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Autore: Kim WinterNight    05/07/2018    2 recensioni
Scappare non è sempre simbolo di codardia. Ognuno di noi ha un motivo valido per cui vorrebbe scappare da qualcuno o qualcosa: chi per dimenticare, chi per liberare la mente, chi per accompagnare qualcun altro nella fuga, chi per uscire di casa, chi per volere di un'entità superiore...
Ma tutti, forse, lo facciamo per cercare un po' di libertà e per rendere noi stessi più forti e capaci di ricominciare a lottare.
DAL TESTO:
Una vacanza, ecco cosa mi serviva. Non riuscivo più a stare rinchiuso in casa, forse stavolta avevo esagerato. [...]
Notai una figura rannicchiata in fondo, in posizione fetale e con le braccia strette al corpo. Tremava vistosamente e teneva gli occhi serrati.
«Non vuole uscire di lì... non so più cosa fare» sospirò lei, portandosi una mano sulla fronte. [...]
«Non ti incazzare, amico. Ci tenevo solo a invitarti personalmente al mio matrimonio.»
Digrignai i denti e osservai, senza neanche vederli, gli automobilisti a bordo dei loro veicoli che mi superavano e mi evitavano per miracolo, per poi imprecare contro di me e schiacciare sul clacson con fare contrariato. [...]
«Avresti potuto chiedermelo, magari?» commentai, incrociando le braccia sul petto.
«Avresti rifiutato» si giustificò.
Genere: Comico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Daron Malakian, John Dolmayan, Nuovo personaggio, Serj Tankian, Shavo Odadjian
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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ReggaeFamily

Psychopath

[Daron]




Ci avevo riflettuto, ma non ci avevo riflettuto affatto.

Quando avevo letto il messaggio di Layla, la mia mente aveva immediatamente preso una decisione: sarei andato a quell'appuntamento, avrei provato a parlare con lei e a capire se tra noi fosse possibile creare un qualche rapporto. Certo, non sarei mai stato suo padre, ma se fossi riuscito a diventare quanto di più simile a una figura paterna per lei, mi sarei sentito meglio.

MI capitò di discutere della questione con Sako, la sera prima; eravamo usciti tra amici, e insieme ci eravamo recati fuori dal locale a fumare.

Era tardi perché qualcuno mi facesse cambiare idea, ma il tecnico della batteria non esitò a farmi sapere cosa pensava riguardo alla mia situazione.

«Daron, io non voglio fare il guastafeste. Tutta questa storia è una figata, certo, ma secondo me dovresti darci un taglio. Insomma, non mi pare il caso che tu giochi a fare il genitore con una ragazza che potrebbe benissimo essere la tua amante.»

Gli lanciai un'occhiataccia, sperando di aver capito male. «La mia amante?»

Sako scrollò le spalle. «Sì, hai capito. Quella lì non è più una bambina, l'ho vista. Che ne sai tu? Chissà quali sono le sue reali intenzioni... fratello, te lo dico perché a te ci tengo. Fa' attenzione. Lei ti ha fatto credere che sua madre volesse metterla contro di te, che lei volesse impedirvi di scoprire la verità... ma tu hai parlato con Dolly? Hai sentito la sua versione dei fatti?»

Quelli che Sako mi stava esponendo erano dei dubbi che mi erano venuti in mente miliardi di volte. Però lui non conosceva Dolly, non sapeva quanto lei potesse essere furba e quali fossero sempre stati i suoi interessi.

«Potrebbe essere che hai ragione, ma io non penso proprio che Layla sia così cattiva» replicai, per poi prendere una boccata di fumo.

«Ripeto: sta' attento, okay? Io e i ragazzi vorremmo evitare di raccogliere ancora una volta i tuoi cocci da sotto il divano» concluse, spegnendo la sua sigaretta sul bordo del marciapiede.

«Non sono più un poppante. Possibile che nessuno se ne sia accorto?»

Il mio amico mi guardò negli occhi. «Questo non c'entra niente. Nessuno di noi lo è, ma ciò non significa che non ci serva qualche consiglio ogni tanto» disse, per poi sorridermi appena.

Mentre rientravo nel locale, riflettei su ciò che Sako mi aveva detto: poteva avere ragione, ed era proprio per questo che volevo vedere Layla.

