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Autore: Ruta    25/06/2018    0 recensioni
La scoperta non è immediata, piuttosto è la lenta consapevolizzazione di una realtà che lo diventa procedendo per gradi, assumendo forma concreta con dettagli macabri. L’accettazione arriva più tardi, a diciassette anni.
E sua sorella, ormai, le cose che fa e le mille cose che non è, sono diventate la sua oscura, segreta ossessione.
[Parentlock Sherlolly]
Genere: Angst, Generale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lestrade, Molly Hooper, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Causa sui'
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ii

Sembrano passate intere ore. 

Sa come funziona il tempo, che la sua percezione è relativa. Più vorrai che trascorra velocemente, più ti sembrerà che proceda a rilento, eppure mai prima d’ora le è sembrato in battuta d’arresto come in quel momento. 

Il sole morente del pomeriggio traccia linee oblique di grigio torpore tra le tende socchiuse, il momento in cui il giorno appare indeciso sul da farsi, se crogiolarsi ancora un po’ nei suoi ultimi momenti di gloriosa luminosità o cedere del tutto il passo alla sera che avanza a ritmo di danza. 

Rosamund osserva il pulviscolo ondeggiare nello spazio tra lei e Sherlock, si costringe a non incalzare una spiegazione, a pazientare ancora un po’. Cosa sono una manciata di minuti, in fondo, in confronto a un intero anno di sofferenze, diatribe e investigazioni? 

Quando Sherlock parla, finalmente, la sua voce risuona stanca e atona, come probabilmente sarebbero le ultime parole di un morto raccolte dal fondo della sua bara. “Ho una sorella.”

Qualcosa in Rosamund scatta. E’ senz’altro preoccupazione, ma anche rabbia, inutile negarlo. “Dimmi qualcosa di cui non sono già a conoscenza,” ritorce bruscamente, pentendosene quasi subito. Il poco colore rimasto sul viso contratto di Sherlock sembra scomparire del tutto, rendendolo cereo e persino più teso. Forse sono gli ultimi residui di speranza ad essersi dissolti, forse desiderava davvero che la sua apprensione si trasformasse nella paranoia di un uomo vicino al pensionamento e non nella voce di una ragione ancora del tutto funzionante. 

“Eurus è un genio, con una predisposizione all’apprendimento cognitivo e deduttivo come ne nascono ogni cento anni.”  Lui trae un respiro profondo, raddrizza le spalle e sembra ritornare in sé, di nuovo alto come un albero, come i giganti di pietra delle storie che le raccontava da bambina, intoccabile e inaccessibile.  “Loro sono simili.”

Rosamund vorrebbe provare qualcosa di diverso dall’impotenza, ma una parte di lei è come annientata, mentre la restante è anestetizzata, entrambe lo sono state dalla prima volta che Hamish ha manifestato i propri timori, esprimendo con lei l’orrore del peggiore incubo a cui si possa pensare e avvalorandolo con prove tangibili e via via più concrete. “Lo sappiamo. Perché credi che sia andato a Sherrinford? Voleva incontrarla per capire come salvarla.”

Da principio Sherlock appare confuso prima che le sue parole si facciano largo nella sua coscienza tramortita e la confusione ceda il passo ad un sentimento che è panico e inquietudine. “Salvare chi?” domanda e l’anestesia scompare e il cuore di Rosamund comincia a pulsare come una ferita infetta, le sue ginocchia sembrano venire meno e non riuscire a sostenere più il peso del suo corpo.   

La verità è sempre stata sotto i loro occhi, nero su bianco, proiettata nei silenzi, nelle opposizioni inspiegabili. In un recesso della sua mente, una vocina sussurra senza malizia che lei lo sapeva, l’ha sempre saputo

“Non è mai stata Agnes,” lei sussurra e guardando negli occhi scavati di Sherlock trova il riflesso dell’abisso che le sta squarciando il petto, impedendole di respirare normalmente. Serve che sia qualcuno a dirlo ad alta voce e sa che non può essere Sherlock a farlo. Lui sa cosa questo significhi per lei, è come condannarsi all’harakiri e Sherlock la ama al punto che non riuscirebbe mai a infliggerle un danno simile. “E’ sempre stato Hamish.”

*


Occhi di un azzurro spettacolare. Rosamund ricorda che sia stato quello il suo primo pensiero, anche se sicuramente meno articolato e complesso, all’epoca, guardando Hamish Holmes. 

Con le mani strette attorno alle sbarre di legno chiaro della culla, in punta di piedi per rubare un’occhiata più approfondita della veloce sbirciata data nella nursery dell’ospedale quando, in braccio a suo padre, John le aveva indicato con un sorriso il fagotto in prima fila. In mezzo a una marea di marmocchi urlanti e paonazzi, Hamish era stato l’unico a non recriminare a pieni polmoni contro l’insensatezza di quel mondo nuovo, troppo chiassoso e freddo e colorato. Quieto e immobile, non si dimenava né scalciava, ma fissava ad occhi sgranati il soffitto con le sopracciglia lievemente aggrottate, come se stesse cercando di trovare una ragione logica al drastico cambiamento avvenuto nell’ambiente circostante. 

