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Autore: Nina Ninetta    29/06/2018    8 recensioni
Viola è una ragazza disposta a tutto pur di conquistare il cuore della persona che ama, anche fare qualcosa di stupido come fraternizzare con il "nemico", ma talvolta ciò che noi detestiamo può rivelarsi un'autentica benedizione. La giovane si ritroverà a fare i conti con i problemi tipici degli adolescenti, un amore a due facce, un'amicizia persa e una madre emotivamente scompensata.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 14
Lasciami andare


 
 
Io e Christian ci lasciammo la sera del mio diciottesimo compleanno.
Senza litigare, senza urlarci contro la nostra frustrazione, senza rinfacciarci gli sbagli di uno o le mancanze dell’altra; consci del fatto che il forte legame che ci aveva unito per circa due anni fosse regredito fino a tornare alle dimensioni originali. Da mesi ormai la passione che ci aveva avvolto si era spenta, simile ai resti di una brace di cui non riuscivamo più a ravvivare le fiamme.
Ce lo dicemmo lontani da occhi indiscreti, appartatati nel giardino sul retro del locale che papà aveva scelto per festeggiare il raggiungimento della maggiore età da parte della sua unica figlia femmina.
Ricordo il vento freddo che mi faceva stringere nel cappotto; le foglie ingiallite sparse un po’ ovunque volteggiavano ai nostri piedi, qualcuna si posava sulla fontana dismessa dove un puttino nudo reggeva una caraffa da cui, immagino, sgorgasse acqua durante la bella stagione; i rami degli alberi rinsecchiti somigliavano a dita rattrappite di mani anziane; il cielo nuvoloso e grigio faceva da corredo alle sensazioni che provavo.
Glielo dissi dopo che si era chinato a lasciarmi un bacio sulla guancia, in segno di augurio. Oramai provavamo vergogna anche a sfiorarci le labbra, la nostra intimità si era ridotta all’osso, al minimo essenziale. Feci un respiro profondo, l’aria fredda penetrò fin dentro ai polmoni, la sentii raggelarmi anche il sangue, ma servii a schiarirmi le idee, ad aprirmi la mente. D’un tratto sapevo cosa volevo e come affrontare l’argomento. Trovando le parole giuste gli poggiai un palmo sul braccio, lui s’irrigidì a quel semplice contatto. Senza rancori gli feci notare l’inutilità di continuare quella commedia, di insistere su qualcosa che non era più, dovevamo guardare in faccia alla realtà: eravamo tornati ad essere ciò che eravamo sempre stati, ovvero due buoni – ottimi – amici, ma niente di più.
Lui pianse, spiazzandomi completamente. Si coprì il viso con entrambe le mani e poi mi strinse forte, come non faceva da tempo. Risposi al suo abbraccio, sollevata, e quando Christian mi sussurrò un grazie all’orecchio compresi che quelle lacrime non avevano nulla a che fare con la tristezza di perdermi, ma sapevano di liberazione.  Credo che quella situazione lo stesse uccidendo pian piano, come una tosse non curata bene potrebbe trasformarsi in bronchite, così il nostro rapporto lo stava portando alla rovina.
Insieme prendemmo la decisione di non gridare ai quattro venti la nostra separazione consensuale e per tutta la festa ci comportammo normalmente, cosa che non ci risultò affatto difficile. Sia noi che le persone che ci erano vicine erano così abituate a vederci come amici, ancor prima che come fidanzati, che nessuno notò la differenza.
Quella stessa notte Christian mi telefonò e mi confidò che gli mancavo, che si sentiva solo.
«Ho paura di perderti, Viola. Ho paura che smetteremo di essere amici adesso, che le cose tra noi cambieranno.»
«Ma figurati!» esclamai con un sorriso sincero. «Perché dovrebbero cambiare?»
E, ovviamente, cambiarono.
 
Il processo di mutamento fu lento in realtà, tanto che nessuno dei due si accorse in tempo reale di ciò che stava accadendo, del fatto che ci stavamo allontanando, eppure inevitabilmente accadde.
