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Autore: Nina Ninetta    22/06/2018    8 recensioni
Viola è una ragazza disposta a tutto pur di conquistare il cuore della persona che ama, anche fare qualcosa di stupido come fraternizzare con il "nemico", ma talvolta ciò che noi detestiamo può rivelarsi un'autentica benedizione. La giovane si ritroverà a fare i conti con i problemi tipici degli adolescenti, un amore a due facce, un'amicizia persa e una madre emotivamente scompensata.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 12
Nodi al pettine

 

Sul tramontare della primavera iniziò la mia storia d’amore con Cris e la fine di un’amicizia che poi si rivelò eterna.
Con la chiusura dell’anno scolastico mi sentii rinascere e quegli ultimi mesi divennero solo un brutto incubo da cui mi stavo finalmente svegliando. Io e Christian riprendemmo a vederci ogni pomeriggio, come facevamo una volta,  con l’unica differenza che adesso sedevamo su panchine appartate per ritagliarci un piccolo spazio d’intimità; passeggiavamo mano nella mano fra la gente, soffermandoci davanti alle vetrine e mangiando ghiaccioli, felici come solo due innamorati possono esserlo.
Quando la sera del ballo tornai a casa scoprii che Jenny mi aveva lasciato un messaggio in segreteria, informandomi che la sua storia con Christian era finita, che l’aveva lasciata dicendole che credeva di amarla, ma che alla fine aveva scoperto di essere da sempre innamorato di un’altra. Invece di provare pena per la disperazione della mia amica, lanciai un urlo di gioia. Tuttavia, passai una nottata insonne e un unico tarlo a martellarmi in testa: avrei dovuto dirle la verità: ero io l’amata del suo ex ragazzo.
Le foto inchiodate alla parete della camera mi accusavano di egoismo e negligenza. Ne staccai una in particolare, quella che preferivo in assoluto, dove Jenny mi abbracciava talmente forte da trasformare il mio sorriso in una smorfia. Conservo questa istantanea ancora adesso, infilata in un vecchio libro di scuola secondaria perché fu scattata dalla mamma di lei proprio l’ultimo giorno di esami di terza media, dopo la prova orale. Non sapevamo ancora cosa ci avrebbe riservato il futuro, né se saremmo finite nella stessa classe alle superiori, ma in quel momento non ci importava di nulla: gli esami erano finiti e l’estate ci attendeva simile a uno scrigno segreto, pieno di sogni e desideri.
Dissi a Cris che sentivo di doverle una spiegazione, di doverle la verità prima che venisse a scoprirla da terzi; sebbene inizialmente lui rifiutasse la mia idea, alla fine capì che avevo fatto la mia scelta, con o senza il suo appoggio avrei affrontato la questione. Quello stesso pomeriggio presi il coraggio a due mani e bussai al portone di casa di Jenny: quell’enorme dimora che un tempo avevo attraversato mano nella mano con William.
Appena mi vide la mia amica scoppiò in lacrime, in mano stringeva già un fazzoletto usato più volte, aveva gli occhi gonfi di una persona che non ha fatto che piangere per ore e ore. Mi chiesi come avessi fatto a confessarle che l’avevo pugnalata alle spalle. Quando l’ipotesi di lasciare Christian per non ferire ulteriormente Jenny si affacciò nella mia mente, la cacciai indietro, inorridita. Fu a quel punto che glielo dissi, senza giri di parole, senza aspettare che fossimo sedute in casa sua, preferii giocare in campo neutro.
Jenny – la dolce e gentile Jenny – cominciò a gridarmi contro tante di quelle oscenità che fino ad allora dubitavo conoscesse. Mi paragonò alle peggiori donne dei sobborghi di città, mi augurò di fare una fine misera, quella che secondo lei meritavo. Non volle sentire ragioni, le mie parole se le prese il vento; senza neanche sapere bene come mi ritrovai a prendere a pugni il portone che Jenny mi aveva chiuso in faccia, a supplicarla di aprire e di lasciarmi spiegare. A pregarla di non fare così.
