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Autore: Nina Ninetta    26/06/2018    8 recensioni
Viola è una ragazza disposta a tutto pur di conquistare il cuore della persona che ama, anche fare qualcosa di stupido come fraternizzare con il "nemico", ma talvolta ciò che noi detestiamo può rivelarsi un'autentica benedizione. La giovane si ritroverà a fare i conti con i problemi tipici degli adolescenti, un amore a due facce, un'amicizia persa e una madre emotivamente scompensata.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 13
Il giorno non era un problema.
La notte lo era.


 
 
Willy non si girò a guardarmi fin quando calciai involontariamente una lattina di Pepsi che rotolò a qualche centimetro da lui, per poco non caddi come su una buccia di banana, perdendo momentaneamente l’equilibrio. Imprecai e lo vidi scuotere il capo abbozzando un sorrisetto sarcastico, a dimostrazione del fatto che per me non c’erano speranze, che ero una completa imbranata. Non lo disse apertamente, ma intuii i suoi pensieri dall’espressione.
Feci per sedermi sull’altalena vicino alla propria, poi il mio cellulare prese a strimpellare in borsa. Lo cercai fra mille oggetti inutili e scartoffie - scontrini o liste della spesa ormai stravecchie –, quando finalmente lo trovai risposi, allontanandomi di qualche metro.
Era Christian. Mi chiese dove fossi, poiché era appena stato a casa mia per farmi una sorpresa, ma non ero lì, dove invece credeva che stessi. Sembrava infastidito e insieme sospettoso. Gli risposi che ero in giro a fare compere con i miei e che non sarei rientrata prima di pranzo. Mi disse che non glielo avevo detto il giorno prima e continuai a mentirgli affermando che avevamo deciso solo quella mattina di andare per negozi. Accettò l’alibi in modo riluttante, mentre io dall’altra parte del telefono trattenevo il fiato, pregando affinché non approfondisse l’argomento, non in quel momento per lo meno, sentendo gli occhi scuri e indagatori di Willy puntati sulla schiena. Salutai il mio fidanzato con la scusa che dovevo aiutare mamma a provare un abito e che «sai com’è diventata, una bambina capricciosa». Ci congedammo un con “ok” e un “a più tardi, amore mio, tesoro mio, cuore mio”. Mi facevano ancora un certo effetto quelle moine, a volte mi sembrava di vivere in un sogno, altre in una specie di gabbia invisibile. Impercettibilmente Christian era cambiato da quando ci eravamo messi insieme, era diventato meno sicuro di sé e più diffidente nei confronti degli altri. Anche nei miei. Sospirai voltandomi indietro, accennai un sorriso mesto a William che dal canto suo non aveva smesso il sorrisetto di scherno:
«Un rapporto basato sulla sincerità proprio» disse, nel frattempo che mi accomodavo sull’altalena libera. Gli lanciai un’occhiata di rimprovero.
«Credi che sarebbe stato opportuno dirgli che fossi qui?»
«Perché sei con me o perché sei in questa zona di malviventi?» Gli schioccai una seconda occhiata biasimevole. «Bella canotta, Cappuccetto» continuò, indicando il mio abbigliamento da mare. Era chiaro che stava tentando la sua solita tattica per farmi andare su tutte le furie, rivolgendosi a me con i suoi pessimi soprannomi. E ci stava riuscendo benissimo – come sempre.
«Non cominciare Will, ok?»
Perché mi hai baciato, avrei voluto ricordargli, quindi è inutile che fai lo spavaldo, avrei voluto aggiungere; invece mi limitai a fissarlo dritto negli occhi, usando un tono che non ammetteva repliche e lui lo comprese benissimo, abbassò lo sguardo riprendendo a dondolarsi sui talloni e sulle punte.