Anche dopo la fine della nostra storia d’amore continuammo a vederci di frequente. Fin tanto che c’era la scuola a unirci le cose proseguirono sulla stessa rotta, il cambiamento avvenne dopo l’estate degli esami di maturità. Durante un acquazzone di metà agosto ci rifugiammo in un bar e davanti a una coppa di gelato al caffè con doppia panna, mi confidò che fino all’ultimo aveva sperato di entrare a far parte di una squadra di calcio più o meno importante. Tuttavia, la sua grande passione era rimasta relegata alla nostra piccola cittadina di provincia e ai campetti di calcio delle scuole, perciò aveva deciso di seguire il consiglio di suo padre e di studiare per aiutarlo nella gestione dello studio commercialista di famiglia. Mi fece un sorriso amaro, era chiaro che quello non fosse il destino che aveva sognato per sé, ma sembrava non avere la forza necessaria per reagire e cambiare le cose.
Quando gli dissi che invece io mi sarei iscritta a medicina per diventare dottore, lui rimase a bocca aperta, sforzandosi di trattenere un risolino.
«Non sarà una passeggiata passare il test di ammissione» fu la prima cosa che affermò.
«Lo so, infatti sto già studiando da un anno a questa parte.»
«Non mi hai mai detto nulla.» Non sapevo cosa rispondere, perciò non lo feci. «Wow!» esclamò poi. «Scusami Viola se te le dico, ma non ti ci vedo proprio.»
Le sue parole mi ferirono nel profondo, e sarebbero tornate alla mente ogni volta che mi sarei trovata di fronte alle difficoltà dettate dalle scelte obbligate per inseguire la mia vocazione.
Anni dopo papà l’avrebbe incontrato con sua moglie e i loro due figli a spasso per il paese durante la festa patronale, quando chiese di me - attento a non farsi sentire dalla propria consorte - papà gli raccontò che dopo la laurea in medicina avevo preso parte ad un progetto benefico messo su dal dottore De Martino, che era stato anche il mio relatore di tesi, seguendolo in culo al mondo, nel sud del pianeta. Christian, rimasto a bocca aperta come mi riferì papà, stava per porgli un’altra domanda, ma poi sua moglie era tornata e si erano salutati.
Penso che sua moglie mi odiasse già da quando erano fidanzati.
Non ne ho la certezza, però ho questo sentore e io al sesto senso ci credo: se non lo avessi fatto avrei ucciso tanti di quei pazienti e, molto probabilmente, sarei morta io stessa.
Christian e sua moglie Roberta si conobbero quando tutti noi avevamo vent’anni. Io ero al secondo anno d’università e le cose fra noi erano già deteriorate, ci vedevamo poco soprattutto perché io avevo cambiato città. Ci sforzavamo di sentirci almeno una volta a settimana, spesso nel week end o comunque quando lo studio ci lasciava un po’ di tregua. All’inizio ci telefonavamo, poi a poco a poco ci riducemmo a messaggi telegramma e e-mail. Fu proprio in una di queste che mi raccontò della “bellissima ragazza che è venuta oggi pomeriggio allo studio. Aveva bisogno di un consulto per quanto riguarda la compilazione di un modulo di accompagnamento per la nonna disabile. Ha dei capelli bellissimi e lunghissimi, scuri, come piacciono a me. Le ho detto di ripassare domani mattina, quando avrò più tempo da dedicarle. Intanto le ho scritto il mio numero di cellulare su un biglietto. Spero proprio che mi chiami, Viola”.
