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Autore: yonoi    06/07/2018    6 recensioni
Nel braccio della morte, denominato il quartiere delle nebbie, un detenuto è in attesa della sua ultima ora. Nella sua solitudine, e mentre il suo tempo si fa più breve, potrà contare su un'unica vera amicizia.
Seconda classificata pari merito al contest "Raggio di Luna" indetto da Mystery Koopa sul Forum di EFP
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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“Ma quando penso a te,
mio caro amico,
ciò che era perduto è ritrovato,
e ogni dolore ha fine”
(W. Shakespeare)

3. Altrove, due anni dopo        

            L’atrio dell’ospedale era ampio e affollato: un grande bar si apriva in un vano luminoso, e c’erano bambini che consumavano torta di mele e milkshake con le gambine a penzoloni dalle seggiole, adulti con bicchieri di carta e di caffè lungo, anziani che avanzavano cauti con il bastone, un giovane con le stampelle. Attorno a un tavolino, un gruppo di infermieri vestiti di verde.
            Qualche asta da flebo oscillava qua e là, attaccata a qualcuno in ciabatte e vestaglia.
            Sulla porta d’ingresso, degenti che fumavano in piedi o in carrozzina, e intanto si godevano il sole di primavera; un medico al telefono andava avanti e indietro, rischiando ogni volta di buttare a terra altri bimbi che giocavano a rincorrersi e s’infilavano dappertutto.
            Uno di questi, un furetto di due anni che si reggeva a malapena ma correva più degli altri, arrivò dritto ad urtare contro a un uomo distinto, che entrava in quel momento.
            L’uomo lo afferrò in tempo evitandogli una caduta rovinosa sul cemento, e lo riconsegnò alla madre che arrivava trafelata:
            -“Ci scusi davvero, signore. Sa come sono i bambini: iniziano a camminare, poi non li fermi più”-
            -“Li conosco, i bambini. Ci ho lavorato per tanti anni”-
            Aveva un bel sorriso, aperto e disteso. Solo una lieve traccia di preoccupazione tra la fronte regolare e i limpidi occhi chiari. Mentre si allontanava insieme con il figlio, la donna si voltò a fissarlo più volte: si trattava indubbiamente di un uomo affascinante.
            All’ufficio informazioni, l’impiegata consultò l’elenco dei degenti:
            -“Oncologia, stanza tre. Quarto piano, in fondo a destra”-
            Il reparto era immerso in un’atmosfera ovattata e accogliente: vasi di sempreverdi nella sala d’attesa, riviste su un tavolino col ripiano di vetro. Alle pareti, poster con scorci di montagne, lunghe spiagge al tramonto, prati rasserenanti.
            La porta della camera era solo accostata: l’uomo bussò appena, con un tocco discreto.
            Quindi si fece avanti, e arrivò fino al letto. Aveva faticato tanto per arrivare fin là, dalla città dell’Austria dove ora viveva, e adesso faticava persino a riconoscerlo: adagiato nel letto bianco, con addosso un semplice camice da sala operatoria, anch’esso bianco ma schizzato in un angolo da una fuoriuscita di sangue, quell’amico che era venuto a visitare aveva la carnagione completamente impregnata di una tinta giallastra, il naso già affilato, zigomi alti e appuntiti.
            L’uomo si fece strada tra le ramificazioni di più aste da flebo, tutte cariche di flaconi con sopra scritto, a pennarello, il nome del paziente e i farmaci in diluizione. Lo riconobbe proprio grazie al nome in stampatello e al calore che la mano, quando la prese con delicatezza tra le sue, ancora riusciva a trasmettergli.
            Al sentire quel tocco, l’altro uomo nel letto dischiuse appena gli occhi, che erano ridotti a due globi senza ciglia caduti dentro alle orbite. Una cannula nasale pareva incollata a un decubito tra le narici, ed era collegata all’impianto centrale per l’erogazione dell’ossigeno. Il fruscio che proveniva dal regolatore fissato su due litri al minuto era l’unico rumore che si udiva nella stanza. Il braccio dell’uomo per un percorso accidentato di lividi, flebiti da stravaso, cerotti che tenevano in sede le infusioni. La punta delle dita era gelida e grigia, ma il palmo conservava quel tepore che Roseland non aveva mai dimenticato.
            Prese una sedia e l’avvicinò al capezzale. L’uomo nel letto lo seguiva con lo sguardo:
            -“Riesci a sentirmi, Thiene? Sono io, Roseland”-
            L’uomo nel letto non era più in grado di parlare, ma ricordava quella mattina di molti anni prima, quando una telefonata della procura generale aveva temporaneamente sospeso l’esecuzione di Chris Roseland.
            Lo stesso giorno in cui il giudice Anders aveva sottoscritto l’ordine di esecuzione, durante un’operazione di bonifica degli scarichi di una scuola, rimasti allagati in seguito a un nubifragio, era stato rinvenuto il corpo di un bambino la cui morte risaliva, secondo il medico legale, a pochi giorni  prima: il fatto era accaduto nello stesso edificio in cui Roseland aveva insegnato fino all’epoca del suo arresto. Da quella data erano trascorsi ormai dieci anni.
            Era seguita un’indagine e una lunga serie di interrogatori, condotti a tappeto su tutto il personale e che aveva coinvolto persino i genitori dei piccoli alunni: era stato indagato addirittura il tizio che vendeva hot dog all’uscita da scuola, e che era autorizzato a entrare nell’edificio durante l’intervallo.
             L’esito degli interrogatori aveva destato più di un sospetto su questo tizio, che tutti i ragazzini conoscevano bene e chiamavano zio Sam. A casa dello zio Sam, durante un’ispezione avvenuta la notte prima dell’esecuzione, erano state rinvenute prove schiaccianti: capi di vestiario appartenuti ai piccoli scomparsi, addirittura pezzi anatomici che all’epoca del processo Roseland non erano mai stati ritrovati presso l’abitazione dell’imputato, né in qualsiasi altro posto. A riprova del fatto che l’imputato era riuscito a disfarsene, aveva sempre sostenuto l’accusa. A conferma del fatto che Roseland è innocente, aveva dichiarato la difesa dell’imputato, che proprio sulla mancanza dei reperti in questione aveva basato gli appelli, le richieste di rinvio, di riesame, di sospensione.
            Il giorno del suo rilascio, Roseland aveva abbracciato l’agente Thiene: da allora era sempre andato a trovarlo, dapprima nella piccola clinica di provincia dov’era stato sottoposto a più interventi in urgenza. Ora, in quel grande policlinico della capitale, dov’era stato trasferito quando le sue condizioni erano diventate disperate, era andato a cercarlo, come sempre e di nuovo.
            Molto probabilmente, quella sarebbe stata la sua ultima visita.
            L’uomo distinto avvicinò ancora di più la sedia, cavò fuori dalla ventiquattrore una vecchia dispensa, e con voce pacata incominciò a leggere. L’uomo nel letto gli strinse forte la mano, più forte che poteva. 
            -“Alle spalle e di fronte mi circondi, e poni su di me la tua mano”-
 
  
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