 
Il silenzio la fece da padrone per qualche minuto. Osservai il cielo azzurro, qualche nuvola bianca si stava addensando all’orizzonte, ma nulla di preoccupante: il meteo aveva garantito una giornata soleggiata e gradi al di sopra della media. Mi diedi una leggera spinta, piegando e allungando le gambe per mantenere un andamento costante; i cardini di ferro cigolarono tristi.
Notai che quella zona della città non era troppo trafficata, non c’erano veicoli in strada, né gente sui marciapiedi, né uccelli in cielo. Mi sforzai di ricordare la prima volta che avevo visto Willy in vita mia e mi resi conto che non lo sapevo. All’improvviso era come apparso dal nulla, come se un giorno fosse spuntato da dietro un angolo e mi avesse teso un’imboscata, facendomi andar di matto con i suoi pessimi vezzeggiativi: Pel di carota, Cappuccetto Rosso, Anna dai capelli rossi, Rosa, Azzurra, Verdina, Stellina rossa e quant’altro. Un giorno era arrivato nella mia vita e l’aveva scombussolata, simile a un tornado aveva spazzato via la noia di un’adolescenza piatta e banale. D’altronde sarei dove sono adesso se non l’avesse fatto? Lui era stato il mio effetto farfalla, il mio battito d’ali che era riuscito a mischiare le carte in tavola, non solo per quel determinato periodo della vita, ma per sempre.
Lo osservai di sottecchi: i lineamenti del viso erano rilassati, quasi malinconici, un po’ di barbetta ispida cominciava a spuntare sulle guance dalla carnagione più scura della mia e di quella di Christian. Rispetto a quest’ultimo aveva un’aria più da uomo, i tratti marcati e meno delicati, eppure c’era una dolcezza recondita che solo allora mi sembrò di notare. 
«Congratulazioni» esclamai all’improvviso. Era giunto il tempo di parlare.
«Grazie. Lu se l’è davvero vista brutta. Meno male che non sono nato femmina» sghignazzò, provando a stemperare l’aria che tirava fra noi con una delle sue solite battute.
«Non mi riferivo alla nascita di tuo nipote» arrestai l’andirivieni dell’altalena piantando i piedi per terra, si sollevò uno sbuffo di polvere. Lui si voltò a guardarmi di scatto, io stavo solo aspettando di incontrare i suoi occhi per affondare il colpo. «Le mie congratulazioni sono per il passaggio nella squadra regionale» lui distolse nuovamente lo sguardo per alzarlo sul cielo. Un aereo trafisse la quiete mattutina con il suo rombo attutito dal muro del suono,  dietro di sé una lunga scia color panna provava a inseguirlo senza mai raggiungerlo.
«L’hai saputo da Christian?»
«Perché non me l’hai detto, Will?» Con una mano afferrai la catena di ferro che legava l’altalena al palo orizzontale sopra le nostre teste, vecchio e arrugginito, arrestando il suo e il mio movimento ondulatorio.
«Non lo so» sospirò e io sentii la rabbia crescermi dentro.
«”Non lo so” non è una risposta» gli ringhiai contro.
Con tutta onestà ignoro il motivo scatenante che lo fece adirare a quel modo - forse il tono della mia voce o il fatto che ormai si trovasse con le spalle al muro - fatto sta che si alzò di scatto, il sedile dell’altalena dondolò violentemente all’indietro.
Non l’avevo mai visto così incazzato.
«Ti sei messa con Christian? Sei contenta di aver raggiunto il tuo obiettivo? E allora che vuoi adesso da me?»
Se c’è una cosa che mi fa imbestialire e quando mi si urla contro, in particolare se so di stare dalla parte della ragione. Balzai in piedi, provando a oppormi con tutti i miei 1,58 cm di altezza.
«Tu mi hai detto una bugia! Sei stato meschino, ti sei preso gioco di me fin dall’inizio!»
«Io volevo solo stare con te!» Mi urlò contro senza pensarci, d’impulso, e capii che quelle parole gli erano sfuggite di bocca perché si coprì il volto con la mano, dandomi le spalle, come se avesse combinato un macello.