Il sorriso di John si era fatto più pronunciato e parte della malinconia che mai abbandonava il suo viso segnato dalle intemperie era diluita in una gioia autentica e quasi esultante. “Tale padre,” aveva mormorato, voltandosi inspiegabilmente alla sua destra come per condividere con qualcun altro il suo divertimento. Nonostante l’ombra di rammarico nel trovare il posto accanto a sé vuoto, la sua risata era risuonata ugualmente fragorosa nel corridoio altrimenti silenzioso.

Anni più tardi, l’abitudine di quel vezzo continuo sarebbe diventata per lei semplice routine – quell’imperterrito cercare sua madre al suo fianco, sempre e ovunque – e la straziante consapevolezza del suo significato sarebbe stata levigata in qualcosa di appena tollerabile dalla ferrea volontà di non lasciarsene abbattere. 

Ma sarebbe stato solo molto più tardi, al crepuscolo della sua adolescenza, che Rosamund avrebbe afferrato completamente il doloroso smarrimento che John doveva provare ogni singola volta, come se in ciascuna occasione l’assenza di Mary fosse nuovamente una rivelazione, qualcosa che niente l’avrebbe mai convinto ad accettare. 

L’avrebbe capito, scoprendosi a fare altrettanto con Hamish. Condividere uno sguardo complice, compendiandoci dentro un’infinità di parole; lanciargli un’occhiata e osservare al volo la comprensione farsi largo negli occhi chiarissimi di lui come piccole rifrazioni di luci e ombre; condividere la giocosità di una considerazione irriverente, arcuando semplicemente un sopracciglio; prendere parte a una conversazione e sapere in anticipo l’espressione che avrebbe colto sul viso angolare di Hamish: il modo in cui lui avrebbe aggrottato le sopracciglia se in preda alla rabbia o all’incredulità o quella buffa smorfia di disapprovazione che avrebbe fatto con la bocca quando la stupidità di qualcosa che gli era stato detto trascendeva ogni umana tolleranza o ancora come si mordeva la lingua per evitare di affermare le proprie idee con una convinzione così assoluta da non lasciare adito a repliche di sorta o come si passava una mano in mezzo ai capelli per la frustrazione o come arricciava il naso per lo scetticismo o nascondeva il suo imbarazzo dietro la cortina della frangia troppo lunga. 

Di Hamish conosceva ogni segreto, ogni peccato, tutto ciò che lo rendeva Hamish.  

Conosceva le sue paure più intime, aveva combattuto i suoi terrori notturni come se fossero i propri, le battaglie di lui erano diventate anche le sue. Hamish poteva dire lo stesso di lei. La conosceva meglio di chiunque altro al mondo. Sapeva cose di cui neppure John o Sherlock o Molly erano a conoscenza. 

Erano confidenti, amici, compagni, i reciproci custodi di quella parte nascosta al resto del mondo che raramente vedeva la luce del sole, ma che entrambi avevano visto e che non aveva in nessun modo modificato la percezione che l’uno aveva dell’altra e viceversa.

Hamish aveva imparato a riconoscere i sintomi del bisogno che a volte si impossessava di lei, capiva la sua esigenza di scappare da tutto e tutti, isolarsi e allontanarsi da casa sua, quella casa che era anche un tempio alla memoria e in cui il ricordo onnipresente di sua madre aleggiava in ogni stanza come un’eco di profumo, dietro ogni foto e cornice, opprimendola in una morsa da boa constrictor da cui doveva sottrarsi ad ogni costo. 

Rosie amava suo padre, lo idolatrava quasi quanto Hamish venerava Sherlock, ma a volte la rabbia irragionevole di dover condividere il suo amore con lo spettro di una donna defunta le montava dentro a tal punto da farglielo quasi detestare. Suo padre, il dottore. Suo padre, il soldato. Suo padre, il blogger. Suo padre che niente riusciva a far impallidire o tremare o smuovere. Suo padre la cui unica fragilità era la morte di una moglie così amata che ancora oggi, a distanza di vent’anni, il solo sentire pronunciare il suo nome aveva il potere di trasformarlo in una statua di sale. 

Era terrificante, terrificante e al contempo straordinario, l’idea di un amore del genere, di arrivare ad avere un tale potere su un’altra persona. Assistere agli effetti sconvolgenti di un amore di quella portata. Amare così profondamente e completamente qualcuno, al punto che perdendolo si provava la sensazione di essersi privati di una parte di sé, come l’amputazione di un arto. 

In quei casi Hamish adottava una tattica ormai consolidata per risollevarle lo spirito. 

La sua ironia non era caustica come quella di Sherlock, la cui capacità provocatoria era ormai un’arte affinata che si poteva provare a imitare con scarsi risultati né tendente al macabro come quella di Molly, la cui insolita vena umoristica – in aperto contrasto con il suo carattere espansivo e solare e apparentemente accondiscendente – tendeva a passare pressoché inosservata agli estranei. 

No, l’umorismo di Hamish era sferzante senza risultare sarcastico, una critica al malumore il cui messaggio era chiarissimo. Perché sprecare tempo ed energie ad essere tristi quando si poteva trascorrerlo più efficacemente? E ciò nonostante Hamish la rispettava anche in quello e la lasciava uggiolare come un cane abbandonato sotto la pioggia fino a quando era lei a decidere diversamente. 

