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Autore: Pareidolia    21/06/2018    0 recensioni
Un'entità sconosciuta si ritrova a viaggiare tra diversi corpi in diverse dimensioni, alla disperata ricerca della propria identità. A guidarlo, creando intervalli tra i cambi di corpo e dimensione, saranno delle misteriose visioni dalle immagini ricorrenti.
Genere: Erotico, Horror, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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-Prima registrazione, 15 Maggio 2019. Nonostante la vicenda si sia conclusa ormai da due mesi, il pensiero continua a tormentarmi. Nonostante tutto ebbe inizio qualche giorno prima, ho deciso di raccontare ciò che accadde dal 24 di febbraio, quando io e Kim arrivammo allo sperduto villaggio chiamato Angae[1]. Una manciata di case un tempo bianche ma ora rovinate dall’umidità e dalla poca cura, situata in mezzo alla campagna più vasta e solitaria che avessi mai visto nonostante, durante il viaggio, incontrammo più volte fabbriche altissime e dall’acciaio nero come il fumo che si disperdeva nell’aria. La nebbia ingoiava ogni cosa, rendendoci difficili gli ultimi chilometri del viaggio. Fummo costretti a provare a fermarci più volte, sperando che il muro grigio che ci circondava si disperdesse ma non vacillò nemmeno per un solo istante. Viaggiavamo dal giorno precedente, l’auto macinava chilometri su chilometri ormai da quasi ventiquattrore, con una sola sosta di un’ora scarsa e, quando raggiungemmo le porte della minuscola città, sembrava quasi sul punto di esplodere. Avremmo voluto fermarci di più lungo il tragitto ma la situazione era d’urgenza estrema e ci era stato ordinato severamente di raggiungere il luogo senza alcuna sosta. Un ordine che né io né Kim volevamo eseguire. Appena raggiungemmo il primo edificio di Angae, una sorta di magazzino dalle saracinesche arrugginite e nere di polvere, scoprimmo che lo sceriffo del posto ci stava già aspettando, immobile a fumare una sigaretta, le dita sporche e scure come ogni cosa che riuscivamo a intravedere nella nebbia. Disse di chiamarsi Chan-Yeol, nato e cresciuto in quel posto sperduto, figlio del precedente sceriffo. Spiegò anche, ma di questo a noi importava poco, che in realtà era un normale agente a cui era stata affidata l’amministrazione del distretto; si autodefiniva sceriffo soltanto perché provava un amore spropositato per i vecchi western americani e italiani. Ci scortò alla centrale, un palazzetto sgangherato e triste composto da tre piani: Il piano terra occupato dalla segreteria, quello superiore con gli uffici e il sotterraneo, occupato per metà dalle celle e per l’altra metà dall’obitorio. Lì sotto si trovava il motivo della nostra presenza ad Angae. Un corpo rinvenuto appena qualche giorno prima in un campo deserto, immerso in gran parte nel fango, martoriato tanto dalle ferite inferte dall’assassino quanto dai morsi di animali selvatici. A trovarlo era stato un contadino che, all’alba, era passato di lì a bordo del proprio trattore. Una coincidenza ci aveva portati in mezzo al mare di nebbia che riempiva il villaggio e, in quella mattina fredda e solitaria, ci ritrovammo davanti a quella che per molto tempo fu per noi una prigionia.-
-Il corpo presentava numerose ferite, alcune tanto profonde e potenti da aver spezzato addirittura le ossa. La più evidente, però, era stata causata da un colpo di zappa. Kim osservò il cadavere per un’ora intera, studiandone ogni dettaglio, raccogliendo tessuti da inviare alla sede centrale. Non le fu affatto difficile, grazie agli anni di esperienza accumulati, suddividere innanzitutto le ferite dell’assassino da quelle causate dagli animali passati per il campo in cui era stato abbandonato. Successivamente identificò quelle inferte prima della morte, fra le quali però non si trovava il colpo di zappa. Passata quell’ora di analisi, ci fu evidente di avere fra le mani un caso a cui nessun agente di città è abituato. Qualcosa che non avevamo mai visto se non in televisione o letto sui giornali, un caso che solitamente veniva affidato ad altri colleghi e che, col tempo, veniva abbandonato e dimenticato su qualche scaffale negli archivi. Lo “sceriffo” ci disse che nessuno in tutta Angae sapeva chi fosse quell’uomo. Era stata fatta una sola segnalazione di scomparsa ma risaliva a un mese prima, spiegò poi. La denuncia era stata fatta da Go-Eun, una donna che si rivelò essere un pezzo molto importante di quel puzzle di eventi e misteri. Ci consigliò di andare a parlarle, nonostante lui non ci vedesse alcun legame con la faccenda. Rimandammo, però, la visita al pomeriggio, preferendo prima lasciare i nostri bagagli in albergo.-