Avevo qualcosa in mente e decisi di metterla in pratica proprio il giorno seguente.


Mercoledì mattina, a mezzogiorno e venti, raggiunsi il nostro punto d'incontro. Ero in ritardo, neanche a dirlo, e avevo fatto una corsa folle per riuscire a raggiungere il Boulevard in tempi non troppo lunghi.

La strada brulicava di persone, gente di tutti i tipi e le etnie, tutti vestiti a caso o seminudi, come sempre succedeva a Los Angeles. Non mi sarei mai abituato a vedere tutti quei colori tutti insieme, a notare la diversità della razza umana racchiusa in pochi metri e schiacciata dal sole del mezzogiorno. Era uno spettacolo affascinante e raccapricciante insieme.

Qualcuno mi picchiettò sulla spalla e io mi voltai di scatto, timoroso che si trattasse di qualche fan rompiscatole.

Era Layla.

«Ah, sei tu! Ciao» esordii, tirando un sospiro di sollievo.

«Scusa, non volevo spaventarti. Allora sei venuto!» rispose, ritraendo in fretta la mano. Forse si era ricordata di quanto, la volta precedente, avessi detestato il suo continuo tocco su di me.

«Già. Ti va se andiamo a pranzo da Tigran e Alina?» le proposi. «Se non ti senti a tuo agio, fa' nulla. Magari ti va di andare in un fast food?» proseguii.

Lei ridacchiò. Solo in quel momento mi resi conto che era ben truccata, indossava un vestito azzurro che metteva in risalto le sue forme non troppo generose, e che ai piedi portava degli stivaletti neri e semplici con il tacco basso. Era carina, ma non l'avevo mai vista così curata. In genere era sempre stata molto semplice e quasi anonima.

«Daron, a me va benissimo se andiamo in quel ristorante armeno. Lo adoro! E oggi ho cercato di essere un po' più presentabile, non vorrei mai che quei bravi signori pensino che sono una stracciona o qualcosa del genere» si giustificò, accennando al suo aspetto.

Mi tornò in mente Sako. Se avesse visto com'era fatta Layla, probabilmente avrebbe capito che lei era ben diversa da sua madre. Dolly era sempre stata un'esibizionista, aveva sempre amato farsi guardare e stare al centro dell'attenzione. E io, ovviamente, ci ero cascato, così come ci era cascato Chuck e chissà quanti altri uomini. Aveva detto che mi amava ancora, e mai come in quel momento la sua confessione mi parve patetica e squallida. Non avrei mai potuto crederle.

«Okay, allora ci andiamo.»


Il pranzo fu tranquillo. Alina fu leggermente sorpresa di rivedermi in compagnia di quella ragazzina, ma fu molto dolce e gentile con lei.

Stavolta Layla riuscì a parlare un po' di più, e fu anche capace di non farsi intimorire dall'atteggiamento apparentemente burbero di Tigran.

Prima di lasciare il locale, feci tappa in bagno, ma fui braccato nel corridoio da Alina. Pareva mi stesse aspettando, e compresi che erano proprio quelle le sue intenzioni, quando parlò senza fare giri di parole.

«Daron, tu sei come un figlio per me, perciò ti parlerò come Zepur farebbe. Che intenzioni hai con quella bambina?» esordì in armeno, afferrandomi saldamente per le spalle.

«Non ho alcuna intenzione con Layla. Non è come credi» mi difesi, tentando di divincolarmi. Anche la sua stretta, così come il suo tono di voce, risultò piuttosto accusatoria e colma di preoccupazione.

«Allora com'è? Dimmelo.»

«Quella ragazza... sua madre l'ha convinta di essere mia figlia. Mi ha cercato mentre ero in Giamaica, ha smosso mari e monti per trovarmi, perché credeva davvero fosse così. Ma abbiamo fatto il test del DNA: Layla non è mia figlia.»

Alina si portò le mani alle tempie e mi lasciò andare. «Zepur lo sa?»

«No! Non lo sa e per ora non deve saperlo» chiarii in inglese.

«Neanche Vartan, immagino» commentò la donna di fronte a me, senza cambiare lingua.