Non avrebbe mai dimenticato la volta in cui aveva suonato uno degli organi a canne all’abbazia di Westminster. Era l’estate dei suoi diciotto anni e un periodo non propriamente facile. Suo padre insisteva affinché quell’autunno lei iniziasse l’anno accademico, contrariamente al suo desiderio di trascorrere un anno sabbatico in un monastero tibetano. Quindici anni e un improbabile gilet in cashmere nonostante le temperature moderate, un ragazzo magro e dinoccolato con il primo accenno di peluria sul mento e la solennità che derivava da un carattere schivo, non necessariamente introverso o cupo. Eppure, seduta di fronte al cenotafio delle sorelle Bronte, mentre le prime note di Don’t worry be happy avevano profanato il silenzio assorto della navata, Rosie non aveva nutrito il minimo dubbio sull’identità dell’esecutore. Era perché lo aveva sentito fischiettare lo stesso motivo a Aggie un paio di settimane prima per farla sorridere dopo che aveva discusso con una delle sue compagne di classe?

Era stato allora? Allora che aveva capito? Sicuramente aveva incominciato a intravedere i confini del loro rapporto, o meglio a comprendere che non esistevano, non erano mai esistiti in effetti e che nessuno avrebbe mai potuto scalzare il posto che lui occupava nella sua vita. Hamish era insostituibile.  

O forse era stato due anni più tardi. Quando nella galleria dei bisbigli lui era rimasto volutamente indietro per fare in modo che fossero gli unici presenti e le aveva confessato i suoi sentimenti. Pronunciando le parole vicino al muro, lei aveva potuto sentirle rimbombare da qualsiasi punto della galleria, come se a ripeterle fossero un’infinità di versioni di Hamish, giovani e vecchie, da punti diversi sparsi nelle loro vite, passato e presente e futuro a mescolarsi in un amalgama inscindibile. Dopo, entrambi si erano comportati come se non fosse successo nulla, ma Rosamund non aveva dimenticato l’emozione violenta che aveva provato, di completezza e pace, per aver definito qualcosa sulla cui importanza non aveva mai esitato, ma che sarebbe stato comunque necessario formalizzare prima o poi. Uscendo, lo aveva preso per mano, un gesto familiare compiuto milioni di altre volte prima di quel momento e che non avrebbe dovuto affatto sconvolgerla, eppure c’era stato qualcosa di diverso e sconcertante. Per la prima volta aveva notato quanto fosse cresciuto, quanto poco del ragazzo fosse rimasto nell’uomo che era diventato, che torreggiava sopra di lei, severo e ostentatamente blasé e con quel sorriso segreto nello sguardo e nella curva appena accennata della bocca decisa.

Hamish

Un pomeriggio speso a studiare nella camera di Hamish nel pianterreno. In un raro momento di ozio, lei si era stesa sulla vecchia moquette verde palude. Il suo sguardo fisso sul poster di Karl Marx sul soffitto senza realmente osservarlo. I suoi piedi si muovevano avanti e indietro a tempo di musica. Qualcosa di rumoroso e pop, dal ritornello orecchiabile, che Hamish avrebbe detestato cordialmente, motivo per il quale lo stava ascoltando mentre lui era salito a procacciare tè e snack. A ristagnare nel punto più alto della libreria, occultato tra i trattati e i testi di filosofia di Hamish, lei aveva notato un libro minuscolo. Si era quasi dovuta arrampicare su uno degli scaffali più bassi per trarre in salvo quello che alla fine si era rivelato essere un volume di poesie.  Deteriorato come lo sono le vecchie edizioni rilegate, sgualcito dall’usura, tra le sue mani aveva cominciato a spaginare fino ad aprirsi a poco più di metà su una poesia di Tennyson. A margine, scarabocchiato nella scrittura spigolosa di Hamish, lei aveva trovato il suo nome. 
Stammi vicina
, lei aveva cominciato a leggere, sentendo il mondo intero implodere nella sua testa. 

Hamish. 

Rosamund chiude gli occhi con forza. Si sente vacillare. Dentro di sé sente un vortice di contraddizioni e le sembra impossibile che l’appartamento attorno a lei rimanga così statico, inalterato. 

Hamish

Quello che Sherlock le ha appena raccontato non dovrebbe avere il minimo senso, eppure ne ha. Rosamund non vorrebbe, ma poco alla volta, con una lentezza esasperante, i pezzi di un puzzle a cui non sapeva di star lavorando si ricompongono formando il quadro completo. 

Anni e anni di episodi isolati, di stranezze vengono inquadrati alla luce delle nuove rilevazioni che le sono state appena fatte. Piccole cose. Dettagli quasi insignificanti, ma che adesso assumono un loro perché, diventano orribilmente ragionevoli. Il divieto di andare in obitorio a trovare Molly. Il fatto che Sherlock avesse smesso di suonare da un giorno all’altro il violino. La regola che Lestrade non potesse cominciare a parlare dei casi in presenza dei bambini. La morte improvvisa di Toby e la richiesta inconsueta da parte di Molly di non prendere altri animali per rimpiazzarlo. Ricorda un pomeriggio. Aveva sedici anni probabilmente ed era di ritorno da una scena del crimine con Sherlock. Era stata la prima volta, lui non le aveva mai permesso di accompagnarlo prima per cause che le erano ignote. Ricorda come se fosse successo solo il giorno precedente la sensazione di euforia e orgoglio. Dopo aver risolto il caso, lui l’aveva portata a comprare una porzione di patatine in un fish and chips sulla Marylebone Road.