Jenny non mise più piede nella mia classe, né tantomeno nell’istituto scolastico del Liceo A. Manzoni. Tramite voci di corridoio venni a sapere che aveva chiesto al padre di permetterle di continuare gli studi in un collegio a centinaia di chilometri di distanza. Non ebbi più sue notizie per anni, aveva cambiato numero di cellulare e i suoi genitori non vollero mai darmi l’indirizzo dell’istituto in cui l’avevano iscritta, né il nuovo numero di telefono. Non per propria volontà, si giustificò la mamma mortificata, ma per essere fedele a una promessa che la figlia le aveva strappato il giorno in cui era partita.
«Ha lasciato tutti, Viola» aveva le lacrime agli occhi mentre lo diceva. «Anche sé stessa.»
Eppure la storia mia e di Jenny non era ancora giunta al capolinea…
 
Il senso di colpa per il male che avevo fatto alla mia migliore amica mi avrebbe rosicato viva se il mio fidanzato non mi avesse consolato per pomeriggi interi, fino a spingerlo in fondo alla mente. Trascorremmo quell’estate avvinghiati come due ventose, ansiosi di recuperare il tempo perduto. Ogni tanto cercavo di introdurre un argomento, ma tutte le scuse erano buone per accarezzarci, sfiorarci e riprendere a baciarci. Le nostre bocche sembravano calamite, le nostre mani bramose della pelle altrui, inoltre i suoi attacchi di passione mi costrinsero a portare foulard anche a 30°. Ben presto mamma s’insospettì e con tutta la calma del mondo le spiegai che era l’ultima moda dell’estate annodarsi un triangolo di stoffa alla gola; lei fece spallucce e per gran parte del tempo la vidi indossare foulard che talvolta rubava anche dal mio cassetto.
Quando lo raccontai a Christian rise per una buona mezz’ora.
Un giorno gli chiesi perché si fosse fidanzato con Jenny, cosa l’avesse spinto a dichiararsi proprio a lei, dal momento che in comune avevano davvero poco. Forse solo me. Mi sarei aspettata qualsiasi tipo di risposta, anche la più banale, invece il suo racconto mi sconvolse completamente e mi sembrò di essere tornata al punto di partenza. Di nuovo.
«Solo per entrare nella squadra regionale di calcio» quando lo guardai stralunata lui sorrise timido, vergognandosi di quello che stava per dire. «Tu lo sai che suo zio fa parte dello staff dei selezionatori? É l’uomo più vicino a colui che ha l’ultima voce in capitolo. È quello che può aprirti le porte della carriera calcistica.»
«E tu ti sei messo con lei solo per arrivare al tuo scopo?» Detto da me suonava davvero strano, ma non sapevo come altro chiederglielo.
«Si» affermò dopo un sospiro. «Sapevo di avere una probabilità su cento di essere scelto. Il posto che rimaneva era solo uno ed ero disperato, poiché dalla mia squadra era già stato scelto un altro ed è raro che ne prendano due da una stessa scuola, a meno che sia un vero fenomeno. O non abbia una raccomandazione grande quanto una casa.»
«Cioè… ti sei messo con lei solo per… non l’hai mai amata? Non l’hai mai voluta?» Il suo viso si addolcì, rivelarmi quella verità - che di certo non gli faceva onore - sembrava averlo liberato di un fardello. Mi carezzò una guancia.
«Mai. Provavo qualcosa per te, ma credevo fosse solo un forte sentimento di amicizia. Poi quando ho saputo che ti eri messa con quello lì… oddio Viola, non immagini cosa ho passato. Le notti insonni al solo pensiero che tu stavi con un altro, la bile che mi saliva quando vi vedevo insieme.»
«E l’hai picchiato perché eri geloso, Cris? È per questo che gli hai dato un pugno negli spogliatoi?» Non avevo dimenticato l’episodio del litigio, ciò che mi premeva ancora, dopo tutto quel tempo, era sapere se Willy mi avesse mentito al riguardo. Negli occhi del mio ragazzo lessi la risposta che tanto temevo.
