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Autore: yonoi    06/07/2018    4 recensioni
Nel braccio della morte, denominato il quartiere delle nebbie, un detenuto è in attesa della sua ultima ora. Nella sua solitudine, e mentre il suo tempo si fa più breve, potrà contare su un'unica vera amicizia.
Seconda classificata pari merito al contest "Raggio di Luna" indetto da Mystery Koopa sul Forum di EFP
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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“Buonanotte, buonanotte!
Separarsi è un sì dolce dolore,
che dirò buonanotte finché non sarà mattino”
(W. Shakespeare, “Romeo e Giulietta”)

2. Alle spalle e di fronte mi circondi

 
            -“Voglio che sia lei ad assistermi”- quella richiesta era piovuta inaspettata sulla testa di Thiene. Questi si era attardato nella cella di Roseland che verificare se il condannato, che gli era parso particolarmente disorientato, avesse qualche necessità da soddisfare. A mo’ di risarcimento per quello che gli era piovuto così, tra capo e collo, aveva pensato l’agente. In realtà, pur non sapendo bene che cosa dire o fare, non si sentiva in animo di lasciarlo da solo.
            Dopo un momento trascorso con gli occhi persi nel vuoto, Roseland gli aveva riconsegnato il modulo per la richiesta dell’ultimo pasto:
            -“Dica pure al direttore che mi rincresce, ma questo non m’interessa. M’interessa piuttosto che lei resti con me”-
            Viso pallido Thiene aveva provato a sottrarsi: in quel periodo, aveva già la sua parte di grane da affrontare. Durante gli ultimi mesi si era sottoposto ad alcuni accertamenti, dopo aver cominciato a calare di peso e ad avvertire un continuo senso di nausea: sarà questo posto malefico, s’era detto all’inizio, l’odore di marciume che si avvertiva ovunque per via dei canali aperti e delle paludi simili a vecchie piaghe guaste; il tanfo delle celle e dei luoghi comuni dove si mescolavano il cloro dei detersivi, il sudore stantio dei luoghi troppo affollati, l’odore fritto di patatine e ciambelle portate dai parenti; la merda dei bambini che nella sala visite, nel vedere le sbarre, i ceppi e le porte blindate che si chiudevano con tonfi da apocalisse, cominciavano a piangere e se la facevano addosso.
            Fatto sta che la nausea non lo abbandonava mai, e spesso dopo i pasti si trasformava in attacchi di vomito convulso. Quando aveva iniziato a buttar fuori scariche di feci collose, nere come la morte e che puzzavano di marcio, s’era deciso a effettuare una visita di controllo. La diagnosi formulata in esito a una gastroscopia che l’aveva ridotto come un maiale appeso al gancio del macellaio, era stata senza scampo: carcinoma allo stomaco, per di più in fase avanzata.
            Non aveva avuto il tempo di farsi prendere dal panico: con un autocontrollo che non avrebbe mai immaginato di possedere, e che forse gli veniva dalla disperazione, aveva continuato i suoi turni di guardia al quartiere delle nebbie, per tenere la mente occupata; mentre il suo tempo libero era interamente dedicato a verificare, attraverso ulteriori esami, aspetto e caratteristiche, più eventuali metastasi, di quell’infiorescenza che, negli scatti in sequenza della risonanza magnetica, assomigliava a certi boccioli gonfi e viscosi, dall’alito nauseabondo, che crescevano lungo i canali attorno al penitenziario. Aveva trentadue anni, viso pallido Thiene, e gli parevano troppo pochi per tirare i remi in barca - o il famoso sciacquone - e finire in una cassa coi pomelli truccati e il suo abito migliore. Erano pochi anche i quarant’anni di Roseland, fatte le debite differenze, e ammesso che esistesse un’età giusta per stendere le gambe su un’imbottitura di raso.
            Sapeva, viso pallido, che da vecchi i tumori avanzano più lenti, come certi nonni che camminano col bastone, stando bene attenti a dove mettono i piedi. Sapeva che l’età avanzata, insieme a un po’ di fortuna, poteva tornare a favore dei condannati: in almeno due casi documentati - per la verità Thiene ne aveva sentito parlare solo al telegiornale - l’esecuzione era stata tramutata in ergastolo, perché a forza di rinvii, richieste di sospensione, elezioni politiche, le candeline sulla torta dei condannati erano cresciute al punto che pareva ridicolo, e ormai fuori tempo massimo, spedire sul lettino uomini di ottant’anni.