Dio, pensa e si costringe a ricordare, anche se non vorrebbe, anche se si sente come se le stessero trafiggendo il cuore. 

Quando rincasando lei era corsa da Hamish, in salotto e impegnato a leggere un libro più grande di lui, e aveva cominciato a raccontargli i particolari più interessanti, l’espressione tradita e amareggiata di lui, troppo intensa per un ragazzino di appena tredici anni e il modo in cui l’aveva guardata, tormentato, quasi a chiederle: Perché tu? Cosa c’è che non va in me? E Rosamund non aveva potuto trovare una spiegazione ed era ammutolita. Sherlock non le aveva più permesso di unirsi a lui e al pari di Hamish, lei era stata lasciata da parte. Finché era la presenza di entrambi a non essere ammessa, lui doveva aver pensato, quell’esclusione sarebbe stata meno evidente. Non era stato così, non per Hamish, almeno, che aveva attraversato tutta l’infanzia e l’adolescenza nell’attesa spasmodica che giungesse il suo momento, sognando il giorno in cui suo padre lo avrebbe portato a vivere le sue avventure. Il momento non era mai arrivato e Hamish aveva imparato a nascondere la rabbia e la delusione crescenti dietro un muro di indifferenza che si era trasformato in distacco. Leggendo l’opposizione di Sherlock a portarlo con sé come un rifiuto, Hamish aveva rinunciato e smesso di insistere, ma quell’anelito di avventura, l’adrenalina della caccia e del pericolo, seppur confinati, lo avevano reso indisponente nei confronti di quello che gli era stato negato e se un tempo era stato il più incalzante nel reclamare i resoconti dei casi risolti da suo padre, da un giorno all’altro aveva smesso di domandare, diventando persino più riservato.

 Perché non me ne sono accorta prima? 

Sherlock sta continuando a parlare e lei si sforza di prestare attenzione. Deve capire – come si è arrivati a quel punto e soprattutto perché - per escogitare un piano che salvi Hamish. Ma come può salvarlo da se stesso? Come si può uccidere il mostro se mostro e vittima coincidono? E l’ho mandato da un altro mostro e se ora lo perderò la colpa sarà unicamente mia. 

“Quando è cominciato?” La sua voce è irriconoscibile, flebile e arrochita dalle lacrime che non ha intenzione di piangere. Non sa cosa trovi più sfiancante, se la lotta in atto contro il proprio corpo per riprenderne il controllo o la compassione e la pena con cui Sherlock la sta guardando. La fa sentire piccola e fragile ed è qualcosa che non sopporta. “Quando ha smesso di essere –”

Normale, vorrebbe chiedere, ma non riesce a pronunciarlo, la parola le è rimasta incastrata tra i denti. Sherlock ovviamente intuisce lo stesso la natura della sua domanda, ricominciando a snocciolare fatti in fretta, in tono febbrile e senza interrompersi. Rosamund, che lo conosce come se fosse un secondo padre, sa che ha la propensione a farlo quando è in preda all’agitazione.   

“Non ha avuto problemi fino ai nove anni, poi qualcosa è andato terribilmente storto. Non abbiamo mai capito chi fosse il rapitore, ho le mie teorie, ma nulla di comprovato e dopo che lo abbiamo trovato non ha più avuto importanza. Quello che conta è che da allora non è più stato lo stesso. Ha cominciato a comportarsi e a parlare in un modo inconcepibile per un bambino della sua età. Si sono verificati episodi, casi isolati. Non sembrava in sé quando accadeva e una volta posto di fronte alla realtà dei fatti, reagiva con orrore come se ne fosse sconvolto. Gli psicoterapeuti e i trattamenti erano inefficaci. Aveva smesso di mangiare e dormire. Molly era disperata.” 

E’ difficile non concentrarsi sull’ultima frase, soprattutto non leggere tra le righe il non detto ‘come lo ero anch’io’. Rosamund non ricorda un granché di quel periodo sennonché… Non è stato l’anno in cui suo padre l’aveva convinta a frequentare il Malborough College? Era riuscita a farsi accettare, nonostante uno dei requisiti indispensabili per l’ammissione fosse che gli alunni dovessero avere tredici anni compiuti. Ricorda di essersi trasferita nel Wiltshire controvoglia, di aver trascorso il viaggio di andata piangendo per la rabbia e la solitudine, per la repentinità del cambiamento, per il fatto che nessuno avesse trovato il tempo di accompagnarla, per non essere neppure riuscita a salutare Hamish e Aggie e perché l’avevano messa sul primo treno in partenza dalla stazione di Paddington come un pacco sgradito. C’era stato un caso urgente, le sembra di ricordare adesso. Non è quello che le avevano detto? E Molly era sembrata così pallida e fuori di sé quando l’aveva abbracciata – un abbraccio vigoroso che per un attimo l’aveva lasciata senza fiato -, prima di affidarla ad Anthea, che Rosamund aveva ingoiato il rospo. 

Molly era disperata. 

Rosamund deglutisce. “Cosa hai fatto? Sherlock, cosa gli avete fatto?”