Dopo aver letto la descrizione di quella fanciulla non potei non pensare che ci fosse una certa somiglianza con la Jenny adolescente, ma non glielo scrissi. Non so precisamente cosa mi infastidii della sua e-mail, fatto sta che mi mise di cattivo umore. La sera stessa le sue preghiere si avverarono e dopo neanche una settimana erano già inseparabili. Tuttavia, quando lei venne a sapere che il suo fidanzato si scambiava messaggi con la sua migliore amica, nonché ex ragazza, si ingelosì e io e Cris ci allontanammo sempre più, fino a raggiungere un punto di non ritorno. Non me lo disse mai schiettamente, ma intuii da alcune sue frasi che fosse stato meglio smettere quello scambio epistolare e, nonostante tutto, nonostante la rabbia iniziale che mi pervase fino a rendermi cieca, fino a farmi tirar fuori dall’armadio la valigia, urlando: «Adesso gliela faccio vedere io a quella cretina!» compresi appieno l’apprensione di quella sconosciuta.
In realtà fu soprattutto merito di Jenny, mia coinquilina durante gli anni universitari, se riuscii a ragionare e a tornare sui miei passi. Jenny mi prese per le spalle costringendomi a sedere al tavolo della cucina, tenevo ancora la valigia stretta fra le braccia. Preparò il caffè e mi chiese:
«Tu saresti stata contenta se io e Christian avessimo mantenuto i contatti anche dopo che voi due stavate insieme?» Sorrise. «Lascialo andare, Viola» disse. «È ora di lasciarlo andare.»
A quelle parole mi alzai trascinandomi nella mia stanza, tirando dietro di me il trolley e togliendovi da dentro le poche cianfrusaglie che vi avevo messo, accorgendomi solo allora di aver dimenticato la biancheria intima.
Così mi resi conto che quella ragazza, Roberta, non aveva tutti i torti: chi vorrebbe che il suo fidanzato continuasse a sentirsi con l’ex?
Io no di certo.
 

*****
 

Incontrai Jenny quasi dopo un anno di università. Mi svelò che si era già accorta di me, un giorno mi aveva notato nei corridoi della facoltà di medicina e da allora aveva fatto di tutto per non incrociarmi, arrivando addirittura a studiare gli orari e i corsi che seguivo per starmi alla larga. Mi aveva evitato senza ritegno.
La prima volta che la vidi fu durante una conferenza, dove lei sedeva al fianco del professore anziché fra noi studenti. Faticai a riconoscerla, era cambiata tantissimo: i suoi lunghi capelli castani - che tanto avevo invidiato a sedici anni – si erano trasformati in un caschetto, così lisci e biondi che sembravano finti; era spaventosamente magra, indossava un tailleur rosa con una camicia di seta bianca e scarpe scollate con un po’ di tacco. Ebbi la certezza che fosse lei solo quando si alzò in piedi, davanti ad una platea di circa centocinquanta studenti universitari della sua età, per elencare i sintomi di una malattia chiamata distrofia muscolare, mentre sulla parete scorrevano diapositive scoraggianti.
Per poco non svenni.
Intorno a me si alzò un bisbiglio sommesso, qualche risolino mal trattenuto qua e là, fra le varie idiozie ne udii una colossale:
«Quella se la fa con il professore.»
«Ma chi? Il professore Andrea De Martino?»
«Per stare lì alla cattedra dopo un anno di corso come minimo gliela deve dare
«Ma quello è una mummia, una palpatina e via, l’esame è dato!»
Tra le risatine maliziose e i commenti che seguirono, non riuscii più a distogliere lo sguardo dal professore che sedeva al centro della cattedra e Jenny, in uno zapping che mi fece venire il mal di testa e di certo non mi aiutò a capire un’acca di ciò che stavano blaterando riguardo alla malattia genetica.
Alla fine della conferenza attesi la mia amica fuori dall’aula magna, dalla quale ne uscì spalla a spalla con il professore De Martino. La chiamai e quando lei si voltò verso di me ogni dubbio svanì. Era proprio Jenny. La vidi dire all’uomo che accompagnava che l’avrebbe raggiunto subito, il tempo di spendere due parole con me. Si avvicinò e mi tremò la voce. Improvvisamente mi ricordai che non la vedevo dal giorno in cui mi presentai a casa sua per confessarle che ero io la ragazza di cui si era invaghito Christian e quindi il motivo per il quale la loro storia d’amore era finita.