            Quello non era certamente il caso di Roseland, e per altri versi nemmeno il suo: i delitti per cui Roseland doveva pagare pegno erano tra i più odiosi, ed era nell’età giusta per non fare pena a nessuno; quanto a lui, la casistica medica non concedeva sconti: a trentadue anni, le cellule cancerogene volano in battaglione come caccia da guerra, usando la neoformazione primitiva come avamposto e il circolo sanguigno come pista di lancio. Già in esito alla Tac che aveva scannerizzato ogni piega del suo organismo, dalla punta dei capelli alle unghie dei piedi, erano emersi almeno altri due secondarismi: un bocciolo nel fegato, un’altra infiorescenza maligna nell’intestino.
            Il volo dei caccia aveva sortito il suo esito, e il prato dei fiori marci si stava allargando: anche se le dimensioni delle piante novelle, avevano detto i medici, erano così ridotte da giustificare l’intervento chirurgico, seguito da almeno un ciclo di chemioterapia a base di diserbante per togliere di mezzo le nuove erbacce infestanti.
            La data dell’intervento era stata fissata per il lunedì successivo: quella mattina, alle ore sette e trenta precise, sarebbe toccato a lui stendersi su un lettino, anche se per altre ragioni.
            Quello che viso pallido sentiva di avere in comune con Roseland, in quel momento, erano l’incertezza, la paura, lo smarrimento. Per questo, e anche perché occuparsi delle grane degli altri poteva ben fornirgli un motivo di distrazione, quel tanto che bastava ad arrivare a lunedì senza spararsi in testa con la pistola d’ordinanza, il sergente decise di accogliere la richiesta di Roseland: e vivere insieme a lui l’ultima settimana e le ultime ventiquattr’ore.
            L’ultima doccia e l’ultimo pasto, che nonostante il rifiuto a un trattamento speciale gli sarebbe stato somministrato ugualmente, sotto forma del vitto ordinario del carcere. L’ultima visita ammesso che ci fosse qualcuno disposto a incontrarlo, l’ultima telefonata. Infine, l’ultima notte. Era tutto ultimo, ormai, quello che riguardava il condannato Roseland, che dopo un po’ aveva smesso di guardare nel vuoto, e con la mano aveva cercato la branda:
            -“Mi scusi se mi siedo”- aveva detto, accasciandosi -“non mi sento molto bene”-
            S’era lasciato andare con la testa tra le mani, e Thiene aveva pensato che se c’era un momento adatto per togliere il disturbo, ovvero filarsela - mi spiace, non me la sento, avviserò il cappellano - sicuramente era quello. Poteva anche uscire dalla cella senz’altro: Roseland non era certo né nella posizione né nello stato d’animo per richiamarlo indietro.
            Invece, volle restare. Si sedette al suo fianco, sulla branda da mezza piazza saldata al pavimento, e per poco non gli mise la mano sulla spalla. Forse rassicurato da quella semplice presenza, l’altro si stese con le braccia sotto alla testa, lo sguardo sempre perso a fissare qualcosa che vedeva soltanto lui: molto probabilmente, un’anteprima esclusiva di quanto sarebbe accaduto sabato undici giugno.
            Seduto sul bordo del letto, Thiene si strinse le sopracciglia tra le due dita. Prese quasi la stessa identica posizione che Roseland aveva assunto fino a un attimo prima: le gambe divaricate, i gomiti sulle ginocchia, in mezzo l’impotenza. Gli mancava soltanto la testa tra le mani, e magari aveva anche le sue buone ragioni per concedersi un po’ di disperazione, ma non gli sembrava né il momento né il caso: per rispetto al detenuto che, questo era sicuro, se ne sarebbe andato molto prima di lui. O forse, non tanto prima.