«Si. L’ho menato perché ero cieco di rabbia e folle di gelosia. L’avevo visto avvicinarsi e toccarti» fui sul punto di dirgli che era tutto un gioco, che non stavamo insieme per davvero e che tra di noi non era successo niente di niente, ma rimasi in silenzio.
Davvero non era successo niente?
Ne ero proprio sicura?
«Si era già preso una cosa a cui tenevo tanto, non potevo permettergli di portarmi via anche te, Viola.» Mi baciò, ma un campanellino d’allarme nella mia testa aveva iniziato a strimpellare come un pazzo, il cuore accelerò senza un motivo apparente. Scansai il suo bacio con garbo:
«Cosa si è preso di tuo, Cris?»
«L’unico posto disponibile nella squadra regionale. Perché? Non te l’ha detto?»
No, non me lo aveva detto.
«Quando?» Inghiottii, avevo la bocca asciutta e la gola arsa. «Quando è stato contattato dai dirigenti della squadra regionale?»
«Boh! Gennaio o forse era febbraio. A inizio anno comunque.»
E tutto prese un’altra piega.
A fine marzo io e William avevamo fatto un patto: fingere di stare insieme per i nostri loschi scopi, io conquistare Christian, lui ottenere un posto da titolare nella squadra della scuola in modo da farsi notare da quelli che contano, come li apostrofò egli stesso.
In quell’istante tutto ciò in cui avevo creduto si frantumò, simile a un castello di sabbia. Tutto mutò, fu come se improvvisamente riacquistassi la vista, come se si alzasse il sipario per lasciarmi vedere cosa nascondesse dietro; le immagini furono più chiare, più nitide: ogni cosa, ogni passo che avevamo fatto insieme assunse nuova dimensione e un significato più profondo.
Il bacio sulle labbra che mi aveva dato davanti a Cris; le carezze sulla guancia; i sussurri davanti scuola; i calci dati al pallone in una sera di primavera, sdraiati sull’erbetta umida del campetto di calcio; la sfilata mano nella mano al compleanno di Jenny davanti agli occhi di tutti; il fatto che mi aveva portato a casa sua; il supporto morale in quella dannata sera all’ ospedale; gli abbracci («abbracciami forte» gli avevo detto «abbracciami di più»); l’invito alla festa della scuola e il mio primo lento con un ragazzo. Con lui.
Christian prese a carezzarmi i capelli, acconciandomi una ciocca dietro l’orecchio che mi fece rabbrividire, di rabbia e di eccitazione; d’istinto mi  accomodai cavalcioni su di lui, guardandolo direttamente negli occhi. Ci scrutammo, ci studiammo, poi riprendemmo a baciarci e a sfiorarci il collo, la schiena, il viso, con le mani che correvano affannate.
Percepivo una grande rabbia dentro, mi sentivo presa in giro da quell’idiota, ma volevo fregarmene. Stavo letteralmente addosso all’amore della mia vita, lo stavo baciando come avevo visto fare solo nei film e dovevo essere felice già solo per quello.
Doveva bastarmi quello!
Ed ero felice, davvero. La mia storia d’amore mi sembrava uscita da uno di quei film per adolescenti, dove la più bruttina della scuola alla fine diventa bella solo togliendosi gli occhiali, e il fighetto della situazione se ne innamorava perdutamente. Ed ero contenta sul serio, stare con lui mi trasmetteva tranquillità, ciò di cui avevo bisogno dopo mesi pieni e difficili.
 

*****


Quell’anno non andammo a fare visita alla nonna. Il medico aveva sconsigliato a mia madre lo stress del mare e del sole, quindi papà decise di restare a casa e di fare qualche gita fuori porta, ma non sempre andavo con loro. Fu una mattina di quelle, quando i miei erano via e mio fratello al campeggio, che decisi di mettermi in cammino, diretta alla casa di Willy. Non fu un’idea palesata, sebbene il desiderio di parlargli crescesse giorno dopo giorno, urgeva un chiarimento o sapevo che non avrei potuto godere appieno della mia giovane storia d’amore.