Sherlock non distoglie gli occhi dai suoi, la sua bocca ha una piega feroce e dura. Lei riconosce quella smorfia, è la stessa che ha visto su un volto identico seppur più giovane. Come se stesse mandando giù un boccone impossibilmente amaro. “Ho fatto una scelta impossibile. Dissonanza cognitiva. E’ quello che ho cercato di ottenere, ma alla fine è diventato un disturbo dissociativo dell’identità.”

*    


Dall’elicottero Hamish osserva spassionatamente la distesa grigio piombo del mare che stanno sorvolando. La pioggia ha fatto alzare la foschia e rende la visibilità scarsa, ma il pilota non sembra preoccupato, al contrario è in vena di chiacchiere. A quanto pare è un fan di suo padre. Quando lo hanno avvisato che avrebbe scortato il signor Holmes, non aveva sicuramente immaginato che si sarebbe trattato del signor Holmes Jr.. Hamish lo ha visto dissimulare a malapena la sorpresa quando è sceso dalla macchina con Anthea, ma si è ripreso subito e quando gli ha stretto la mano, chiedendogli se era la sua prima volta in elicottero, alla sua riposta affermativa gli ha sorriso in modo cordiale e gli ha assicurato di non preoccuparsi e che non ci sarebbero stati incidenti di percorso.

“C’è un po’ di turbolenza, più del previsto, intendo. Se dovesse coglierti la nausea, tieni questo.”

Quando gli passa un sacchetto di carta, Hamish si limita a prenderlo senza una parola e continua a fissare ostentatamente il panorama.

Cercando di concentrarsi sulla bufera che impervia all’esterno, spera di soprassedere su quella che gli scalpita nella testa. Chiude gli occhi e poggia la fronte contro il vetro. Istantaneamente le immagini si sovrappongono come una mandria impazzita sulle sue palpebre dolorosamente serrate. Sangue. Le lacrime di paura di Aggie. Il turbamento e lo shock sul volto di Rosamund.

Pensa ad altro, si ordina con fermezza.

Rosamund. L’abbraccio che gli ha dato prima che uscisse da Baker Street. Si sforza di soffermarsi sul calore del suo corpo, sulla fragranza floreale impressa nella sua pelle, sull’acciaio delle sue braccia avvinte strettamente attorno al suo diaframma. Sembrava che volesse strappargli una promessa di qualche tipo. Se si trattasse di chiunque altro, Hamish sarebbe a corto di spiegazioni, ma il punto è proprio quello, che non si tratta di chiunque altro. E’ Rosamund e lui ha ascoltato ogni pensiero che le ha attraversato la mente come se fosse stato uno dei suoi.

Torna.

Sii cauto.


Ti amo. 

Quando lei aveva sciolto l’abbraccio e fatto un passo indietro per porre un minimo di distanza, l’aveva vista raddrizzare le spalle in un gesto deciso, ma non era bastato a convincerlo. I suoi occhi raccontavano una storia diversa, vulnerabili e contriti esattamente come lo erano stati la prima volta che lui le aveva confermato le sue paure. Non aveva potuto fare a meno di baciarla. L’aveva sentita irrigidirsi sotto le sue mani, ma aveva messo a tacere sul nascere il mugolio di protesta, causato principalmente per la sorpresa di quel gesto così repentino e raro da parte sua. Di solito non si lasciava andare facilmente a manifestazioni così esuberanti, ma non era naturale per lui trovare conforto nell’unico posto in cui era sicuro di riceverlo? 

Nelle ultime ventiquattrore aveva scoperto di avere una zia disfunzionale e psicopatica, la cui esistenza era stata abilmente obliata per preservare – 

“Cosa?” aveva chiesto, rivolgendo un’occhiata incandescente a Mycroft. 
Suo zio non aveva battuto ciglio, limitandosi a mimetizzarsi dietro uno dei suoi perfetti sorrisi da repertorio. “Ogni famiglia ha uno scheletro nell’armadio.” 
“Peccato che i nostri siano vivi,” lui aveva persistito piccato. Come avevano potuto? 
Il sorriso plastificato si era liquefatto come neve al sole. “Cosa avresti preferito?” aveva ritorto e poi, quasi crudele nella sua schiettezza, gli aveva esposto in modo inequivocabile le altre soluzioni ‘meno eleganti’. Ancora adesso sentiva il sangue congelarsi nelle vene. 
“Non dimenticare,” Mycroft aveva concluso, spietato e inesorabile, “che la famiglia è famiglia.”

“L’atterraggio è previsto tra dieci minuti.”

Hamish non riapre le palpebre. Se lo facesse cosa vedrebbe se non gli occhi di Rosamund e di suo padre, a fissarlo dalle onde vorticose dabbasso o dalle nuvole temporalesche che abbattono contro l’elicottero frustate d’acqua e cercano di sopraffarli? 

All’ennesimo violento scossone, lo stomaco di Hamish si attorciglia e la bile gli invade la gola e le narici. Quando atterrano, è questione di secondi prima che lo stomaco si rivolti contro di lui e gli faccia rigettare anche l’anima nell’insulso sacchetto di carta che il pilota – Jeff, rimprovera a se stesso. Il nome del pilota è Jeff – gli ha dato.

“Qualunque cosa tu debba fare là dentro, ragazzo, non sei costretto. Chiunque ti abbia fatto credere il contrario –”

“Aveva ragione,” lo interrompe Hamish, non con scortesia, ma abbastanza energicamente da evitare repliche. “Non sono costretto,” aggiunge con maggiore gentilezza, “ma devo ugualmente.” Con un’alzata di spalle e un sorriso di circostanza, aggiunge: “La famiglia è famiglia.”