            Alle diciotto in punto era arrivato il vassoio della cena. L’incaricato della distribuzione l’aveva fatto passare attraverso l’apposita buca, e attraverso lo spioncino aveva buttato dentro un’occhiata circospetta. Dopo un poco era arrivato un altro poliziotto, con le mostrine più grandi di quelle di Thiene:
            -“Che ci fa lì, sergente? Lo sa che non è consentito trattenersi nelle celle. Da soli, per di più”-
            Roseland e Thiene avevano sollevato il capo quasi contemporaneamente:
            -“Io sono qui in veste di assistente del detenuto”- una volta fissata la data delle esecuzioni, la parola condannato spariva automaticamente dal vocabolario di Thiene. Sapeva che una volta stabiliti il giorno e l’ora, quella parola assumeva un  significato tutto particolare, e non ci teneva a ricordarlo a Roseland ad ogni piè sospinto.
            -“Anche se è il suo assistente, lei non può rimanere da solo nella cella. Il protocollo parla chiaro, potete parlare quanto volete, ma lei deve restare fuori da questa porta e utilizzare buca e spioncino. Si ricordi di Finnian”-
            Finnian, un altro nome che si era perduto per quella valle di canali e paludi sotto forma di ceneri - quella volta su espressa richiesta dei familiari - era stato un detenuto di origini irlandesi con il cervello inversamente proporzionale alla mole: un omicida plurimo grosso come una montagna e coi neuroni di un ciottolo. Goloso di lecca-lecca, che mandava puntualmente a comprare allo spaccio, era riuscito a suscitare la pena e l’amicizia di un poliziotto giovane, un certo Harry Truman, parente di nessuno ma nuovo nell’istituto. Truman, di poco superiore in intelligenza e con un quoziente di prudenza pari a zero, gli comperava di tasca sua i lecca-lecca, li succhiavano insieme, si succhiavano anche reciproche confidenze. Finché un giorno qualcosa era scattato nella mente di Finnian, forse per colpa di un lecca-lecca non di suo gusto: senza dire una parola, e prima che il poliziotto avesse il tempo di aprir bocca a sua volta, il massiccio irlandese aveva preso Truman e gli aveva torto il collo come uno straccio da stendere.
            Erano seguiti guai a non finire per l’ormai ex direttore del carcere, ritenuto responsabile di tutta la faccenda sia nei confronti dei familiari della vittima, che l’avevano spolpato fino all’ultimo dollaro tramite i loro avvocati, sia nei confronti delle autorità statali, che a loro volta avevano rosicchiato fino all’osso quel poco che era rimasto.
            Solamente per Finnian le cose non erano cambiate più di tanto: la data già fissata per la sua esecuzione era stata anticipata, e durante l’ultimo pasto, consumato allo Chalet e guardato a vista da un intero distaccamento di agenti, aveva divorato quaranta lecca-lecca, tutti fortunatamente al gusto di ciliegia.
            Da allora, al quartiere delle nebbie era entrata in vigore la nuova procedura, secondo cui neanche a una mosca era permesso trattenersi nelle celle dei condannati: sicché Roseland e Thiene dovettero iniziare la loro partita a carte del dopocena attraverso la buca. E di là avrebbero continuato a parlarsi fino al venerdì seguente.
******
           
Avevano continuato a giocare senza dir niente quasi fino alle undici, quando già le luci nel corridoio si erano abbassate ed era entrata in funzione la placca fosforescente sopra alla porta.
            Thiene, che era in piedi dalle sei del mattino, cominciava già a ciondolare dal sonno, a differenza di Roseland, tenuto sveglio dall’ansia. Intorno, c’era quel genere di silenzio capace di amplificare il terrore alla massima potenza, ma anche in grado di favorire le confidenze.
            Di certo ci fu che Roseland, poco prima di iniziare l’ennesima partita, invece delle carte infilò nella buca quattro dita di un mano, cercando la presa dell’altro in preda a un tremito incontrollato. Thiene si ridestò come da un sogno e realizzò al volo quella richiesta muta, prendendo quelle dita gelide tra le sue: a contatto con il calore del suo palmo, le dita di Roseland iniziarono a scaldarsi, e infine cessò anche il tremito. Adesso, però, gli tremava la voce:
            -“Sergente, ho paura”- riuscì a dire, soltanto.
            Nel corridoio basso e privo di ricambio l’aria era soffocante, e per la foschia che proveniva dalla palude si aveva l’impressione di muoversi a nuoto, come in un acquario: ma fu in quel momento che viso pallido Thiene iniziò a sudare sul serio.
             -“Di cosa ha paura, Roseland?”- provò a domandare.        