«No, neanche lui» confermai, smettendo del tutto di assecondarla.

Alina sospirò e lasciò che le braccia le ricadessero lungo i fianchi ponderosi. «Be', figliolo, posso solo dirti che devi stare attento. Quella ragazza sembra a posto, ma non combinare guai. Ci siamo intesi, vero?»

Sbuffai e sollevai gli occhi al cielo. «Scusami tanto, ma non ho più otto anni! So come comportarmi, e non ho intenzione di approfittarmi di lei, se è questo che pensi. Pensavo avessi una considerazione più alta di me» sbottai.

«Andiamo, adesso non fare la vittima e ascoltami. La carne è debole, lo sai anche tu. Non vorrei mai che questa strana amicizia tra voi si trasformi in qualcos'altro.»

Inorridii e feci un passo indietro. «Cosa?»

«Lo so che forse ti ferisco, ma devo metterti in guardia. Sai che sono sempre stata sincera con te e con la tua famiglia. È per questo che ci vogliamo bene e ci stimiamo da una vita» chiarì Alina senza scomporsi troppo, addolcendo un poco il tono di voce.

«Io non riesco neanche a immaginare di... oddio, no!» balbettai, per poi darle le spalle e tornare di corsa in sala.

Raggiunsi in fretta e furia il tavolo basso a cui Layla era seduta, lasciai cadere cinquanta dollari sul ripiano e trascinai velocemente la ragazza fuori di lì.

Non potevo davvero credere che qualcuno pensasse certe cose di me. Ero veramente così orribile? Davo seriamente l'impressione di essere un malato di sesso pronto ad accoppiarsi anche con una minorenne?

«Daron, che fai? Che succede?» strillava Layla, mentre la tenevo saldamente per un polso e la portavo verso la mia auto.

«Andiamo, poi ti spiego» grugnii.

«Sembra che tu abbia visto un fantasma! Cazzo, ti vuoi fermare? Dimmi cosa è successo! Adesso!» gridò, riuscendo ad arrestare la mia corsa con determinazione.

Mi voltai a fronteggiarla e la trovai spaesata, impaurita e incazzata, oltre che confusa.

«Sei fuggito come un ladro! Si può sapere il motivo?» proseguì con fermezza Layla, senza muoversi di un millimetro.

«Alina mi ha accusato di essere un pedofilo e di volermi approfittare di te!» abbaiai, riprendendo a marciare verso il parcheggio, senza neanche preoccuparmi di trascinarmela dietro.

«Cosa? Come? Sicuramente hai capito male, lei non mi sembra una persona così meschina! Daron, aspetta!»

Sapevo che aveva ragione, sapevo che Alina non mi aveva propriamente accusato, ma le sue parole mi avevano ferito e sconvolto talmente tanto che non ero più riuscito a stare lì dentro.

«Daron! Dannazione, fermati!»

Raggiunsi la mia auto e mi lanciai letteralmente al posto di guida, sbattendo furiosamente il mio sportello. Ero deluso e incazzato, perché se Alina aveva detto quelle cose, evidentemente ero stato io a fargliele credere. Forse con azioni compiute in passato, però sicuramente mi aveva messo in guardia molte volte da situazioni pericolose in cui mi aveva trovato. Mi conosceva bene e sapeva che amavo spassarmela con le ragazze, su questo non c'erano dubbi.

Ma Layla ancora non aveva compiuto diciotto anni, e poi era diversa. Ero quasi stato convinto che fosse mia figlia, mi disgustava l'idea di fare sesso con lei. Mi sarei sentito sporco, e in ogni caso avevo avuto una relazione con sua madre!

Non ero un porco, non fino a questi livelli. Mi presi la testa tra le mani per evitare di sbatterla contro il volante.

Layla salì a bordo e mi appoggiò cautamente una mano sulla spalla. «Daron, mi fai paura» mormorò.

«Scusa, ma... cazzo, scusa! Ho rovinato tutto.» Mi scrollai la sua mano di dosso e misi in moto. «Ti riporto a casa. Dimmi dove abiti.»

«Ma mia madre potrebbe...»

La inchiodai con lo sguardo. «Me ne fotto. Dimmi dove abiti.»

Layla abbassò il capo e mi comunicò il suo indirizzo.