Lo aveva fatto?
Forse…
«Perché non me l’hai detto?» Gli chiesi di nuovo, ma con più calma.
Mi volteggiava la testa. Un attimo prima sentivo un fuoco bruciarmi dentro, l’attimo dopo avevo brividi di freddo e la pelle d’oca lungo le braccia nude. Cercai a tentoni il sedile dell’altalena alle mie spalle e mi sedetti di nuovo.
Willy scosse il capo e ridacchiò, amaramente, poi si girò e tenendo la conta con le dita elencò tutti i segnali che mi aveva lanciato per farmi capire i suoi sentimenti. O per lo meno sperando che li comprendessi.
«Ti ho tenuta per mano, ti ho baciato, ti ho asciugato le lacrime, ti ho fatto sorridere quando eri triste, ti ho accompagnata fin sotto casa in piena notte, ti ho accarezzato il viso, ti ho dato il mio numero di telefono, ti ho disegnato un cuore, ti ho tenuto compagnia al pronto soccorso, ti ho abbracciato, ti ho portato a casa mia, ti ho presentato alla mia famiglia mostrandoti la topaia in cui vivo, ti ho raccontato i miei sogni e il mio passato, ti ho chiamato “Stellina mia” e quando tu mi mandavi a ‘fanculo io ti ho risposto che ti amavo. Cosa avrei dovuto fare più? Una dichiarazione in pieno centro cittadino?»
 
Rimasi a bocca aperta.
Mentre lui faceva la lista di tutti quei gesti, gli stessi mi passarono a uno a uno nella mente. Mi rividi al compleanno di Jenny, quando mi aveva minacciato che se non gli avessi dato la mano mi avrebbe baciato davanti a tutti, e seriamente aveva specificato. Mi rividi in quella volta che mi aveva baciato sulle labbra davanti a Cris, dopo che avevamo dato calci a un pallone nel campetto della scuola, quando gli ero caduta addosso cercando di sottrargli la palla e lui era scoppiato a ridere di gusto. Mi rividi all’angolo di una vetrina di articoli sportivi, in una serata uggiosa, con il cappuccio tirato sul capo a nascondere la mia stupida chioma rosa, e lui che con un occhio nero mi diceva di seguirlo, perché conosceva qualcuno che poteva aiutarmi. Mi rividi a camminare per la prima volta su quelle strade di periferia, con addosso lo sguardo indagatore e insieme curioso degli abitanti del quartiere e ricordai la sensazione di protezione che avevo provato quando mi aveva circondato le spalle con un braccio, a mo’ di difesa. Mi rividi a telefonargli disperata perché mamma era distesa in bagno, priva di sensi; ricordai la corsa in ospedale, il suo capo sulle mie cosce mentre gli spalmavo l’unguento che avrebbe dovuto lenire il livido intorno all’occhio che Cris aveva colpito con un pugno; l’ambulanza, le urla dell’uomo sulla barella, il moncherino grondante sangue, il braccio tagliato di netto portato come un neonato dall’infermiera e il nostro abbraccio. La mia supplica di stringermi forte, di stringermi di più. Lo rividi seduto sugli spalti montati per l’occasione in piscina, dopo la gara di nuoto: l’unico a essere rimasto quando tutti gli altri erano andati via, troppo impegnati per chiedermi come stessi, troppo concentrati sulle proprie vite per dare il giusto peso a quel podio e a ciò che aveva significato per me. Tutti troppo presi da sé, eccetto lui.
«Perché non me l’hai detto?» Chiesi di nuovo, simile a una litania, ma in verità stavo parlando più con me stessa che con lui.
«Sarebbe cambiato qualcosa?»
Bella domanda.
«Non lo so» risposi. Mi scoppiava la testa a furia di tutti quei ricordi che vorticavano come un uragano nella mia mente.