Cielo e se faceva caldo quella mattina di primo agosto!
Passai la piazza centrale, semideserta se non fosse stato per qualche ragazzino delle elementari che giocava a palla o correva in bici intorno alla fontana, le vetrine dei negozi erano aperte, ma nella loro frescura artificiale erano vuoti e sonnolenti.
Camminai costeggiando la statale per diversi metri, con la testa bassa, fingendo di non sentire i clacson delle macchine e gli apprezzamenti degli uomini che mi passavano accanto rallentando, e allora la rabbia che provavo da diversi giorni si trasformò in vera e propria furia. Per il caldo e per le goccioline di sudore che sentivo corrermi lungo la schiena; per il trambusto di quegli automobilisti scemi che giocavano a fare i play boy con una minorenne; per tutta la strada che avevo percorso, che stavo percorrendo e che dovevo ancora percorrere, pensando alle svariate volte che Will mi aveva accompagnato a casa quando era ancora in atto il nostro stupido, stupidissimo accordo, al fatto che aveva camminato lungo quello stesso tragitto per una che non era la sua vera ragazza e che gli inveiva contro una volta no e due sì.
Ero adirata perché non riuscivo a spiegarmi il motivo per cui non mi avesse detto che faceva già parte della squadra regionale. O forse sì, forse lo conoscevo il motivo, lo avevo intuito attraverso le parole di Cris e facendo una carrellata di ogni suo gesto nei miei confronti, dal suo vezzo di rivolgersi a me con il soprannome di Stellina, alle diverse occasioni in cui mi sfiorava le mani. Ero arrabbiata, ero furiosa, e dentro di me sapevo il perché di quella mia collera, ma lo tenni giù, lo ingoiai come si farebbe con un boccone amaro.
All’ennesimo colpo di clacson inveii contro l’auto da cui era provenuto, liberandomi della camicetta e restando in canotta azzurra e fiori bianchi.
 
Il panorama mutò da un momento all’altro. Un attimo prima stavo camminando sulla statale oltre il guardrail, l’attimo dopo mi ritrovai circondata da case con i tetti distrutti e qualche tegola messa a posticcio. Sui marciapiedi c’erano sacchi dell’immondizia e cani che vi rovistavano al loro interno, cosa che mi convinse a continuare la mia marcia sulla strada, sprezzante dei motorini che scorazzavano all’impazzata e delle macchine sgangherate che andavano lente come lumache.
Riconobbi il pub che in realtà un pub non era, come mi aveva spiegato Willy, bensì un night club, con i suoi fedelissimi davanti all’entrata, in mano una birra scadente già di prima mattina. Li guardai, provando a immaginare la loro vita prima di allora, a come ci erano finiti in quel letamaio, dove avevano sbagliato per ritrovarsi un giorno lì, senza una famiglia, né un lavoro. Uno di loro alzò i suoi occhi birbantelli su di me e io abbassai lo sguardo, ripetendomi che era meglio fissarmi i piedi, almeno fino a quando non avessi raggiunto la mia meta. Oltrepassai il muretto imbrattato di disegni e di scritte sull’amore eterno, dove di sera si radunavano gli adolescenti di quella zona. Mi tornò in mente la ragazza che si era accostata a William e che mi aveva guardata con ammirazione notando i capelli rosa. Era una tipa carina, magra come un grissino e gli occhi truccati di nero, mi ritrovai a chiedermi come mai non si fosse invaghito di lei, che sembrava essere la ragazza giusta per quelli come lui.
 Nonostante fossi stata a casa sua solo una volta e di sera, non ebbi difficoltà a riconoscere la costruzione, poiché era la più decente fra quelle che la circondavano, con un cancelletto all’entrata, una stradina fatta di erbetta cresciuta fra le mattonelle del sentiero e la pittura più o meno intatta che ancora non si era scrostata dalle pareti.