*

Nel momento in cui mette piede nella struttura, è accolto da un uomo alto e robusto, sulla sessantina, che indossa un completo che odora di naftalina. “Paul Wang,” si presenta. Non gli porge la mano e non sorride. Per qualche motivo gli ricorda il suo insegnante di ginnastica alle scuole elementari. “Supervisiono la struttura. Saranno vent’anni quest’autunno. Fare la sua conoscenza è un piacere, Signor Holmes.”

“Il piacere è mio,” risponde Hamish educatamente, forse troppo educatamente a giudicare dall’incredulità con cui il sig. Wang reagisce. Hamish ci ha fatto il callo. Essere il figlio di Sherlock Holmes lo ha abituato a reazioni peggiori. Ma dopotutto non è solo il figlio di suo padre, è anche il figlio di sua madre. Il rispettabile, conciliante, stimato Dottor Molly Hooper.

“Se vuole seguirmi,” lo invita il sig. Wang con insospettata solerzia. E’ come se volesse sgravarsi della sua presenza il prima possibile. Hamish non può fargliene un torto. Dietro tutta quella naftalina, l’odore del pranzo che ha interrotto sembra davvero invitante.

Il sig. Wang gli fa strada e mentre comincia a descrivere particolareggiatamente la storia del forte napoleonico in cui si trovano, del suo utilizzo come posizione militare durante la prima e la seconda guerra mondiale, Hamish prende nota del personale e del numero di telecamere interne, dei sistemi di sicurezza allestiti. Quando il sig. Wang lo rassicura sull’affidabilità dell’impianto di detenzione della prigione, Hamish vorrebbe evidenziare già tre falle che ha notato.

“Siamo arrivati. Ultimo livello, il più isolato nonché il più sorvegliato dell’intera struttura. Ora, mi permetta qualche raccomandazione.” Il sig. Wang elenca tutta una serie di moniti, alcuni dei quali Hamish trova francamente ridicoli e tra i quali spiccano la necessità di mantenere una distanza di almeno due metri dal vetro protettivo e il divieto all’utilizzo di una serie esorbitante di parole. E poi arriva il più assurdo di tutti. “E un ultimo avvertimento. Non la guardi troppo a lungo negli occhi. Molti grandi uomini si sono smarriti dietro quelle porte e alcuni, mi dispiace dirlo, non hanno più fatto ritorno. E’ ancora di sicuro di voler procedere?”

Hamish non ha la minima esitazione. Con un cenno sicuro, conferma: “Sono sicuro.”

“Buon pro le faccia,” è la sfacciata replica e il sig. Wang scuote la testa come per dire che per quel che valga, lui ha fatto la sua parte e ha provato a dissuaderlo. Ma la scelta è sua e quando striscia la tessera magnetica nel lettore e mette piede nella cella di contenimento, Hamish sa che era l’unica possibile. 

*


La donna all’interno della cella non è per niente come se l’era aspettata. Ma cosa ti eri aspettato, sciocco? Bellatrix Lestrange e la sua risata da invasata? O la violenza cattiva di Bertha Mason? Indesiderata, gli sovviene alla memoria una citazione di Pope. I pazzi osano dove gli angeli temono d’andare.

La rassomiglianza con suo padre, inutile a dirsi, è impressionante. La forma degli occhi, così peculiari e ovviamente i tratti somatici del viso e il colore dell’iride che, lui scommette, come nel caso di suo padre, a seconda della luce cambierebbe da verde chiaro ad azzurro intenso per quella tipologia di eterocromia che li contraddistingue.

Eurus Holmes, il genio pazzo la cui intelligenza rivaleggia con quella di Isaac Newton. Nonostante tutto il resto, per la prima volta da quando ha scoperto la verità, lui si sofferma a riflettere sullo spreco di quella vita distrutta precocemente.      

Eurus lo sta esaminando con la circospezione del predatore in attesa del momento più propizio per attaccare. “Buongiorno, Alexieres.” La sua voce è pastosa e vagamente ipnotica. Il serpente di Eva doveva avere una voce simile.   

Hamish fa un passo in avanti, incurante dei suggerimenti del sig. Wang. “Quello non è il mio nome.”

Il sorriso di lei si schiude come il miracolo di un bocciolo in pieno inverno. “Certo che lo è. Ricordo perfettamente quando l’ho suggerito ai tuoi genitori. È stato un Natale carino, quello. Ma un nome è solo un nome, non è così? Definire è limitare. Sherlock mi ha detto che sei un filosofo. Cosa pensi degli assoluti?” Il suo sorriso si incrina agli angoli, i suoi occhi sembrano arricciarsi e le rughe che si formano sono indicatrici dell’età che il suo volto altrimenti levigato non lascerebbe intuire. “Sembri confuso.”

Non lo è. “Non lo sono.”

Lei sembra compiaciuta dalla risposta. “Ma stai provando un’emozione. Sono diventata piuttosto brava a registrare i cambiamenti umorali, ma Sherlock rimane l’unica persona in cui riesco a riconoscerli. Perciò, cos’è? Che emozione stai provando?”