            -“Ho paura del dopo. Cosa succederà dopo”-          
             Di fronte al condannato si sentiva disarmato, incapace di dare delle risposte sensate.
            Ma forse chiunque, al suo posto, avrebbe sperimentato la stessa sensazione, persino il cappellano. Cercò di farsi coraggio: 
            -“Intende dire dopo la morte?”-
            -“Spero che Dio lo sappia, che non ho fatto niente”-
            Thiene non era credente, ma si aggrappò a quell’idea, che evidentemente era importante per Roseland, al solo fine di cavarsi d’impaccio:
            -“Dicono che Dio sia buono”-
            -“Spero che non la pensi come quelli della giuria”-
            Brancolando nel buio, viso pallido cercava di rispolverare le nozioni di catechismo, ma quel che ricordava gli sembrò troppo pieno d’inferni e di diavoli per fare al caso suo.
            D’un tratto gli tornarono in mente le lezioni del suo insegnante di letteratura del college. Di lui si diceva che gli mancasse qualche rotella, perché interpretava la poesia a modo suo, infilando Dio dappertutto: eppure tutti erano rimasti impressionati quando, alla fine del corso, aveva salutato i ragazzi e la scuola, ed era entrato in un monastero trappista sperduto tra le montagne, a lavorare i campi e pregare anche di notte, senza computer né televisione.
            Dopo di lui, altri cinque ragazzi della sua classe si erano sentiti chiamati alla stessa scelta: tre suore di clausura e due benedettini, felici come pasque.
            Per Thiene, a quel tempo l’amore coincideva più o meno con lo spasso del sabato sera sui sedili reclinabili dell’auto di suo padre. Persino lui, tuttavia, aveva dovuto prenderne atto: nelle parole di quell’uomo era impressa un’imponderabile forza.
            -“Roseland, le dispiace se la lascio per qualche minuto?”-
            In cappella aveva recuperato una Bibbia, nella piccola biblioteca una vecchia dispensa tenuta insieme a stento da un dito di polvere e macchie di caffè, vecchie ditate d’unto, altre chiazze di materiale non meglio identificabile: dentro, stampata su due colonne con caratteri d’altri tempi, quell’opera che al college aveva suscitato conversioni a catena, i Sonetti di Shakespeare.
            Si era seduto al suo posto dietro alla buca, sulla vecchia pieghevole che cigolava a ogni movimento, e quello scricchiolio era l’unico rumore che si udiva nel corridoio dalle luci schermate.       A mezza voce, aveva iniziato a leggere.
            -“Sei tu la parte migliore di me stesso, il limpido specchio dei miei occhi, il profondo del cuore, il nutrimento, la fortuna, l’effetto di ogni mia speranza, il solo cielo della mia terra, il paradiso a cui aspiro… vede, Roseland, secondo il mio insegnante del college, questo è esattamente ciò che Dio pensa degli uomini. Qualcosa di molto diverso da quello che la gente può pensare di noi. Ed è sicuramente vero, perché…”- qui cominciò a sfogliare affannosamente la Bibbia -…“Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre. Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio. Ha sentito, Roseland? Un prodigio. Tu mi conosci fino in fondo, perché non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, ricamato nelle profondità della terra”-
            Le dita di Roseland, che Thiene aveva ripreso e continuava a stringere mentre con l’altra mano sfogliava febbrilmente volume e dispensa, si erano fatte calde. Da dietro alla feritoia della buca, nella fosforescenza della luce notturna, gli occhi chiari di Roseland lo seguivano attenti.
            Il sergente si fermò il tempo necessario a reprimere un conato: un dolore bruciante, improvviso, allo stomaco, gli toglieva fiato e parole. Si piegò un solo istante, poi si sforzò di continuare:
            -“Lei è cristiano, Roseland? Vede, queste parole…”- la frase gli morì in un accesso di tosse.