«Cielo, Jenny, sei proprio tu, non ci posso credere!» dissi come in trance, lei allargò le braccia. Sembrava più grande di me di una decina d’anni, l’espressione seriosa la invecchiava, lo sguardo dolce si era indurito, sebbene il suo viso giovane fosse sempre lo stesso. Le labbra erano imbrattate di rossetto color mattone.
«Eccomi, in carne e ossa. Alla fine ci siamo incontrate» capì così che lei si era già accorta di me e che evidentemente aveva fatto particolare attenzione per non incrociarmi. Avrei voluto dirle tante cose, tutto quello che per anni era stato taciuto dentro me, ma si congedò con un glaciale «vado di fretta.» Eppure non mi arresi. Mi era già sfuggita una volta e non avrei permesso a nulla al mondo di farlo accadere ancora.
Per tutto il secondo anno universitario feci l’esatto contrario di ciò che aveva fatto lei: la pedinai come uno stalker. Ogni scusa era buona per porgerle domande inerenti agli esami da sostenere e che alla fine si trasformavano in curiosità personali: dove sei stata? Cosa hai fatto? Perché non ti sei fatta più sentire?
Un giorno litigammo con ferocia, ma ci servì per chiudere quel capitolo della nostra amicizia e iniziarne uno nuovo. Ero in mensa, il vassoio del pranzo fra le mani, quando la notai da lontano la raggiunsi. Senza neanche chiederle il permesso mi sedetti al suo stesso tavolo, proprio di fronte a lei, cominciando con una trafila di domande, fino a farla spazientire:
«Senti Viola, è inutile che continui a girarci intorno. Dimmi quello che devi e finiamola qui!» Esclamò, perciò presi la palla al balzo.
«Voglio tornare a essere tua amica» e li si scatenò il putiferio. La lasciai sfogare, mangiando foglie d’insalata e bevendo un succo alla pesca. Mi ringhiò contro che le avevo rovinato l’esistenza, che non era più la stessa persona che avevo conosciuto alle superiori – di questo me ne ero già resa conto da sola – e che non aveva alcuna intenzione di ridiventare mia amica, che tra di noi poteva esserci solo ed esclusivamente un rapporto universitario, perché costretto dall’evidenza, ma niente di più.
«Amavo Christian con tutte le mie forze e non ero veramente fidanzata con Willy.» Jenny sbatté le palpebre un paio di volte, non capiva. «Avevamo fatto finta di stare insieme solo per far ingelosire Cris che, tra l’altro, stava con te perché tuo zio avrebbe potuto farlo entrare nella squadra regionale. Ci volevamo entrambi, io e Christian, ma avevamo scambiato l’amicizia per amore. Ci siamo lasciati dopo appena due anni.»
«Sei una stronza Viola, lo sai?»
«Si, credo di si» e non sai tutta la storia di Will, pensai. «E ti dirò di più, mia cara: il biondo non ti dona, ti fa sembrare scialba, insignificante e vecchia.»
«Vaffanculo, Viola!»
Sorrise e tornammo a essere amiche.
Le voci che giravano su Jenny e il professore Andrea De Martino erano vere. Lei stessa non tentò neanche di nasconderlo quando glielo chiesi, mi guardò con i suoi occhi profondi e disse:
«Si, è vero, e allora? I ragazzi della nostra età sono tutti stupidi e superficiali e non ci sanno fare.»
«Ha quarant’anni più di te» le feci notare trattenendo a stento il disgusto di immaginare le mani del professore su di me. Era di sicuro un uomo attraente che teneva in modo maniacale al suo aspetto, con la barbetta curata e i capelli brizzolati sempre pettinati, ma restava un uomo di oltre mezzo secolo.
«Sono solo trentacinque» puntualizzò e le scoccai un’occhiata di biasimo, ma Jenny fece spallucce e con un gran sorriso ammise: «inoltre potrai ricavarne anche tu dei vantaggi da questa mia storia clandestina con il professore, ci hai pensato?»