«”Non lo so” non è una risposta» mi apostrofò, abbozzando un sorrisetto stentato.
Aveva bei denti, bianchi e dritti, come mai non li avevo mai notati?
«Io… io credevo che mi prendessi in giro. Mi chiamavi in tutti i modi possibili e anche quando mi, cioè, mi… accarezzavi diciamo, sembrava che lo facessi solo per mettermi in imbarazzo.»
«Per certe cose non c’è bisogno delle parole, Cappuccetto, ma non avevo fatto i conti con la tua testolina bacata» lo guardai offesa, esclamando:
«Ecco, vedi!»
Lui sorrise, dolce e triste, poi tornò a sedersi sull’altalena, sembrava stanco, un uomo alla fine di una dura giornata di lavoro.
«Domani parto. Vado a vivere nella capitale» alzai lo sguardo con uno scatto, volevo capire se mi stesse prendendo per i fondelli, come era solito fare. Invece lui tenne gli occhi fissi sull’orizzonte, il sole stava girando e i suoi raggi ci stavano raggiungendo lentamente, in maniera inesorabile. «Un bel salto di qualità direi, vero Azzurra?» Mi osservò di sbieco, con un sorrisetto sempre più stentato.
«Te ne vai per tutta l’estate?»
«No, Cappuccetto, me ne vado per sempre.» Sentii un dolore appena percettibile nel petto, all’altezza del cuore. «Farò parte della Primavera della squadra capitolina, sono di loro proprietà adesso, possono fare di me quel che vogliono» scherzò, ma a me non andava affatto di scherzare.
«Non essere ridicolo. E la scuola?»
«Studierò nel loro istituto. É una società molto importante, che credi!»
Mi veniva da piangere. Dannate lacrime che mi sbucano dagli occhi nei momenti meno opportuni. Mi capita ancora tutt’ora. Le asciugai, fingendo che mi fosse entrata un po’ di polvere, da un periodo a quella parte ero diventata brava a fingere. Avevo finto di essere la fidanzata di Willy per un mese circa, figuriamoci se due lacrime potevano fermarmi.
Lui si alzò e si stiracchiò in maniera plateale. Mi invitò a pranzare a casa sua, affermando che sua madre e Lu sarebbero state felici di avermi come ospite, ma rifiutai la sua proposta, omettendo il fatto che avevo appuntamento con Christian nel primo pomeriggio. Allora si offrì di accompagnarmi alla fermata dell’autobus, che passava di lì ogni ora puntualizzò; senza rispondere lo seguii lungo le strade polverose e, insieme, attendemmo l’arrivo del mezzo pubblico, in piedi e all’ombra di un muro imbrattato di murales e di promesse non mantenute, di amori eterni e amicizie infinite. Nei secoli dei secoli. Amen.
Non parlammo molto, sembrava che non avessimo più nulla da dirci, solo quando vidi il bus giallo spuntare all’orizzonte mi vennero in mente tante di quelle cose che non avrei saputo neanche da dove cominciare. Balbettai qualcosa di insensato con voce tremante, però lui mi fermò ridendo di me, sembrava tranquillo e rilassato, ma aveva gli occhi velati di tristezza.
«Ti auguro tutta la fortuna di questo mondo Will, spero davvero che tu possa realizzare il tuo sogno e di… di…»
«Ehi, ehi, Verdina, frena! Non parto mica per la guerra!» Rise.
Come avrei fatto senza più quel sorriso?