            -“Sono cristiano, Thiene. Però lei non sta bene. Vada un po’ a riposare”-
            Adesso era Roseland a stringere il sergente:
            -“Vada via, per favore”-
            Mentre Thiene si alzava, convinto più che mai di aver fatto un buco nell’acqua, l’altro gli trattenne la mano, il tempo di un breve istante: adesso era viso pallido a essere ghiacciato, immerso in un sudore che scorreva da ogni parte, come quando si esce dalla doccia dopo aver dimenticato l’asciugamano:
            -“Grazie per il suo tempo, sergente, e per le sue parole. Si ricordi che valgono per me, ma anche per lei”-

 
******
           
Il venerdì successivo, nel tardo pomeriggio, Roseland era stato trasferito allo Chalet con uno trasporto speciale, scortato da tre agenti più due auto di servizio: la prima incaricata di precedere il furgone, la seconda che lo seguiva a brevissima distanza.
            Le regole previste dal protocollo erano rigidissime: il trasporto era il momento più delicato, praticamente l’ultima occasione che aveva il condannato per tentare di evadere, sempre ammesso che là fuori ci fosse un complice disposto a dargli una mano. Era anche l’ultima occasione per dare un’occhiata al mondo: per vedere i salici bassi che pendevano sulle chiazze ferme degli acquitrini, cogliere in volo uno stormo di uccelli o un duetto di farfalle intente a scambiarsi i complimenti, levandosi da quei boccioli dal fiato puzzolente che crescevano a capo chino lungo i canali.
            Tutte cose scontate per chi, a differenza di Roseland, aveva ancora tempo da dedicare alla contemplazione di una natura morta.        Una volta arrivato allo Chalet, il condannato non avrebbe mai più rivisto la luce del giorno.
            Impacciato dai ceppi fissati a mani e piedi, Roseland entrò nel cellulare senza opporre resistenza. Mentre un gigantesco agente di colore prendeva posto accanto a lui, stringendolo in un angolo dove la luce obliqua del tardo pomeriggio gli disegnava sul volto una rastrelliera dorata, viso pallido Thiene l’aveva rassicurato:
            -“Ci vediamo tra poco”-        
            Il convoglio si era avviato e Thiene aveva impegnato le ultime ore libere a smantellare la cella del condannato insieme a Ramirez, di seguito in città per gli ultimi adempimenti del preoperatorio: prelievo del sangue, richiesta di almeno due sacche a disposizione della sala, colloquio di rito con l’anestesista e l’oncologo. Un ultimo quarto d’ora l’aveva dedicato a girare attorno al telefono, senza riuscire a risolversi a chiamare i suoi vecchi. Suo padre soffriva di cuore, la madre era incline ad attacchi depressivi: Thiene decise di rinunciare a quell’ultima telefonata, alla stessa maniera con cui, alle otto di sera, Roseland rifiutò la cornetta che lo stesso sergente gli aveva allungato attraverso la buca:
            -“Che numero devo fare?”- gli aveva domandato viso pallido dall’esterno. La nuova cella, se possibile, era ancora più stretta, col soffitto più alto e arredata soltanto con la branda e il cesso a vista.
            -“Nessuno, sergente. Immagino che mia moglie sia già al corrente di tutto. Diciamo che a questo punto non mi sembra il caso di andare a complicare le cose”-
            -“Puoi sempre ripensarci, ricorda che è un tuo diritto”-
            Thiene sapeva bene che al di là della nube di reticolato dello Chalet, il mondo dei vivi era venuto a conoscenza della data prevista per l’esecuzione di Roseland addirittura prima del diretto interessato, tramite i quotidiani e i servizi di apertura dei telegiornali. Sugli schermi televisivi di tutto il Paese erano passate le immagini di repertorio relative al processo, e sulla carta stampata la solita foto di Roseland che risaliva ancora al giorno dell’arresto di dieci anni prima: e che lo ritraeva con lo sguardo perso nel vuoto e la faccia colpevole oltre ogni ragionevole dubbio.
            -“Bene, vogliamo leggere un po’ di Sacra Scrittura? O forse preferisce una partita a carte?”-
            -“Mi dica che Dio mi ama. Voglio sentirlo ancora”-
            -“Signore, tu mi scruti e mi conosci”- aveva cominciato a leggere Thiene, sollevato all’idea di potersi rifugiarsi in quelle pagine, ma sentendo gli occhi di Roseland puntati sulla nuca -“tu sai quando seggo e quando mi alzo. Penetri da lontano i miei pensieri, mi scruti quando cammino e quando riposo. Alle spalle e di fronte mi circondi - stia attento a questo punto, Roseland - e poni su di me la tua mano. Mi hai detto che lei è cristiano, e allora dovrebbe sapere che quando leggiamo queste parole, è Dio in persona che parla”- per lo meno così gli sembrava di ricordare -“e in questo momento si sta rivolgendo proprio a lei,  non a qualcuno a caso. Le sta dicendo che Lui conosce la verità, qualunque essa sia, e che in ogni caso la Sua mano non l’abbandonerà”- 
            Fuori dallo Chalet, una luce aranciata veniva dal tramonto più bello e sanguinoso che si fosse mai visto posarsi sui canneti e l’intrico della palude: i canali splendevano come torrenti di luce, il cielo era una visione di nuvole cinerine e porpora splendente.
