dire, la mia rabbia aveva ancora una volta parlato a sproposito.
«Venire a questa festa è stato un errore, salutami tuo padre». Mi voltai provando a sfuggire ai suoi occhi, a quell’atmosfera improvvisamente tesa ma non me lo permise piazzandosi nuovamente di fronte a me.
«Ti ho fatto una domanda. Pensi questo di me? Pensi io sia come loro? Che scelga chi amare in base alla classe sociale?». In realtà no, non lo pensavo davvero. Eppure una parte di me, la più infima, lo pensava; se non fosse stato così al posto di quel tale al suo braccio ci sarei stato io.
«Sai cosa? Tutto cambia. Non siamo più due ragazzini Alice, adesso non basta più l’affetto, sono altre le cose che contano. I nostri mondi semplicemente non coincidono, lo sai tu e lo so io». Mi fissò come se non credesse alle mie parole.
«Sono da sempre l’unica che prova a farli coincidere, sono l’unica che è venuta nel TUO mondo provando a entrarci pur di stare con te». Sputò quell’accusa quasi fosse un peso impossibile da sopportare. «E tu? Sei mai venuto tu nel mio?»
«L’ho fatto adesso e mi è bastato». La superai provando nuovamente ad andarmene.
«Ho aspettato anni che i tuoi occhi si aprissero e mi vedessero, non succederà mai vero?». Mi bloccai a quelle parole voltandomi.
«Non puoi averlo detto sul serio. Ho passato i miei ultimi dieci anni a vederti Alice, ho sempre e solo visto te, nessun’altra. E anche nelle altre io vedevo te». La indicai sprezzante come se quella fosse una colpa sua e non mia.
«Tu non hai idea del modo in cui volevo tu mi vedessi». Una fitta di dolore mi percorse il petto, tirai su col naso serrando i denti che sfregarono tra loro.
«Tu non hai la benché minima idea di come io ti veda.»
«E tu non hai la benché minima idea di come io abbia visto te». Stavolta fu lei a voltarmi le spalle lasciandomi lì da solo, solo come mi sentivo d’essere. Avrei voluto fermarla, chiederle cosa intendesse dire ma non ci riuscii. Semplicemente me ne andai, abbandonai il vociare insistente e la musica classica rinchiudendomi nella mia auto, correndo come un pazzo lungo le strade illuminate alla ricerca di qualcosa. Qualcosa che non sapevo neppure io cosa fosse. O meglio quel qualcosa che avevo lasciato a quella festa, con un vestito in seta bianco che mai più avrei dimenticato.
 
 
***
 
 
— Safari dove cazzo sei. Ti aspetto da ore, ho bisogno della roba—sto male. Sto male sul serio, okay?
 
— PER QUALE PORCA PUTTANA DI MOTIVO NON RISPONDI ALLE MIE CHIAMATE. Cazzo ti uccido. Ho una corsa tra poche ore lo capisci? RISPONDI A QUESTO STRAMALEDETTO TELEFONO, BASTARDO.
 
 
Il rombo dei motori giunse attutito alle mie orecchie, camminavo in mezzo a quei corpi senza neppure sapere come mi reggessi in piedi. Ero madido di sudore, tremavo e la nausea non mi dava tregua mentre il dolore sembrava voler fare esplodere le mie budella. Eppure ero lì, ero lì perché dovevo correre, dovevo riprendere la posizione che a lungo avevo lasciato vuota. Quel podio per la quale sembravo nato. E anche perché i soldi iniziavano a scarseggiare. Vidi James accanto alla nostra auto, mi venne incontro sorridendo ma si bloccò fissandomi sconvolto.
«Che cazzo hai». La lingua sembrava incollata al mio palato.
«Nulla, credo di avere solo un po’ di febb—febbre». I suoi occhi lentamente presero consapevolezza.
«Non ci posso credere, hai ripreso a farti.. brutto bastardo hai ripreso a bucarti». Mi venne incontro a mani alzate, chiusi gli occhi provando a mantenermi lucido.
«Non ho ripreso un cazzo. Non mi faccio, sto solo male, lo giuro». Quando li riaprii vidi il disgusto nei suoi occhi, pensai fosse abbastanza come punizione.
«TU SOPRA LA MIA AUTO NON SALI». La indicò spingendomi, non ebbi la forza di contrastarlo e per poco non caddi a terra.
«Io correrò, l’auto l’ho fottuta io e io ci corro». La rabbia iniziò a montarmi dentro, la indirizzai verso di lui per non abbatterla su me stesso già demolito dall’astinenza. Avevo provato a sopperire la mancanza con l’erba, ma non era servito a un cazzo.
«Posso sapere che diavolo succede?» Peter apparve piazzandosi accanto a James.
«Dillo a lui, dillo a questo bastardo tossico che ha ripreso a bucarsi». Mi indicò come fossi il peggiore dei vermi.
«Hai ripreso a farti?». Mi fissò con una tranquillità agghiacciante.
«N—NO NON HO RIPRESO, VUOI LITIGARE? FATTI SOTTO NON HO PROBLEMI». Mi avventai contro James ma Peter si mise in mezzo spingendo entrambi.
«Ha detto di no, fallo correre». Per una volta le nostre espressioni coincisero, entrambi sbigottiti dalle sue parole.
«Stai scherzando?»
«No». Scrollò le spalle senza guardarmi.
«Io vado a correre, voi andate a farvi fottere». Mi allontanai così senza più voltarmi, salendo sull’auto. La corsa stava per iniziare.
 