L’uscio di casa era aperto, cosa che mi mise in allarme; la penombra in cui era immerso l’interno dell’abitazione mi prosciugò un po’ i quella rabbia che mi era servita a giungere fin là. Più riluttante  che mai e, come dopo ogni cosa che facevo di slancio, di istinto, desiderai essere altrove, di non fare quello che stavo per fare.
Il fratellino di Willy spuntò sullo zerbino, le ginocchia sbucciate e il pollice in bocca. Alzò un indice per indicarmi e, senza togliersi il dito fra le labbra biascicò:
«Muamma scè la fidansciata di  Willy
La donna con i capelli corti e biondi, giovane nonostante la stanchezza che le correva per tutto il fisico, gli diede un buffetto sul dorso della mano:
«Ti ho detto mille volte di non succhiarti il pollice, Dani!» Poi mi guardò e per un attimo nessuna delle due parlò. Indossava una camicia senza maniche e un paio di pantaloni di cotone lunghi al polpaccio, i capelli erano tirati in un codino, tenuti fermi sul capo da una miriade di forcine. Balbettando provai a chiedere se suo figlio fosse in casa, ma in tutta risposta mi chiese:
«Hai mai visto nascere un bambino, cucciola?»
«Scusi, non ho capito bene» e fu in quel momento che dall’interno della casa udii uno strillo animale, più forte di qualsiasi cosa avessi mai udito, fatta eccezione per l’uomo senza braccio che avevo visto in pronto soccorso.
«Porca miseria!» La donna si fiondò dentro la casa e io la seguii a ruota, incurante del piccolo Dani che continuava a ripetere che era arrivata la fidanzata di Willy.
 
Trovai lo stesso Willy immobile sulla soglia della porta della stanza di Lu, da cui provenivano le strilla acute, seguite da varie imprecazioni della medesima. Quando i miei occhi si furono abituati alla penombra della casa potetti guardarlo bene in viso, cosa che lui stava già facendo. Non parlammo, non ci salutammo. Mi avvicinai e sbirciai all’interno della camera.
La ragazza diciannovenne era seduta sul letto, si puntellava con le mani sul materasso, il viso madido di sudore e di lacrime. La parte superiore del corpo era coperta da una canotta striminzita, quella inferiore da un lenzuolo bianco che le lasciava scoperte le cosce nude. Vicino a lei c’era sua madre e altre due donne più anziane che si affaccendavano con pezze imbevute di acqua e bacinelle colme di liquidi colorati.
Will aveva un’espressione greve, di preoccupazione e di paura. Sembrava terrorizzato, spaventato da ciò che non conosceva, sentendosi evidentemente inutile e inadatto. Sua madre si voltò a guardarlo, gridandogli di chiamare ancora una volta la croce rossa. Lui si mosse come un automa, scomparendo in cucina; io entrai nella stanza, dove l’odore di disinfettante era così forte che mi fece lacrimare gli occhi e pizzicò il naso. Solo allora, nell’angolo alle mie spalle, notai che su di una poltrona c’era accomodata una vecchia decrepita, che masticava Padre Nostro e Ave Maria così in fretta e a bassa voce che vedevo muoversi solo le labbra, mentre stringeva fra le mani rattrappite un Rosario. Solo più tardi mi accorsi che era cieca.
«Ludovica» la chiamò la mamma e lei le ringhiò contro di non chiamarla con il suo nome di battesimo. «Ok, Lu. Lu, ascolta, devi partorire qui e ora o il bambino rischia gravi danni.»
«No!» Gridò la ragazza fra le lacrime. «Non ce la faccio ma’, non ce la faccio!»
Fu allora che mi mossi, senza pensarci, feci il giro del letto e vi salii sopra a carponi, fino a raggiungerla:
«L’autoambulanza sta arrivando, Lu» dissi e lei mi guardò, tirando su con il naso. «Sarà qui fra pochissimo, noi però dobbiamo iniziare senza di loro, perché tu sei la sua mamma ed è una cosa naturale partorire. L’hanno fatto tutte, perché tu non dovresti riuscirci?»
