12.
«Ma stiamo parlando di una pazza.
No? È come quando dico di mettermi a dieta. Lo sai che non succede»
Ron prese un sorso di Burrobirra dopo aver alzato le spalle e Harry sospirò.
Erano seduti alla Testa di Porco, ancora avvolti nei mantelli per ovviare al
gelo che entrava dalle finestre di legno. Fuori, Hogsmeade
era un gioiellino cosparso di neve.
«Non lo so, Ron» rispose Harry. «È
una strega potente»
«Possiamo tirare su i sigilli
eccezionali, se non ti fidi» disse Ron.
I due giovani uomini si guardarono
per un istante.
«Non lo so» ripeté Harry, prima di
sparire per un attimo dietro al boccale di Burrobirra.
Ron lo seguì, la bevanda calda a riscaldare i loro stomaci, l’odore di butterscotch che impregnava l’aria.
La Testa di Porco, dopo la Guerra,
aveva visto i propri affari crescere in modo vertiginoso. Naturalmente non si
vedeva mai la ressa che interessava I Tre Manici di Scopa, ma era comunque raro
trovare la locanda vuota come un tempo. E ogni tanto i due amici ci entravano,
in quelle stanze scricchiolanti, per fare due chiacchiere con Neville o per
prendersi un attimo di pausa dal mondo. Quella sera si trattava della seconda
opzione. Erano seduti in un angolo, addossati ad una finestra, e parlavano
piano.
«Hermione
ti accorderebbe subito i sigilli» aggiunse Ron.
«Ma non è necessario» rispose Harry.
«Sono io ad essere paranoico»
«E Piton
si sa difendere» gli fece notare Ron.
Harry annuì.
«Infatti, mi sentirei un idiota»
mormorò. «”Ehy, ti ho fatto un regalo, cinque sigilli
protettivi per la casa ed il negozio, così siamo sicuri che una strega in
carcere in Bielorussia non ti possa fare del male”»
Ron scoppiò a ridere.
«Ti affatturerebbe» commentò.
Harry sorrise, guardando il fondo
del proprio boccale.
«Sì, lo farebbe. Mi comporto da
stupido»
Ron gli tirò un calcio sotto al
tavolo, prendendolo di striscio e colpendo una gamba della sedia di Harry.
Imprecò, mentre Harry rideva, e trascorse un momento con gli occhi strizzati e
la bocca socchiusa lamentando il dolore alle dita del piede con cui aveva
tentato l’assalto. Poi si rimise dritto, imprecò di nuovo e si lasciò cadere
contro lo schienale della sedia.
«Non ti comporti da stupido, imbecille.
È colpa tua se mi sono spappolato un piede. Non ti comporti da stupido»
Harry, asciugandosi le lacrime, rise
ancora, ma stavolta si diede un contegno. Ron lo guardava con affetto, la
faccia seria.
«Se si trattava di me e Hermione… Merlino sa quanti
sigilli richiederei. Lei non me ne accorderebbe neanche uno. Ed è Hermione, no? Duella meglio di me. Ma la proteggerei. Chi
se ne frega se sembrerei paranoico, la proteggerei»
I due amici si osservarono in
silenzio. Ron era arrossito parlando, e Harry poteva quasi toccare il disagio
che stava provando nel confrontare se stesso e sua moglie con Harry e Severus. Pensò che era stato quasi esagerato, ma sapendo
che era stato uno sforzo non da poco non lo criticò.
«Grazie, Ron» sussurrò. L’altro
annuì, bevendo.
«Beh, di cosa?» rispose. «Vedrai che
non succederà nulla. Hermione si è raccomandata col
Ministro bielorusso di tenere un occhio aperto su Inga»
«Il Consigliere è partito subito?»
chiese Harry.
«Sì, credo contatteranno Hermione quando consegneranno Inga.
Anzi…»
Il giovane guardò l’ora sul suo
orologio magico da taschino e alcune ciocche di capelli ramati gli caddero
sulla fronte.
«Tra poco finirà la riunione»
aggiunse.
Harry gli indicò la porta della
locanda con un gesto del capo.
«Vai. E contattatemi se ci sono
novità su Inga» disse. Ron si alzò con calma,
mettendosi in ordine gli abiti e lasciando sul tavolo un bel po’ di soldi.
Harry gli avvicinò il gruzzolo, ma l’uomo lo fermò e gli impose di lasciarlo
sul tavolo.
«Stasera offro io» lo rimbeccò Ron,
prima di allontanarsi. Si salutarono con un cenno ed un sorriso, poi Harry lo
osservò sparire oltre la porta. Aprendola, un fazzoletto nero punteggiato di
fiocchi di neve rispose al suo sguardo. Stava ancora nevicando.