La curiosità cede il passo a qualcos’altro, qualcosa che lui è lesto a identificare e tenere a bada. “Rabbia,” la classifica malvolentieri. Le sta permettendo di infilarsi nei suoi pensieri, di entrargli sottopelle. “Sto provando rabbia.”

“Dimmi perché.”

La rabbia si smorza in una fitta di noia. “Tu sei il genio nella stanza. Dimmelo tu.”

“Non credo di poterlo fare. Non sei adeguatamente preparato per questo genere di gioco. Ti romperei e poi Sherlock non suonerebbe più per me. Mi sono affezionata alla sua musica.”

Lei continua a testarlo. E’ come il gioco del gatto col topo. Saggiare i limiti, sperimentando strategie differenti. Hamish si richiama alla calma, pensando all’unica altra persona, oltre a Rosamund, capace di stabilizzarlo. Il pensiero di sua madre, però, dato il contesto attuale, è un errore tattico. Dopotutto -  “È colpa tua se non le dice mai che la ama.”

Lei poggia i palmi aperti contro la superficie di vetro, ai lati del suo viso e continua a fissarlo senza battere ciglio, senza mutare espressione. E’ sconcertante quasi quanto è inquietante. “Tu sei quello emotivo, proprio come Sherlock. Ma lei, lei è diversa, proprio come me. Cosa farai, Alexieres? Quando lei ti si rivolterà contro? Impugnerai le armi e combatterai contro di lei o ti lascerai annientare per amore e spirito di sacrificio?”

Un improvviso groppo in gola, il groviglio di allarme e tensione che ha tenuto a bada nelle ultime settimane sembra crollargli addosso. Il peso del mondo che gli è caro, poggiato sulle sue spalle e la fonte del problema che potrebbe diventare anche la sua soluzione. Il pensiero di Aggie, agguerrita e dolce e perspicace e troppo sveglia per il resto del mondo. Aggie e i suoi momenti di buio, ma ora che l’ha vista, che ha visto il mostro alla bocca dell’inferno, ne è sicuro. “Lei non è come te,” dice e nel momento in cui le parole lasciano la sua bocca sa che è vero e il fardello diventa sopportabile. 

“Ma lo diventerà. O potrebbe. Non è questo il motivo per cui sei qui?” Senza offrirgli la possibilità di rispondere, lei prosegue, gli occhi magnetici che lo trapassano da parte a parte, che lo sfidano a non distogliere lo sguardo. “Cosa vuoi diventare da grande, Alexieres? Un uomo di azione o di ragione, di poesia o di scienza?”

“Sono il figlio di Sherlock Holmes e di Molly Hooper. Posso essere entrambi.”

“Cosa mi dici di tua sorella? Cosa diventerà lei? Axia. Significa…”

“Degno di valore in greco antico. Lo so.”

Un lampo le attraversa lo sguardo e qualcosa dentro di lui sembra tremare in risposta, non riesce a capire se sia per piacere o per il suo esatto opposto. Con Eurus, lui ha già capito, la distinzione diventa problematica. “Il bravo ragazzo ha studiato la sua lezione prima di venire qui. Dimmi, cos’altro sai?”

“So perché ti hanno rinchiusa qui dentro. Perché sei il male e ferisci le persone.”

Lei aggrotta la fronte e comincia a scuotere lentamente la testa. Nel dondolio, i lunghi capelli scuri le cadono davanti al viso in ciocche scomposte e disordinate. Il bisogno di rimetterli al loro posto è prepotente e quasi fisico.  “No, no. Stavi andando così bene. Non essere come loro, noioso e banale. Cos’è il male?” lei chiede e la sua voce ha acquisito una nota cantilenante. 

“L’attributo che viene dato a un comportamento ritenuto moralmente scorretto,” lui risponde d’impulso.

Lei lo ricompensa con un sorriso penetrante. “Attributo, non un assoluto.”

“E’ anche quello,” lui concede.

“Cosa si intende per moralmente scorretto?”

Anche questa volta, a lui non occorre riflettere prima di trovare una risposta soddisfacente. “Uccidere. Mentire. Rubare,” elenca con prontezza. “Tutto ciò che implica una effrazione del sistema giudiziario.”

“Oh, è tutto così buffo! Tu e le bugie che racconti come se fossero verità dissacranti. Sai qual è la cosa ancora più buffa?” La risata tintinnante di lei muore con un silenzio fragoroso. Spalanca la bocca e mostra i denti come se fossero le fauci di un animale pronto ad azzannarlo alla giugulare. “Che tuo padre ha trasgredito a tutte e tre eppure rimane il tuo eroe, l’uomo che aspiri a diventare. E tua madre non è da meno. Tua madre che - ”

“Basta così,” interrompe una voce alla sue spalle e il cuore di Hamish fa una capriola. Quando si volta è per incrociare lo sguardo saldo di sua madre. Non sa bene perché, ma si sente arrossire sotto gli occhi limpidi di Molly, come se lei lo stesse mettendo a nudo. Gli occhi di sua madre sono indagatori quanto quelli di Eurus, lo scandagliano con la stessa intensità con la sola differenza che sono quelli di una madre e perciò contengono un miracolo di cui quelli dell’altra sono completamente sprovvisti. Sono gli occhi della memoria, gli occhi di chi ha seguito ogni tuo passo dal tuo primo giorno di vita. Sono il risveglio della coscienza e dei suoi rimorsi, che ti rammentano ogni tua caduta e celebrano ogni tuo successo. Sono gli occhi dell’amore e del perdono, entrambi illimitati. 