No, non ci avevo pensato ovviamente, non ero una che cercava favori, avevo imparato da tempo a cavarmela da sola, in particolare dopo l’aggravarsi della malattia di mamma; in ogni caso Jenny non ebbe tutti i torti. Il professore De Martino, primario del reparto di ortopedia del policlinico del capoluogo, ebbe un ruolo fondamentale nella mia vita e nella carriera medica. Non avevo in mente di fare l’ortopedico, ma accettò di buon grado di aiutarmi a smaltire le ore di tirocinio che mi servivano per chiudere il terzo anno universitario, prendendomi sotto la sua ala protettrice e portandomi nel suo reparto. Era un persona taciturna, molto riflessiva e ben presto mi resi conto di quanto fosse venerato tra i suoi colleghi e pazienti.
In verità fu Jenny, l’anello che ci legava, a insistere affinché lavorassi con lui. Inizialmente avevo creduto che la mia amica si fosse data da fare per il semplice fatto che le avevo confessato di essere preoccupata a causa delle diverse ore di tirocinio che dovevo svolgere, ma che a qualsiasi dottore/professore lo avessi chiesto mi avevano risposto con garbo che non c’erano posti liberi per tirocinanti nei propri reparti. Così, in una grigia sera invernale, era giunta nella mia camera con l’euforia alle stelle: Andrea De Martino, il suo fidanzato, aveva accettato di darmi una mano a raggiungere le ore di tirocinio che mi mancavano. Sbuffando le dissi che odiavo ortopedia.
«Che t’importa! Non devi mica laurearti, si tratta solo di un mese» aveva risposto scacciando le mie parole con un gesto della mano. 
«Sono quasi sei ore al giorno.»
«Ti divertirai» mi aveva fatto l’occhiolino uscendo dalla stanza e lasciandomi imbambolata a fissare la porta che si era chiusa dietro.

Il giorno seguente mi presentai al ricevimento del professore, imbarazzata per la situazione che mi aveva portato lì, ma lui non si scomodò e con il suo fare impassibile, fissandomi da dietro una folta barba e attraverso occhi color ghiaccio, mi diede appuntamento alle otto e trenta del giorno dopo al terzo piano dell’ospedale, qui avrei dovuto chiedere di lui alle infermiere. Mi congedò con un cenno del capo e mi chiesi come avesse fatto Jenny a fare breccia nel suo cuore gelido, solo con il tempo avrei invece scoperto quanto fosse buono e altruista.
Quella notte dormii poco e male. Mi appisolai solamente mentre fuori iniziava ad albeggiare, sognando William che non vedevo da cinque anni circa. Ormai avevo smesso di pensare a lui da così tanto che la sua esistenza era diventata, a sua volta, una sorta di sogno, come qualcosa di impalpabile. Incorporeo.
La sveglia suonò alle 6.30, trovandomi stanca e nervosa. Jenny mi attendeva in cucina, aveva preparato la colazione, accogliendomi con un sorriso smagliante:
«Buongiorno!» esclamò con troppa enfasi, mentre io osservavo il tavolo colmo di vivande: fette biscottate, burro, marmellata, biscotti integrali, cornetti imbustati, succo di frutta all’ace (che detesto!), latte e caffè caldo.
«Ok, che succede?» Chiesi, accomodandomi con sospetto.
«Niente. Non posso preparati la colazione?» La guardai intensamente. «Davvero, proprio niente» si sedette di fronte a me e mangiammo insieme.
Quel “proprio niente” nascondeva un “proprio tutto”.


L’ospedale era enorme, caldo e sapeva di disinfettanti e alcool, di malattie e speranza. Tirai via i guanti di velluto e li riposi in borsa, insieme alla sciarpa e al cappello di lana. A dispetto dei 4°C che c’erano fuori, lì dentro sembravano i tropici. Feci le scale fino al terzo piano, leggendo la didascalia sulla porta: Rep. di Ortopedia.  
L’orologio appeso alla parete mi disse che ero in anticipo di un’ora almeno, ma citofonai ugualmente. Mi accolse un’infermiera bassa e tonda, quando mi presentai disse che il dottore era già in attesa. Nello spogliatoio indossai un camice bianco e trovando un solo armadietto vuoto ne approfittai per riporvi le mie cose.