«No, è solo che…» l’autobus rallentò davanti a noi con uno stridio di freni, le porte si aprirono verso l’esterno con uno sbuffo rumoroso e metallico. Salii i gradini uno a uno, piano, sentendomi improvvisamente pesante come un pachiderma. Sentii le ante richiudersi alle mie spalle, mentre mi sedevo nei posti centrali del veicolo, scelsi quello vicino al finestrino per poterlo guardare ancora. William teneva gli occhi rivolti all’insù, verso di me. Ci fissammo per un periodo di tempo breve, troppo breve. Non potevo sapere che quella era l’ultima volta che lo vedevo così, giovane ma con i lineamenti di un uomo e l’espressione di un bambino. Con tutti quei capelli scuri in testa e la pelle bruna del viso sbarbata e liscia. Ricordo ancora la sua T-shirt rossa con una frase scritta in carattere grassetto e blu, il pantalone di cotone lungo fino al ginocchio, i calzini corti e bianchi, le scarpette di tela. Ricordo che alzò una mano in segno di saluto, io sfiorai con le dita il vetro del finestrino, era fresco e umido. Willy mi sorrise, come faceva sempre ogni volta che mi vedeva, solo che io non ci avevo mai fatto caso. Le labbra iniziarono a tremarmi violentemente, le serrai in una fessura che sforzai di trasformare in un sorriso, con la speranza che stessero ferme.
L’autobus partì lentamente, simile a un dinosauro addormentato, e quando lui sparì alla mia vista sprofondai nel sedile e piansi in silenzio, fregandomene delle poche persone che erano a bordo e che mi lanciavano sguardi furtivi.
L’autista dell’autobus era un uomo grasso, sudato e che guidava con il braccio fuori dal finestrino. Quando mi avvicinai per chiedergli di farmi scendere alla prossima fermata, ero ormai in prossimità di casa, lui mi osservò attraverso lo specchietto retrovisore:
«Stia tranquilla, signorina, che la vita è lunga e fa delle belle piroette» mi fece l’occhiolino, rise mettendo in mostra i denti ingialliti dal fumo; mi limitai a ringrazialo e a scendere dal pullman.
In quella afosa mattinata di agosto l’omone alla guida del bus che mi aveva portato via da Will aveva avuto ragione: la vita è lunga e fa delle belle piroette!
La mia strada e quella di William si sarebbero incrociate ancora, ma tanti, tanti anni dopo e quando saremmo stati entrambi adulti, completamente diversi dai sedicenni che si erano conosciuti e sussurrati in segreto un arrivederci. Gli eventi della vita ci avrebbero cambiato nel profondo, sebbene tra i due quello che aveva subito una maggiore metamorfosi fosse lui. E nel senso più negativo possibile.

 

*****

 
Il giorno non era un problema. La notte lo era.
Lo sognavo sempre.
Lo sognavo in continuazione.
Lo sognai la prima notte e seppi, fin dal mattino che mi svegliai, che avrei continuato a farlo per molto tempo. Il più delle volte lo vedevo ritornare da me, ed ero così contenta che gli saltavo al collo quando mi diceva:
«Sono tornato. Sono tornato solo per stare con te
La mattina mi destavo boccheggiando, nella calura che sembrava soffocarmi, accorgendomi di stare nel mio letto, nella mia camera, nella mia casa e che lui non c’era, se ne era andato via e allora affrontare una nuova giornata diventava tremendo.
Quella fu l’estate più brutta e più bella della mia vita. Mi sembrava di vivere una doppia esistenza: di giorno ero la ragazza di sempre, con i boccoli rossi e le lentiggini, soprattutto ero la fidanzata di Christian; di notte ero una persona sola e sconsolata, che si ritrovava a pregare di incontrarlo almeno nei sogni.
La bella stagione trascorse lentamente, sonnecchiante e afosa. Quasi ogni giorno mi recavo in piscina per una nuotata, però durante i mesi estivi la struttura si trasformava in un’attrazione balneare, dove le persone si recavano a prendere il sole e a me infastidiva. Anche perché mi guardavano stranite con indosso il mio costume da nuotatrice blu scuro, severo e accollato; allorché iniziai a correre per scrollarmi di dosso i pensieri che mi portavo dietro dalla notte precedente, ma trovandolo faticoso abbandonai l’idea di scaricare il nervosismo sullo sport e decisi che l’unico modo per distrarmi fosse quello di concentrarmi esclusivamente sulla mia storia d’amore.