«Ha una crisi d’astinenza.»
«Lo so bene.»
«E l’hai lasciato guidare?»
«Vedila positivamente, morirà dentro un auto come piace a lui piuttosto che con una siringa sul braccio.»
«Ma che cazzo di logica sarebbe?»
«La mia.»
 
 
La prima volta in cui ho schiacciato il piede sull'acceleratore avevo tredici anni, ho capito subito che era quella la mia strada. Le auto sono un prolungamento di me stesso, non c'è stato giorno in cui abbia avuto paura mentre il tachimetro si alzava sempre di più. Ma adesso si. Le mie mani sudano. Il mio cuore sta per esplodere e solo il rombo del motore riesce ad attutirlo. Sono in fottutissima paranoia, un ronzio persistente trafigge le mie tempie. Mi accascio sul sedile vomitando bile sul tappetino mentre una ragazza solleva una bandierina consunta. Sono tutti pronti, la mia gamba ha un lieve tremore, ci stanno 34 gradi ma continuo a sudare freddo e rabbrividire.
 
𝐆𝐎
 
Mi ripeto da giorni che il punto di rottura non è ancora arrivato, sono solo due fottutissime dosi al giorno in fondo. Si ma per quanto? Ne ho saltata una, e quando quel figlio di puttana non si è presentato ho passato le ore vomitando, contorcendomi nel mio stesso schifo. Accelero ancora, l'auto protesta quasi non volesse obbedirmi, ma lo farà come sempre.
Sono ancora in paranoia. Il mio cervello macina pensieri uno dopo l'altro mentre con gli occhi schizzo impazzito a fissare le auto. Le supero, sto vincendo e vorrei sollevare il dito medio verso James che starà guardando. Rido e piango. Piango e rido. Mi viene da vomitare, i crampi mi stanno divorando da dentro. Alle volte ho di nuovo l'impressione di non avere più il controllo del mio corpo, è come uno schifoso replay di Chicago. Succede ancora, riesco a vedere l'arrivo ma uno spasmo improvviso al braccio mi fa sbandare; mentre fisso il muro comando il mio fottutissimo cervello urlando: il freno. Il freno cazzo. IL FRENO. Non mi ascolta. Arriva lo schianto, le urla e il fumo.
Quando esco dall'auto con lo sportello rotto tra le mani sento qualcosa di viscoso sul viso, tocco il sopracciglio completamente aperto, probabilmente non ci vorrà un semplice cerotto ma sono vivo cazzo. Sono qui. Sono vivo, e non so se questo mi renda felice o meno. Il sangue che cola sugli occhi appanna la mia vista, riesco però a fissare James che sembra terrorizzato, vorrei dirgli che ho giurato il falso, che l'eroina è la mia punizione e la inietto direttamente in vena aspettando la redenzione. Vedo Peter accanto con le labbra appena schiuse, a lui non direi nulla e noi sappiamo perché. Ho perso. Ho perso per la prima volta nella mia vita, do un calcio a quel fottuto sportello allontanandomi da lì. Non me ne frega un cazzo di andare da loro a chiarire, devo avere la mia dose o morirò.
Morirò.
Morirò.
𝐒𝐓𝐎𝐏
 
 
 
— Pronto?
— Sono James, sei a casa?
— Che è successo?
— Si tratta di Jay.
— … Sta bene?
— Beh—potrebbe star meglio credo.
— Spiegati meglio.
— Sai già come suturare? Insomma frequenti quella cazzo di università per medici.
— ….
— Vai a casa sua, lui non ti chiamerà di sicuro.
 
 
 

 
  
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