            Sui volti degli agenti di guardia sulle torrette, e dei molti altri che si erano assiepati all’esterno per ammirare quel panorama da fine del mondo, si posava un riverbero arancio e rosa intenso. Persino nella cella senza finestre di Roseland filtrava quel pulviscolo, e si posava sul suo viso e le spalle: simile a quella mano che dodici secoli prima della sua nascita, gli aveva già promesso che non lo avrebbe abbandonato.   
            -“Lei conosce la storia del re Davide, vero? Si dice che Davide abbia fatto uccidere il suo guerriero più valoroso al solo scopo di portarsi a letto sua moglie. Aveva perso la testa per quella donna”- Thiene frugava tra gli appunti che s’era scritto in un momento di reminiscenze dal catechismo -“eppure a Dio non si è rivoltato lo stomaco all’idea di parlare per bocca del re Davide. Ha parlato al re Davide, e parla a lei adesso per dire che se ne fotte - pardon - per dire che a lui non interessa cosa può avere fatto un uomo, perché il suo amore resta, forte come una roccia”-
            Era arrivato anche l’ultimo vassoio della cena. Solo a sentire l’odore di quei famosi hamburger con patatine fritte di cui aveva parlato Ramirez, Thiene aveva dovuto sospendere la lezione di esegesi biblica per correre al gabinetto: per il bocciolo maligno che continuava a schiudere i petali nel suo stomaco, ogni odore era un’occasione imperdibile per rivoltarlo come un calzino, facendo uscire fino all’ultimo schizzo un vomito acido che gli bruciava le viscere.
            Ancora immerso nelle sue considerazioni teologiche, Thiene aveva pensato che non c’erano dubbi: se Dio non si schifava del genere umano in nessuna circostanza, allora nausea e vomito erano sicuramente farina del sacco del diavolo.
            Con Roseland, avevano continuato a parlare per tutta la notte: solo verso le quattro il condannato era riuscito a prendere sonno, più per lo sfinimento che per la grazia di una fede a prova di bomba.
            -“Si ricordi di Shakespeare”- aveva detto Thiene, mentre Roseland era già immerso nel dormiveglia -“ Sei tu la parte migliore di me stesso, il limpido specchio dei miei occhi, il profondo del mio cuore: come il poeta parla alla donna che ama, così Dio parla a noi, che siamo fatti a sua immagine, perché ogni amore che nasce nel cuore dell’uomo, è un riflesso del suo. La passione più ardente, diceva il mio insegnante, al Suo confronto non è che un pallido riflesso”-
            Sfinito, Thiene chiuse i suoi libri, le pagine di appunti, la vecchia dispensa arricciata da lunghe orecchie ammuffite.
            Sulla brandina immersa in un altro riflesso - quella della luce notturna dello Chalet, ancora più spettrale di quella del quartiere - Roseland riposava, il respiro tranquillo e ancora un’ombra calda posata sulla sua spalla.
******
            Alle sette precise, era entrato nella cella il direttore del carcere, di nuovo l’omino con gli occhiali rotondi su mezzo naso e la faccia da bibliotecario.
            -“Andiamo Roseland. Faccia la cortesia di seguimi al piano di sotto”-
            Insieme a lui c’era una squadra di quattro nerboruti in assetto operativo, pronti a immobilizzarlo in caso di resistenza e a fargli fare di peso i due piani di scale che ancora lo separavano dal lettino dello Chalet.
            Roseland, che era ancora disteso sulla branda a riposare, ci aveva messo un po’ a realizzare quello che stava succedendo e a destarsi del tutto, gravato com’era dal sonno di un’intera settimana di veglie angosciate. Quando s’era rizzato a sedere sulla branda e s’era reso conto di quello che lo aspettava, nel tentativo di levarsi gli erano venute meno le gambe.  