Christian non si rese mai conto di niente. O almeno credo. Ci vedevamo anche più volte in una giornata, ma per noi non era una novità, anzi ciò che ci aveva stranito erano state le settimane che ci avevano visti lontani e occupati con altre persone, in altre faccende.
Ormai ci conoscevamo benissimo dal punto di vista caratteriale, dell’uno e dell’altra sapevamo a memoria i gusti del gelato, il colore preferito, le canzoni che ci facevano emozionare; perciò imparammo a conoscerci sotto altri aspetti, per lo più fisici. Tuttavia, quando tentò un approccio decisamente avventato e invadente lo fermai, rossa di vergogna e di calore, lui comprese senza aggiungere altro. Mi baciò la testa e mi tenne fra le sue braccia, consolandomi per una tristezza che tenevo dentro e che lui neanche conosceva.
Quella stessa notte le sembianze di Christian che cercava un contatto azzardato con il mio corpo immacolato furono sabotate da Willy. Lanciai un mezzo urlo strozzato e mi ritrovai seduta al centro del letto, con il cuore che batteva all’impazzata, la fronte imperlata di goccioline di sudore e la notte ancora lunga fuori dalla finestra. Mi tenni sveglia fino all’alba, leggendo, bevendo, camminando come uno zombie per casa, sciacquandomi in continuazione il viso con acqua fresca. Feci di tutto pur di non riaddormentarmi, avevo troppa paura che lui tornasse a popolare i miei sogni.
Per fortuna con l’inizio del nuovo anno scolastico le cose andarono migliorando. La sera ero così stanca che sprofondavo in un sonno senza sogni. La prima notte che non lo sognai tirai un sospiro di sollievo, finalmente era finita; contemporaneamente sentii un gran vuoto pervadermi l’anima.
 
Quel Natale presentai Cris alla mia famiglia in veste di fidanzato ufficiale. Ovviamente lo conoscevano da una vita, ma come mio migliore amico. Papà lo salutò privo della simpatia che aveva sempre manifestato nei suoi confronti, adesso lo vedeva con occhi diversi e provai una gran tenerezza per lui. Mia madre mi disse che l’aveva sempre saputo:
«Non esiste l’amicizia fra uomo e donna, è impossibile!»
Quella notte, la notte di Natale, sognai Will dopo due mesi circa.
Ripresi gli allenamenti in piscina, ma feci sapere all’istruttore che non intendevo partecipare ad alcuna gara quell’anno. Amavo nuotare, amavo l’acqua, e non volevo che quella passione si trasformasse in una sfida perenne. Volevo semplicemente godermi il relax che il contatto con il mio elemento mi trasmetteva. Lui lo capì e smise di torturarmi con le sue sedute pesanti di vasca, bracciate e apnea.
Le cose con Cris andavano bene. Litigavamo poco, quel tanto che bastava, e il più delle volte ero io a sbraitargli contro cose insensate per il macabro piacere di farlo infuriare. Poi mi passava tutto, ridevo a crepapelle e lo abbracciavo. Lui mi scherniva affermando che avevo seri problemi mentali, allora io mi arrabbiavo di nuovo, chiedendogli se per caso non stesse insultando la malattia di mia madre.
Dopo un periodo di calma apparente, mamma ricadde in depressione e sebbene il dottore avesse consigliato un ricovero di poche settimane in una clinica per la cura della mente, mio padre si oppose come un povero diavolo e si sobbarcò tutto il peso della responsabilità di sua moglie. Disse che noi figli avevamo i nostri impegni, la scuola, e non avremmo dovuto preoccuparci di nulla. Mio fratello pensò bene di arruolarsi nell’esercito e di concludere gli studi attraverso l’accademia militare. Io promisi a me stessa che non appena fossi stata in grado di farlo me ne sarei andata via da qualche parte, per iscrivermi a medicina e fare il medico. Non confidai questa mia scelta a Cris però, per non influenzare le sue.