Capii più o meno dove dirigermi e presi a guidare in silenzio, senza neanche pensare di accendere l'autoradio. Ero furioso e fui grato a Layla perché evitò di aprir bocca, immergendosi semplicemente nei suoi pensieri con lo sguardo fuori dal finestrino.

Giungemmo a destinazione circa tre quarti d'ora più tardi; avevamo trovato un po' di traffico e la Freeway 101 aveva rallentato parecchio il nostro viaggio a causa di un incidente.

Spensi il motore e rimasi immobile a fissare la casa bianca e anonima in cui abitavano Dolly e sua figlia.

«Layla, mi dispiace di aver sbottato così» fu tutto ciò che riuscii a dire, sentendomi un vero e proprio idiota.

«Okay, va bene, non importa» sussurrò.

«A me importa. Ti ho spaventato.» Allungai una mano per afferrare la sua, poi ci ripensai e me la portai dietro l'orecchio destro. «Ti chiedo scusa.»

«Davvero, va tutto bene» ripeté lei, per poi sollevare il capo e sorridermi debolmente.

Stavo per aggiungere qualcosa, quando improvvisamente udii un tonfo secco provenire dall'esterno dell'auto.

Poi cominciarono le urla.


«Mamma?»

«Scendi immediatamente da quella macchina, Layla, immediatamente

«Smettila di strillare, per favore...»

«No, razza di cretina senza cervello! Scendi da questa cazzo di macchina, adesso!»

«Mamma, ma ti sei drogata? No, non mi muovo di qui! E piantala di urlare!»

Assistevo alla scena, pietrificato. Dolly bussava con forza contro il finestrino sigillato della mia auto, inveendo con gli occhi spiritati puntati alternativamente su Layla e su di me. La ragazza la fissava senza darle troppa importanza, cercando di farla smettere di fare la pazza.

«Tu! Sei uno stronzo! Non sei suo padre, ora lo sai, no? Quindi ti vieto categoricamente di importunare mia figlia! Sei un maniaco, Daron Malakian! Prima ti sei approfittato di me, ora vuoi farlo anche con la mia bambina!» continuò a gridare Dolly, battendo i pugni sul finestrino.

Se avesse continuato di questo passo, prima o poi si sarebbe rotto e lei si sarebbe ferita, finendo per fare del male anche a noi due.

«Dolly, cosa stai dicendo?» biascicai confuso.

Dolly si rese conto che non aveva ancora provato ad aprire lo sportello, così pose subito rimedio e lo spalancò con foga, afferrando sua figlia per le braccia. «Scendi subito, hai capito? Andiamo, vai dentro! E se scopro che vedi ancora una volta questo depravato, ti spedisco da tua zia in Florida!»

«Mamma, il mese prossimo compio diciotto anni. Sei ridicola!» replicò Layla, mentre veniva sbalzata fuori dall'auto.

Rabbrividii. Avevo davvero frequentato quella psicopatica in passato? Mi domandai pigramente perché questi casi umani finivano sempre tra le mie braccia e nel mio cuore. Ero un caso perso, non avevo speranze di trovare qualcuno di normale da poter frequentare e amare.

«Per adesso hai ancora diciassette anni, Layla! Vai dentro e non provare a uscire di casa finché questo qui non se ne sarà andato! Chiaro?» sbraitò ancora Dolly, spingendo con malagrazia sua figlia verso l'ingresso.

La sua voce stridula continuò a rimbombare per la strada deserta.

Decisi di squagliarmela, ero stanco di sentire i suoi strilli acuti e insensati. Stavo per ripartire, quando la psicopatica tornò all'attacco. Fece il giro dell'auto e spalancò anche il mio sportello.

«Allora? Che cosa credevi di fare, eh? Con mia figlia!» strepitò, afferrandomi per un polso.

«Dolly, calmati. E lasciami andare, subito» dissi in tono piatto, mentre dentro me montava la rabbia.

«No!» Lei si sedette di slancio sulle mie ginocchia e si premette contro il mio corpo, inchiodandomi sul sedile. «No, tu devi capire che io non permetterò mai a quella sgualdrina di stare con te. Io ti amo e te l'ho già detto, perché non vuoi capirlo? Perché non ti rendi conto che per te è lo stesso?»