Le mie parole si avverarono come una premonizione.
Lu iniziò a spingere, fra urla e lacrime, fra dolore e le incitazioni di noi donne che ci eravamo improvvisate infermiere, con la continua litania della vecchia sulla poltrona. Quelli dell’ospedale arrivarono quando avevamo quasi finito, trovando due donne pronte a prendere il neonato non appena avesse messo la testa fuori, una mamma in pena che pativa le stesse sofferenze della figlia e del nipote, e una ragazzetta di sedici anni e mezzo che si lasciava stritolare la mano mancina dalla neo mamma senza batter ciglia, mentre con quella libera le asciugava il sudore con una pezza umida, confortandola con parole di speranza.
Fu quando sentii i vagiti del piccolo e le lacrime di gioia di Lu che capii di voler fare il medico, anche solo per vedere quella felicità negli occhi della gente, per sentire il calore di una mano stringere la mia e con gli occhi pieni di gratitudine guardarmi e sussurrare un semplice ma immenso grazie.
La stessa Lu disse alla nuova nonna di prendere in braccio il piccolo Matteo (come lo chiamava dal primo giorno che seppe di essere incinta, in onore dell’Evangelista appunto) e di portarlo a conoscere ai suoi zii. Quando la donna tornò mi abbracciò forte, ringraziandomi e complimentandosi con me:
«Sei una donna coraggiosa» disse, quindi mi invitò a rilassarmi con un bicchiere di tè fresco.

Uscii dalla stanza contenta e soddisfatta, dimenticandomi il vero motivo per cui mi trovavo lì. William mi strinse non appena varcai la soglia della cucina, aveva la voce emozionata di chi ha appena assistito a un miracolo:
«Non so cosa farei senza di te!» Esclamò come un lampo a ciel sereno e il mio cuore si rabbuiò. Prima che potessi rispondergli aveva già afferrato il mio viso con entrambe le mani, alzandolo verso il suo, i suoi occhi scuri e vivaci brillavano di felicità. Feci per dirgli che dovevamo parlare, ma mi baciò in fretta; tre baci consecutivi e innocenti sulla bocca.
Il panico mi invase tutta, un solo nome lampeggiò a intermittenza nella mia mente, come un’insegna al neon: Christian. Le gambe divennero piombo; gli afferrai i polsi e lo cercai di tirare via le sue mani dalla mia faccia, che sentivo infuocata e non per colpa del caldo o per il parto di poco prima.
«Ma che cazzo fai?» Sbraitai, dimentica della gente che popolava la casa in quel momento. Lui in tutta risposta mi baciò, di nuovo, e questa volta per davvero.
Feci per spingerlo via, tenendogli i polsi a mezz’aria, ma era ovviamente più forte di me e quella stretta mi si rivoltò contro. Mi schiacciò a ridosso del mobile della cucina e sentii una lieve fitta al livello dei reni, mentre la brocca con il tè e il ghiaccio si rovesciava per lo scossone. Lasciai la presa sui polsi e lui ne approfittò per intrecciare le nostre dita, mentre la sua bocca si muoveva contro la mia, intanto che le lingue si affannavano in una continua lotta.
Ebbi così paura di quel bacio e di quello che stavo provando che lo schiaffeggiai. Solo allora lui si scostò, sembrava tornato in sé, il ragazzo con lo sguardo furbetto che mi prendeva in giro per i corridoi della scuola, e a un tratto pregai affinché davvero tutto tornasse come era prima.
«Sto con Cris adesso» confessai e sentii le sue mani scivolare via dalle mie, il peso del suo corpo, che mi aveva tenuta ferma contro il mobile della cucina, si alleggerì.
Ai nostri piedi si andava formando una pozzanghera beige che si mischiava ai vetri della brocca andata in frantumi, dalla stanza della partoriente una voce femminile mi chiamò. Gli lanciai un ultimo sguardo intanto che si chinava a raccogliere i cocci taglienti.