Non gli confessai nemmeno il fatto che io e Willy non eravamo mai stati veramente insieme, né lui mi chiese alcunché sul nostro rapporto. In realtà il suo nome era diventato una specie di tabù e io ne approfittai per non dargli spiegazioni imbarazzanti e – a quel punto - inutili.
Faci l’amore con lui, per la prima volta, l’estate successiva, a casa sua, quando i genitori andarono via per qualche ora. Avevo diciassette anni e nessuna fretta, ma una cosa tira l’altra, una carezza tira un bacio e alla fine ci ritrovammo sul suo letto, abbracciati, ansimanti e nudi.   
Anche i mesi estivi passarono, caldi, umidi, colmi di sospiri e di gemiti trattenuti. Io e Cris facevamo l’amore quasi ogni giorno, approfittavamo di ogni momento per stuzzicarci e amarci, in qualsiasi posto fosse disponibile al momento: casa sua, casa mia, la macchina di suo padre (che a volte gli prestava dopo che aveva preso la patente). Fu un periodo felice e nuovo per me, tutto da sperimentare e da assaporare, con nuove scoperte, nuovi odori, nuovi umori e sensazioni. Se passava un giorno senza vederci mi sentivo mancare l’aria, se non mi telefonava all’ora prestabilita andavo in paranoie. Iniziai a dipendere completamente da Christian, gli chiedevo consigli su cosa indossare per uscire e gli dicevo in maniera perentoria quello che invece doveva mettere lui. Sinceramente non so come fece a sopportarmi, poiché c’erano giorni che mi sarei presa a schiaffi da sola. Una notte, con la mente lucida e senza rumori attorno, dedussi che quell’attaccamento era una diretta conseguenza del fatto che non avevo nessun’altro a cui aggrapparmi, se non lui. Dopo l’amicizia che mi aveva legato a Jenny non riuscii più a entrare in confidenza con nessun’altra ragazza. Mia madre era sempre più squilibrata da sveglia, tanto che papà la imbottiva di calmanti che la facevano stare in uno stato perenne di sonnambulismo. Christian era il mio unico appiglio, l’unico salvagente in mezzo al mare, ma lui aveva i suoi impegni, le sue amicizie: gli allenamenti, lo studio, una famiglia normale a cui dedicare alcune ore della giornata, i compagni di squadra. I suoi genitori tenevano al fatto che, almeno una volta a settimana, tutta la famiglia fosse seduta intorno al tavolo e a pranzare o cenare insieme. In quelle occasioni non erano invitate persone estranee (come la sottoscritta), né erano permessi cellulari e computer. Così, per almeno due ore, capitava che non ci mettessimo in contatto. Fu durante una di queste cene che andai a trovare la mamma di Jenny.
 
Erano trascorsi quasi due anni dalla festa di compleanno di sua figlia, eppure quando la vidi mi sembrò passato solo un giorno. Mi accolse con un sorriso smagliante e una tale gentilezza che la somiglianza con la figlia mi destabilizzò. Solo allora capii quanto in realtà mi mancasse quella ragazza, quanto grande fosse stato il male che le avevo fatto e quanto dovevo averla delusa.
Accompagnandomi per mano lungo il corridoio, sprofondammo in contemporanea nel sofà di pelle fra morbidi cuscini, nel salone più elegante e costoso che abbia mai visto. Chiacchierammo a lungo, bevendo tè e mangiando pasticcini fatti in casa. Gli chiesi di Jenny e lei sospirò, immaginai che dovesse sapere tutta la storia e i motivi che ci avevano portato a quel punto, perciò tra le altre cose apprezzai il suo tentativo di non farmi pesare la mia colpa. Mi rispose semplicemente:
«Sta bene, Viola, adesso sta bene.» 