-Albergo, poi, si fa per dire, ovviamente. Come tutti gli altri edifici era nero di polvere, abbastanza vecchio e palesemente in disuso che la vernice sui muri era caduta e si era mischiata alla terra secca che faceva da strada fra le abitazioni. All’ingresso ci attendeva un ometto dagli occhiali spessi, gli occhi che saettavano dal mio volto a quello di Kim con l’impazienza di chi sa che sta per arrivare il momento della paga. Ciò era abbastanza per farmi comprendere che fossimo gli unici visitatori da chissà quanto tempo. Dopo essersi infilato in tasca i soldi che gli diedi per la stanza, ci fece salire al piano superiore. Le scale di legno dell’albergo scricchiolavano ad ogni passo ma lui non ci fece minimamente caso. Era troppo impegnato a farci domande sul cadavere e su certi “strani sguardi degli abitanti di Angae, negli ultimi giorni”. Una frase che mi restò impressa nella memoria e non potei fare a meno di segnarla subito negli appunti, sottolineata da più righe rosse tanti erano i giorni che passammo in quel posto. Come sospettavo l’albergo era deserto. Tutt’ora la cosa non mi sorprende, vista la situazione in cui si trovava la nostra stanza e, sicuramente, anche le altre. Polvere ovunque, pavimenti neri e con incrostazioni dal colore poco chiaro, persino la luce si rifiutava di toccarne le superfici. Mi ritrovai a ricambiare l’espressione di disgusto di Kim ma, dopotutto, non potevamo farci nulla. Il gestore dell’albergo ci salutò, lasciandoci soli.-
-Nel primo pomeriggio uscimmo per incontrare Go-Eun, seguendo le indicazioni lasciateci dallo sceriffo per raggiungerne l’abitazione. Un alone di silenzio e tensione riempiva l’aria. L’intera Angae sembrava rimasta immutata nonostante le ore trascorse dal nostro arrivo. Sembrava che quel minuscolo villaggio fosse totalmente staccato dal mondo, impenetrabile da tutto ciò che gli fosse esterno e che avesse deciso, per qualche strano motivo, di lasciar passare soltanto noi attraverso il muro di nebbia che ne faceva da porta. Persino gli abitanti non sembravano voler uscire dalle proprie abitazioni. Su di me sento ancora i loro sguardi curiosi e nascosti fra le ombre di stanze buie e impolverate, piene di cose a me sconosciute. Ebbi, però, un assaggio di quelle abitazioni misteriose poco dopo aver bussato alla porta di Go-Eun. La donna che venne ad aprire mi lasciò imbambolato per qualche istante. La sua schiena era ricurva, facendola sembrare più bassa di quanto fosse in realtà ma guardandola erano evidenti le cose che il tempo le aveva portato via, lasciandole soltanto qualche ruga e una pelle secca, pallida. Si sforzò di sorridere e ci lasciò entrare, allungando una mano verso il baratro oscuro debolmente illuminato da una sola lampada che a malapena riesco a definire casa. Pareva più l’antro di una strega. Ricordo che ebbi proprio questa impressione appena la porta d’ingresso si aprì e il mio sguardo si ritrovò davanti lo stretto corridoio tappezzato di altre porte e che, in fondo, conduceva a un minuscolo salotto. Ci fece accomodare proprio nel salotto, su un divano circondato da sacchi dell’immondizia contenenti rifiuti vecchi che gettavano nell’aria un odore stantio e insopportabile. Lei si sedette di fronte a noi, su una poltroncina antica, afferrando dei lunghi ferri e iniziando a filare la lana con abilità. Non appena le rivela di essere stati mandati lì dalla polizia di Seoul per indagare sul recente omicidio, però, si bloccò completamente, alzando la testa dal piccolo maglioncino di lana e fissandoci a turno negli occhi. Ci fu come una pausa nel tempo e lo spazio che ci divideva dalla donna si fece infinito. Non ci fu alcuna parola, soltanto un gesto che arrivò accompagnato dal pianto. Indicò l’ingresso dell’abitazione, facendoci comprendere subito cosa volesse dirci.-
 
[1] Nebbia in coreano.
   
 
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