Cominciai a vedere tutto rosso e scattai come una molla. Con una forza che non ricordavo di avere, la spintonai fuori dall'auto e lei finì per terra, mentre io saltavo fuori e mi allontanavo da lei di alcuni metri.

«Non. Provarci. Mai. Più.» Avevo scandito ogni singola parola e la fissavo con ira, sentendo le mie mani e tutto il mio corpo tremare incontrollabilmente.

«Daron... non ti riconosco più...» biascicò, con le lacrime agli occhi.

«Nemmeno io. Sei una psicopatica, fatti curare. Io me ne vado, e spero di non rivederti mai più.» Tornai a sedermi in macchina, mentre lei si rialzava a fatica. «Ah, e sai una cosa? Tua figlia farà ciò che si sentirà di fare. Non puoi impedirglielo per sempre. Tra un mese compirà diciotto anni, quindi ti consiglio di fartene una ragione. E di andare da uno psichiatra» conclusi, poi sbattei lo sportello e mi allungai per richiudere anche quello dalla parte del passeggero.

Misi in moto e me ne andai di tutta fretta, lasciando Dolly a leccarsi le ferite e a cercare di riemergere dalle sue sabbie mobili di frustrazione.

Non vedevo l'ora di farmi una doccia e lavare via l'odore disgustoso e nauseabondo che mi aveva messo addosso.


«Daron?»

Me ne stavo così, accucciato, tranquillo. Stavo bene. E non volevo parlare con nessuno.

«Daron? Dove ti sei cacciato?»

La voce di Angela era colma di apprensione, come sempre. Era una brava persona, lei, Serj era stato fottutamente fortunato.

«Daron?!»

Angela si chinò e mi vide. I nostri occhi si incrociarono, i suoi inondati di luce e i miei di oscurità.

«L'hai trovato?» tuonò Serj dalla cucina.

«Sì» mormorò lei. «È sotto il divano.»

«Merda! E adesso come facciamo? Ti risponde?»

«No, non mi risponde» rispose Angela in tono rassegnato.

Non riuscivo a capire perché fossero tanto preoccupati. Io stavo bene, volevo solo rimanermene per i fatti miei, sotto quel divano così buio e accogliente.

«John saprebbe come fare, ma lui è a Las Vegas ora» gracchiò il cantante, entrando di corsa in salotto.

«Non avresti dovuto lasciarlo solo! Era in condizioni pietose quando è arrivato qui» sussurrò Angela.

«Vuoi dire che è colpa mia?» si rivoltò Serj.

«No, ma... oh, andiamo. Okay, non ha senso litigare ora, scusami. Come facciamo?»

Serj tacque.

Io intanto fissavo la luce che inondava la stanza fuori dal mio nascondiglio. Mi rannicchiai meglio contro la parete alle mie spalle. Quella luce faceva paura.

«Daron, per l'amor del cielo! Mi vuoi dire cosa è successo?» domandò Serj in preda all'esasperazione, chinandosi di fronte al divano per potermi guardare.

Non aprii bocca. Non avevo voglia di rispondergli, non riuscivo a farlo.

«Sarà stata una brutta giornata per lui» suppose Angela, cercando di essere ragionevole.

Eccome se lo era stata. Una giornata di merda, di quelle con i fiocchi. Ma non ero in grado di confermare i suoi sospetti, né di raccontarle cosa fosse capitato.

Mi tornò in mente il giorno in cui mi era stato proposto di partire per la Giamaica. Anche quel giorno mi ero nascosto sotto il divano, ma poi era arrivato John e mi aveva convinto a uscire di lì. Non so come avesse fatto, io non mi sarei mosso per niente al mondo.

E allora capii che non mi era servito a niente quel viaggio. Io tornavo sempre punto e a capo, sempre al punto di partenza, senza mai cambiare e risolvere niente.

Ecco perché volevo stare sotto il divano.

Anche io ero uno psicopatico come Dolly.

«Daron, mi senti? Ti prego, esci di lì» mi scongiurò Serj.

Quando ero fuggito da casa di Dolly, non avevo minimamente pensato di tornare a casa mia. Là non avevo un divano come quello, non avevo un rifugio sicuro in cui rintanarmi. Così ero corso da Serj e Angela, sapendo che da loro mi sarei sentito protetto da quell'oscurità.