«Torno subito. Lo mettiamo a posto insieme questo casino che abbiamo combinato» gli parlai come si farebbe con un bambino, con calma e pazienza.
«Non c’è niente da mettere a posto» fu la sua risposta secca. Uscii a testa bassa, senza avere niente da controbattere. Quel macello lì a terra sembrava la metafora di qualsiasi cosa si fosse intessuta fra noi in quei mesi, almeno fino a quel momento.
Quando tornai in cucina lui non c’era più. Anche la macchia di tè era scomparsa, nonostante l’aria fosse impregnata del classico odore dolciastro della pesca. Sul tavolo notai la mia camicetta e la borsa che evidentemente avevo lasciato cadere in corridoio quando avevo visto Lu sul letto, mezza nuda e bagnata di sudore e lacrime. Raccolsi tutto, intenta a tornare a casa, non avevo più voglia di parlare con Willy di quello che avevo saputo da Cris, desideravo solo farmi una doccia e passare il pomeriggio sul mio letto, a fingere che tutto andasse bene. Quando mi voltai per poco non mi venne un colpo, il piccolo Dani era immobile sulla soglia della porta che mi scrutava con i suoi occhietti scuri e il pollice in bocca:
«Willy è alle gioshtre» mi chinai e gli tolsi la mano di bocca.
«Cosa hai detto?»
«Willy è alle giostre.»
«Quali giostre?»
«Più avanti c’è un parco con scivoli e altalene. Lui mi ci porta sempre.»
Alzai lo sguardo e vidi la signora di casa, con la spalla contro lo stipite della porta, si stava accendendo una sigaretta. Rilasciò il fumo e con una pacca sul culetto disse al suo ultimo figlio di andare a giocare e il bambino le obbedì. Mi rialzai e come era suo solito mi studiò in un lungo sguardo silenzioso. Accennai un inchino a mo’ di saluto e lei riattaccò:
«Il mio Willy è un bravo ragazzo e non merita di soffrire» ero con un piede dentro e uno fuori da casa sua, mi voltai indietro e le risposi:
«Neanche io merito di soffrire.»
«Ma lui di più.»
 
Una volta in strada mi incamminai con l’intento di tornare a casa, ma giunta all’altezza del muretto dei ragazzi di quella zona, fra le varie scritte, scorsi il nome Willy seguito da un tratto curvo che finiva con un cuore stilizzato. Riconobbi quella calligrafia e quello steso cuoricino, poiché l’aveva disegnato sul foglietto che mi aveva dato e sul quale c’era il suo numero di cellulare. Lo presi come un segno del destino, senza pensarci troppo tornai sui miei passi e raggiunsi il parco con le giostre che mi aveva indicato Dani pocanzi. Era una piccola villa comunale che probabilmente aveva conosciuto giorni migliori, giacché ai miei occhi apparve triste e sconsolata. Mi trasmetteva un vago senso di abbandono. Il prato cresceva incolto, ricoperto da erbe di ogni tipo, le foglie secche a causa della calura mulinavano per la leggera brezza calda che spirava da sud; sporcizia e bottiglie di diverse dimensione e materiale erano sparse un po’ ovunque. Camminai a grandi falcate, attenta a non calpestare niente di compromettente; poi lo vidi e mi fermai a studiarlo da lontano, come non avevo mai fatto. Teneva sul volto, alzato verso il cielo, l’espressione di uomo adulto tormentato da pensieri, mentre si dondolava piano su un’altalena sgangherata. Alle sue spalle un palazzo di diversi piani, malandato e decadente, proiettava la sua incombente ombra su di lui, facendo sembrare i suoi capelli ancora più scuri del normale.
Una vocina nella mia testa mi disse di andare via, che non gli dovevo nulla, che era stato lui a mentirmi e non viceversa, era lui quello in difetto e non io; eppure sentivo che quella era l’ultima occasione che avevo per parlargli, che non ce ne sarebbero state altre e, in un certo senso, avevo ragione.
Inspirai affondo e lo raggiunsi.






 
  
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