Da un secondo all’altro Eurus ha cambiato atteggiamento. Il suo approccio è meno invasivo, più sottile. Sorride e sembra quasi un sorriso naturale, autenticamente felice. “Molly Hooper,” scandisce con attenta scrupolosità e attraverso i muscoli del braccio che sua madre gli ha appoggiato sulle spalle, tirandolo al suo fianco, Hamish sente la trazione nel corpo minuto di lei, così rigido che nel caso di chiunque altro lui temerebbe l’inevitabile rottura.

“Eurus,” Molly dice nel tono amabile che le è consono, rispondendo al sorriso di lei con uno di liquida contentezza. “Spero che perdonerai questa visita non concordata.”

“Non trattarmi come un’estranea, Molly. Dopotutto siamo famiglia.”

“Lo siamo,” Molly accetta in tono conciliante, il suo sorriso è una stilettata di garbo e grazia, “e ti pregherei di ricordartene la prossima volta che cercherai di turbare mio figlio.”

Senza una seconda parola, Hamish si sente tirare per il gomito. “Andiamo,” sua madre gli sussurra in tono accorato all’orecchio.

Ma la cella è grande e non hanno percorso neppure metà del tragitto che la voce di Eurus li raggiunge. “Non puoi sfuggire alla verità, Molly Hooper! Ti inseguirà nella tomba se necessario e sarà quella che ti sei costruita con le tua stesse mani! Non è di un Moriarty che stiamo parlando, ma di me. Lui è come me! Me!”

*

Fuori dalla cella, Hamish non fa in tempo a parlare. “Mamma,” incomincia, ma l’accenno di scuse non sembra sufficiente.

Molly si volta e non c’è parte di lei che non sussulti quando lo colpisce con forza sul viso, una volta e poi una seconda. “Hai la minima idea,” lei sillaba, tenendo a stento a bada la rabbia che la fa tremare da capo a piedi. “La minima idea,” lei ripete, gli occhi che scintillano come specchi, “di quello che hai innescato venendo qui? Qui, tra tutti i posti al mondo? Hai idea di quello che lei avrebbe potuto farti se non fossi arrivata?”

Umiliato, mortificato, pentito, lui non si massaggia la zona colpita anche se pulsa e sente il rossore comincia a imporporargli gli zigomi. “Non sarebbe successo nulla. Sarei stato perfettamente in grado di gestire la situazione.”

Quando Molly solleva di nuovo il braccio, prevedendo l’ennesimo manrovescio, Hamish chiude gli occhi e si prepara al contraccolpo. Quello che non si aspetta è il peso morbido del corpo che lo attira al suo, la dimensione confortevole e familiare delle braccia di sua madre attorno alle spalle che lo tirano verso il basso. La sorpresa è stordente, mai quanto la sensazione avvilente di umido che gli attraversa il golfino. Se c’è una cosa che non sopporta è far piangere sua madre, quella dopotutto è prerogativa di suo padre. “Mai più,” la sente dire in un singhiozzo rotto. 

Hamish sospira e passa le sue lunghe braccia attorno alla piccola schiena di sua madre, sentendola tremare per il sollievo contro il suo petto come se fosse appena sopravissuta a un’esperienza traumatica.

Ci sono tanti segreti della sua famiglia che gli sono ancora preclusi, conversazioni da fare e cose da mettere in chiaro, torti da raddrizzare, ma qualcosa da sistemare è già a portata di mano ed è la promessa che non agirà più alle spalle di sua madre. “Mai più,” acconsente con un sospiro.

E’ solo molto più tardi, quando l’elicottero di Jeff decolla dalla zona della spiaggia adibita a pista di atterraggio, mentre seduta nel posto di copilota e credendosi non vista, Molly lo osserva con la code dell’occhio e chiacchiera amabilmente con Jeff dell’ultimo cadavere di cui ha identificato le ragioni di morte, è solo osservando in lontananza Sherrinford trasformarsi nel profilo massiccio di uno grosso cumulo di pietre, che le ultime parole di Eurus fanno breccia nella sua mente. 

Lui è come me, l’ha sentita urlare. Lui, non lei

 



N/a:

Sì, lo so, guardate il figliol prodigo che torna all’ovile. Spero davvero tanto che questo capitolo riesca a farmi perdonare il mio essere stata uccel di bosco così a lungo. Dio, non ci credo, ma la data di pubblicazione non mente. E’ trascorso un anno mezzo dal primo capitolo. Che fine ha fatto il tempo? Sono alla ricerca disperata di tutto quello che ho perduto xD

Tornando a noi, cosa pensate di questo secondo capitolo? Vi ho colti alla sprovvista almeno un pochino? Dite la verità, non vi aspettavate questo ribaltamento di prospettive! Perciò, ricapitolando, ora tutti sanno che non si è mai trattato di Agnes, sono al corrente della terribile verità, compreso Hamish. Cosa succederà adesso? In che modo questo andrà a scalfire i rapporti familiari e a modificare l’affiatamento del  dinamico duo?

Fatemi conoscere la vostra opinione e mi risolleverete il morale alle stelle.

Un abbraccio forte

 

  
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