Mi sentii sollevata.
Mi mostrò con orgoglio le foto che aveva scattato durante il suo ultimo viaggio nei paesi del nord, fra immense distese ghiacciate, leoni marini e pinguini che, mi disse ridendo, adoravano mettersi in posa per lei. Quando rideva sembrava una ventenne. Poi balzò in piedi, la vidi avvicinarsi al mobile della scrivania e cercare nei vari cassetti che la costituivano:
«Ma dov’è? Accidenti, l’ho vista proprio una settimana fa…» la sua mano correva tra fogli, penne, foto ingiallite dal tempo, vecchi rullini Canon. «Ah, eccola!» esclamò, tornando da me e porgendomi una foto.
«Cos’è?» chiesi, prendendola dalle sue mani e osservandola. e da quel giorno ripresi a sognare Willy per i mesi a venire.
Era la foto che la signora ci aveva scattato al compleanno di Jenny, quando io e lui fingevamo di stare insieme. Eravamo seduti ad un tavolino, con due bicchieri vuoti davanti a noi, io ero sporta con il corpo verso quello di Will, che teneva un braccio intorno alla mia vita e la mano poggiata subito sotto il seno; l’altra mano, quella libera, stringeva le mie posate in grembo. Le nostre teste si toccavano, entrambi sorridevamo, io un po’ sforzata, lui sincero. Chiunque avesse visto quella foto ci avrebbe scambiati per due fidanzatini.
La gola si seccò, il cuore prese a battermi forte, le dita con cui tenevo la foto tremavano leggermente, non riuscivo a staccare gli occhi da quel volto bruno, senza barba, i folti capelli scuri e lo sguardo inteso, profondo, che sembrava fissarmi per davvero, come se fosse lì.
«É… è molto bella» dissi, porgendogliela, ma lei scosse il capo respingendola:
«Oh no, no. È tua» bevve un sorso di tè fresco, io tornai a chinare lo sguardo sull’immagine, lei mi osservò di sottecchi. «Era un bel ragazzo e sembrava davvero innamorato di te. Come mai è finita?» mi venne da ridere per quell’affermazione.
Possibile che ero stata davvero l’unica a non accorgermi di niente?
«É andato via, si è trasferito nella capitale» la guardai. «Posso tenerla allora?» la mamma di Jenny mi strofinò la schiena e con un gran sorriso mi rispose di sì, potevo tenerla.
La sera stessa, mentre ero distesa sul mio letto, mentre dalla finestra aperta entrava il frinire dei grilli e delle cicale, studiai l’immagine impressa nell’istantanea nei minimi particolari: il buffet sullo sfondo; le persone che ci circondavano; i miei capelli; ciò che avevo indossato; soprattutto scrutai lui. La mia espressione era cambiata negli anni, rivedevo una sedicenne impacciata e messa a disagio non solo dall’obiettivo della macchina fotografica, ma anche per la vicinanza di quel ragazzo che, più lo fissavo, più mi sembrava un estraneo.
Cosa ricordavo di lui? Poco o niente. Avevo dimenticato il tono della sua voce, così come della sua risata improvvisa, d’altro canto ricordavo vagamente il suo sorrisino di sbieco e lo sguardo da furfante quando si prendeva gioco di me. Chiusi gli occhi e ripensai al bacio che mi aveva dato dopo la nascita del bambino di Lu, alla sensazione di impotenza che avevo provato, con le dita intrecciate alle sue, spaventata da tutte quelle emozioni così incoerenti fra loro. Riaprii le palpebre e lo guardai ancora, alla luce soffusa dell’abatjour sul comò, chiedendomi se, come me, anche lui fosse cambiato, se fosse ancora il ragazzo allegro e ironico che avevo conosciuto. Se ogni tanto gli tornassi in mente.
Il giorno non era un problema. La notte lo era.
 



 
  
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