            L’aveva sostenuto Thiene, di nuovo al suo fianco:
            -“Io sono sempre qui. Pensa a quello che ci siamo detti ieri. Appoggiati a me”- s’era passato un braccio del condannato dietro alle spalle. Era viscido di un sudore di ghiaccio. Qualcuno della squadra si stava avvicinando per dare una mano, ma Thiene lo respinse:
            -“Ce la possiamo fare”- e poi, di nuovo all’uomo che si reggeva a lui, e che era ancora più bianco dell’uniforme:
            -“Adesso scendiamo insieme. Riesci a sentirmi, Roseland? Tu sai quando mi siedo e quando mi alzo. Alle spalle e di fronte mi circondi. Pensa a queste parole. Adesso ci avviamo, un passo alla volta”-
            Un breve corridoio, poi una porta blindata: di là cominciava un sotterraneo scabro, ricavato dalle cantine della baita e consolidato con la solita colata di calcestruzzo. Là scomparivano i rivestimenti di legno da baita di montagna, e anche il barlume lattiginoso che un’alba incerta spandeva nei locali dello Chalet, dello stesso colore stagnante dell’acqua che un gruppo di comuni, munito di stracci e spazzoloni, rimestava sul pavimento per le pulizie del mattino.
            Non appena i comuni incontrarono la squadra, preceduta dal direttore che avanzava a testa bassa, si fecero da parte e scomparvero all’istante, abbandonando gli arnesi là dove si trovavano.
            Una volta superata la prima porta blindata, una scala di cemento scendeva di un piano.
            L’unica illuminazione proveniva da torce elettriche fissate dai consueti otto bulloni alle pareti, dietro alla solita grata. Roseland sembrava aver recuperato un passo un poco più stabile, ma Thiene continuava a fargli sentire la sua presenza, un tocco di calore che lo reggeva per un braccio.
            Dall’altro lato, uno della squadra pareva avere fretta, e a intervalli lo strattonava:
            -“Agente, stia al passo”- lo riprese il sergente Thiene.
            -“Dobbiamo essere giù per le sette e un quarto precise”-
            Thiene si rese conto che più in fretta di così Roseland non riusciva a procedere.
            Trovava odioso l’atteggiamento del collega e di tutta la squadra, compreso il direttore che si affrettava giù per le scale come se fosse inseguito dal diavolo in persona, soltanto per sbrigarsela il più in fretta possibile, perché almeno su una cosa erano tutti d’accordo: la legge lo prevedeva, ma per quelli che si accingevano a farlo non era affatto facile - e per questo cercavano di sbrigarsela al più presto, per levarsi il pensiero. Si chiudevano dietro alle maglie del protocollo sicuri come in trincea, e a loro non importava che Roseland inciampasse o arrivasse a sbattere il muso, tanto per loro il condannato era già morto e i morti non sentono niente.
            Mentre il sergente Thiene masticava pensieri che già iniziavano a dargli fitte acute allo stomaco, la squadra era arrivata a un’altra porta blindata: dietro a quella, scendeva un altro piano di scale tagliate nel calcestruzzo, poi dietro a un’altra porta si apriva la camera delle esecuzioni.
            La stanza era divisa in due da un vetro infrangibile e da un ampio tendaggio: dietro alla tenda, come a teatro, c’era l’aula dei testimoni, che nel frattempo avevano già preso posto.
            In piedi, a meno che la sedia non se la fossero portata da casa, e di solito c’era qualcuno che lo faceva.  

 
******
           
Fu sempre il sergente Thiene ad aiutare Roseland a salire sul lettino, perché non appena il condannato l’aveva veduto, simile a un tavolo operatorio ma dotato di cinghie, le gambe nuovamente gli avevano ceduto.
            Dopo che i quattro della squadra avevano provveduto ad assicurarlo al letto - ognuno di loro aveva l’incarico di fissare una parte, braccio destro e sinistro, torace e infine le gambe - Thiene si era  nuovamente avvicinato, e gli aveva rivolto qualche parola:
            -“Roseland, io sono qui. Adesso ti inseriranno un ago, e comincerà a scendere una semplice soluzione salina. Avrai qualche minuto per dire qualche parola alla gente che sta di là” - indicò con un cenno l’aula dei testimoni, che Roseland al momento non poteva vedere perché ancora celata dietro alla tenda chiusa. Gli occhi del condannato erano completamente anneriti dal panico: solo un alone chiaro restava del suo sguardo, attorno alle pupille dilatate all’inverosimile.