«Se non esci tu, io e Serj spostiamo il divano» decise Angela.

Qualche lacrima scorse lungo il mio viso. Mi volevano strappare alla mia tana, era ingiusto.

«Giusto!» saltò su Serj. «Ci piacerebbe molto chiamare John e farti venir fuori con le buone, ma stavolta non sarà possibile. Mi dispiace» proseguì il cantante.

Io non riuscii a replicare. Non fui capace di protestare né di muovermi. Ero nel panico più totale, ora ne ero consapevole, così come ero consapevole di non sapere assolutamente come uscirne.

Trascorsero alcuni minuti, durante i quali marito e moglie proseguirono a discutere sotto voce sul da farsi. Neanche li ascoltavo, non capivo le loro parole.

D'improvviso fui invaso da una luce abbagliante che mi ferì gli occhi. Serj e Angela avevano sollevato di peso il divano e lo stavano portando al centro della stanza.

Sbattei le palpebre e cominciai a piangere senza controllo. Mi portai le mani al viso e mi coprii gli occhi, invaso da singhiozzi che mi scuotevano fin nel profondo.

Dopo un po' mi sentii abbracciare e mi lasciai andare contro la spalla di Serj, il quale mi tenne stretto contro il petto, sdraiato sul pavimento accanto a me.

«Andrà tutto bene» continuava a ripetere, mentre Angela si muoveva per la stanza.

«Serj... sono un fallimento totale...» farfugliai, tirando su con il naso.

«Non lo sei. Sei forte, sei una persona fantastica e hai un sacco di persone che ti vogliono bene al tuo fianco. Supererai anche questa, qualunque cosa sia» mi rassicurò il mio amico, accarezzandomi piano la schiena.

«Non so come fare» mormorai.

«Potresti parlare con qualcuno. Dei tuoi problemi, dei tuoi attacchi di panico, di tutto quanto» mi consigliò Serj. «So che non sei tanto amante degli psicologi, ma ti assicuro che se ne trovi uno competente, ti aiuterà. E non ti darà delle medicine, Daron. Non devi andare da uno psichiatra, e se qualcuno ti prescrivesse dei farmaci, sei libero di non prenderli. Puoi reagire con le tue forze, te lo assicuro. Ti conosco e lo so.»

Avevo avuto un crollo e lo sapevo, così come ero certo che Serj avesse ragione. Forse dovevo davvero farmi aiutare, forse mi sarebbe servito per risollevarmi e riprendere del tutto in mano la mia vita.

Annuii piano e mi scostai da lui. «Sì» dissi soltanto.

«Dai, mettiti seduto e bevi un po' d'acqua» mi esortò Angela, porgendomi un bicchiere pieno.

Obbedii e lasciai che Serj mi aiutasse a sollevarmi. Bevvi avidamente tutta l'acqua contenuta nel bicchiere e lo restituii ad Angela con un sorriso riconoscente.

«Te ne porto dell'altra» affermò lei, per poi farmi l'occhiolino.

«Dai, siediti sul divano. Vieni.»

Io e Serj ci accomodammo sui cuscini morbidi e sospirammo all'unisono.

«Ce la farai, e non sei solo, lo sai» ripeté il mio amico con un lieve sorriso sulle labbra.

«Grazie» mormorai.

Ero convinto che avesse ragione. Avrei fatto di tutto per riprendermi. C'erano tanti progetti in ballo, tante cose che avrei voluto fare e che sapevo di dover fare.

Forse solo ora avevo capito che era giunto il momento di risalire, di dare un calcio in culo al passato e vivere il presente.

Non avrei più permesso a una Jessica qualunque di umiliarmi, né a una Dolly qualsiasi di farmi sentire un coglione.

Avrei lottato per il mio rapporto con Layla e per salvare tutto ciò che di bello c'era nella mia vita.

Sorrisi a Serj. «Facciamoci una birra, ti va?» gli proposi.

Lui scoppiò a ridere e mi circondò le spalle con un braccio. «Ti voglio bene, fratello» ammise.

«Anche io» risposi sincero.

  
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