Il professore De Martino era nel suo ufficio, alcune scartoffie e diverse radiografie  ricoprivano l’intera superficie della scrivania, nella mano destra teneva una tazza fumante di tè. Non feci neanche in tempo a studiare i vari attestati appesi alle pareti che immediatamente Andrea scattò in piedi, doveva sfiorare il metro e ottanta di altezza, il suo aspetto nordico e gli occhi color ghiaccio mettevano soggezione, ciò nonostante sembrava sollevato di vedermi; abbandonò la tazza sul suo piattino, afferrò una busta dal divanetto all’entrata e mi ordinò di seguirlo. Marciò davanti a me per quasi tutto il corridoio del reparto, tinto di verde acquamarina, parlandomi a raffica. Estrassi un taccuino dalla tasca e cominciai a prendere appunti:
«Seguirai un post-operatorio. Non è un caso difficile, lo è il paziente.»
«Ha subito una operazione grave?»
«Di routine» d’improvviso si fermò e per poco non gli finii addosso. Il numero sulla stanza ciatava 432. Lo guardai sospirare mentre prendeva dalla busta alcune radiografie. «Rottura del corno anteriore del menisco. Ho eseguito personalmente l’operazione più di una settimana fa, ma il paziente non si è ancora alzato dal letto e non ha cominciato alcuna riabilitazione…» si fermò, fissandomi intensamente.
«Una settimana fa? Ma il post operatorio prevede al massimo due o tre giorni di risposo» dissi, smettendo di prendere appunti.
«Infatti. Ha fatto i compiti a casa, signorina» sorrise. Allora compresi cosa avesse voluto dirmi pocanzi: non era un caso difficile, il paziente lo era.
«Il degente rifiuta le terapie?» Chiesi, conoscendo ormai la risposta.
«Se non riprende quanto prima a muovere il muscolo, rischia danni irreversibili e mi dispiacerebbe saperlo disabile a vita. Mi serve che lo convinca e che lo segua in questo difficile percorso» aveva bisogno di una babysitter in pratica. «Jenny mi ha assicurato che potevo fare affidamento su di lei. Venga, glielo presento.»
Il professore De Martino aprì la porta della camera dopo avervi picchiato contro le nocche un paio di volte, come fosse stato un codice segreto per annunciarsi. La stanza era in penombra, non riuscivo a vedere niente, a parte le sagome appena accennate del piccolo armadio, di una sedia pieghevole e del letto. L’aria era satura di odori forti, medicinali ma anche di muschio e stantio.
«Buongiorno!» esclamò il dottore con un tono di voce così allegro che faticai a riconoscere. «Dormito bene?» In tutta risposta udii solo un frusciare di coperte. De Martino si chinò a dirmi di tirare le tende e aprire un’anta della finestra. «Non si respira qui dentro» aggiunse, senza preoccuparsi che il paziente potesse sentirlo.
La debole luce del sole d’inverno entrò flaccida e spenta, illuminando la camera, dalla quale si aveva una splendida veduta sulla catena montuosa ricoperta di neve, ai cui piedi si estendeva l’intera città, in tutto il suo splendore. Il freddo mi colpì come un pugno in pieno viso, ma inspirai a fondo: non mi ero resa conto della mancanza d’aria fino a quel momento.
«Verdina!»
Quasi mi venne un colpo.
Era la voce di William quella che avevo sentito? Possibile che fosse proprio quella che credevo di aver dimenticato e che invece ricordavo ancora benissimo. E non era mutata neanche di mezzo tono.
Mi voltai a guardarlo, il cuore batteva così forte che pulsava fin nella gola. Era cambiato, ovviamente, eppure aleggiava nella sua espressione ancora quell’aria da furfante sedicenne e il suo intramontabile sorrisetto di scherno.
«Wi-Will?» balbettai.
«Per servirti, Cappuccetto.»

 
  
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