            Provava a guardarsi intorno, ma dava l’impressione di non riuscire a cogliere nulla: alla sua destra la tenda, pieghe grigie e pesanti dietro alle quali s’indovinava un fruscio di persone presenti, il cigolio di una seggiola, movimenti di gente che cercava di ritagliarsi uno spazio.
            Accanto a lui, e come a proteggerlo da quella vetrina ancora oscurata, c’era il sergente Thiene. A sinistra, il direttore del carcere. Tra i due, un telefono nero affisso alla parete, un vecchio modello a rotella la cui presenza a un tratto gli sembrò così assurda: a chi sarebbe mai venuto in mente di telefonare da quel posto? A un tratto ricordò, glielo aveva spiegato il sergente: quell’apparecchio non era fatto per chiamare, ma solo per ricevere: in qualunque momento, il governatore o il procuratore generale avevano la facoltà di interrompere l’esecuzione, nel caso fossero emersi, all’ultimo momento, delle ragioni valide per rimettere in discussione l’esito del processo. Non capitava spesso, aveva ammesso Thiene. Di fatto, per quel che ne sapeva un’evenienza del genere, almeno nel loro Stato, non si era mai verificata. Quella era stata l’unica bugia pietosa che Thiene aveva detto a Roseland, e che stesse mentendo si vedeva benissimo, perché aveva parlato senza guardarlo in faccia.
            Ora, nel sotterraneo, non era più il momento di nascondersi dietro a niente.
            -“Sai cosa farebbe il cappellano, se fosse qui?”- diceva adesso Thiene -“appoggerebbe una mano sul tuo ginocchio, e una sulla caviglia. Se credi, in qualità di tuo assistente, sono autorizzato a farlo: in questo modo, potresti continuare a sentire la mia presenza”-
            Roseland aveva annuito, ma forse era un solo un tremito: ai testimoni presenti, una volta aperta la tenda, non volle dire niente. Solo per un istante lasciò andare lo sguardo a fissare quei volti, dapprima cercando di ricordarne qualcuno, poi più rapidamente man mano che si accorgeva che erano facce estranee, gente che non conosceva. Di nuovo cercò con lo sguardo il sergente Thiene, voltando appena la testa, per quanto lo permetteva la sua posizione:
            -“Volevo dire solo una parola, e solo a lei, sergente: mi dispiace per tante cose, ma non posso dispiacermi per quello che non ho fatto. Separarmi da lei, questo sì, mi dispiace. Questo è un dolore grande”-
            A quel punto, il sergente Thiene aveva posato le mani sulla lunga gamba bianca bloccata dalle cinghie: doveva aver avuto gambe agili e forti, Roseland, ma ora erano solo magre. All’altezza della caviglia si sentiva il sangue scorrere, pulsando a tutta velocità per l’angoscia.
            -“Ricorda, allora, Roseland: tu sei la parte migliore di me stesso… l’effetto di ogni mia speranza, il solo cielo della mia terra, il Paradiso a cui aspiro. Queste sono le parole che ti dice Dio, adesso. L’anima di ogni sua creatura è la sua sola gioia, il suo paradiso in terra. Ne sei convinto, Roseland?”-
            Mentre si condannato si sforzava di annuire una volta di più, Thiene lanciò un’occhiata al direttore del carcere. Questi levò gli occhiali, e iniziò a pulirli usando il fazzoletto che usava portare infilato al taschino. Il gesto fu compiuto in modo indifferente, ma in realtà si trattava del segnale convenuto che avrebbe dato inizio all’infusione dei farmaci, mediante un deflussore che da una stanza schermata, attraverso un foro del muro, arrivava direttamente al braccio del condannato.
            In quel preciso momento, però, accadde qualcosa che fece voltare la testa a tutti i presenti, testimoni compresi: dal suo vano tagliato a piombo nel calcestruzzo, quel telefono vecchio stile aveva cominciato a squillare.

 
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