Il giovane restò seduto ancora per un
po’, il tempo di finire la Burrobirra e di stare in
pace nel silenzio. Fu disturbato soltanto una volta da Abertforth,
che passò a ritirare il boccale di Ron e gli diede una poderosa pacca sulla
spalla. Poi fu solitudine. Fuori dal vetro sporco, il panorama notturno lo
invogliava a restare lì a dormicchiare ad occhi aperti.
Quando finalmente si alzò ed uscì
sulla strada, il gelo si insinuò senza pietà sotto al suo mantello,
accompagnandolo lungo la via oscura. Non c’era nessuno attorno a lui.
Harry fece una breve passeggiata,
giusto per finire nel centro del paesino ad osservare le allegre luci che
illuminavano le casette. In lontananza vide Madama Rosmerta
aggirarsi brevemente attorno ai Tre Manici di Scopa prima di rientrare e gli
parve di riconoscere anche una collega di Neville poco lontano, che se ne
andava sulla via verso il castello. Attese di vedere entrambe le figure sparire
dalla strada prima di guardarsi attorno. Poi decise di andare a casa.
Seduto su una grande poltrona, Severus pensava. Aveva le gambe accavallate e sulla coscia
teneva una pergamena scribacchiata. In mano, la piuma. I suoi occhi neri
fissavano con intensità le parole che vi aveva vergato, tanto da sembrare quasi
risentiti verso quegli appunti. Sotto ai fini capelli corvini, legati sulla
nuca da un cordino di cuoio, gli ingranaggi del suo cervello sembravano quasi
mandare fini pigolii. Era immobile, ad eccezione della mano destra con cui
teneva la piuma: una lunga piuma verdastra che seguitava a muoversi seguendo
gli scatti nervosi del polso che, come scandendo il ritmo dei pensieri, si
alzava e si abbassava impercettibilmente.
La grafia del Pozionista
aveva vergato poche parole sulla pergamena, organizzate in una lista: quattro
cuori di bambini, il cuore di un’innamorata, melissa, dittamo, iperico. Sangue
di Re’em.
Secondo la leggenda bastava questo,
un calderone di tantalio e il gioco era fatto. Ma mancava qualcosa. Ne era
certo, eppure non capiva cosa. Severus si mosse
piano, per la prima volta dopo un bel pezzo. Abbassò la gamba su cui era
poggiata la pergamena, la prese tra le dita, la portò più vicina al proprio
viso. Continuò a leggere e a rileggere gli ingredienti così, come se i suoi
occhi abbisognassero di occhiali.
L’iperico. La pianta scaccia demoni
per eccellenza. Il fiore capace di scongiurare la negatività, le febbri, la
malinconia.
La melissa. L’antico rimedio ai
problemi cardiaci e ai dolori psichici. Una delle piante più popolari se si
volesse creare un filtro d’amore.
Il dittamo. Capace di curare ferite
e mal di testa, problemi di stomaco e di infertilità. La strana pianta che,
bruciata dai più esperti dei divinatori, sembrava essere capace di rendere
visibili gli spiriti dei defunti.
Tre delle piante più importanti tra
gli ingredienti pozionistici, almeno per i magi
dell’epoca di Julius. Bastavano per assicurare la prestanza fisica di cui un
mago che possedesse tutta la magia del mondo avrebbe avuto bisogno?
Severus sospirò, pinzandosi la base del
naso con le lunghe dita pallide. C’era qualcosa che gli sfuggiva, ma il
sottofondo degli altri suoi pensieri rendevano il suo studio praticamente
inutile.
Era sbottato in modo violento la
notte di Capodanno, con Potter. Potter. Se
lo ricordava bene quando, ragazzino, sedeva nella sua vecchia aula – era il
dramma di avere una memoria di elefante. Lo aveva sempre trovato ripugnante,
frutto di un peccato primordiale, ultimo cimelio di una storia vergata col
dolore e con le lacrime. E pensava di esserne scampato, poi, anche se sapeva,
infondo, di dovergli la vita. Sospirò di nuovo.
Non era mai stato richiamato da
Silente, mai. C’erano stati episodi spiacevoli, sì, e lui quei colleghi li
aveva sempre guardati con disprezzo dall’alto delle finestre del castello,
mentre se ne andavano con i loro bagagli, cacciati via dagli alunni che avevano
agito come cioccolato tentatore nei giorni della Quaresima. Ma lui era sempre
stato ligio, inflessibile: come, dal’altra parte, era sempre stato un po’ in
tutto.
Si alzò dalla poltrona e, posata
pergamena e piuma sul tavolino, si avvicinò a passi lunghi alla finestra. La
neve non accennava a cadere e lui, che un po’ serpe si sentiva nelle carni,
rabbrividì al pensiero di mettere il naso fuori di casa. Guardò giù: una strega
e un paio di maghi stavano camminando lungo la via. Li osservò dall’alto,
biasimandoli. Un mago si fermò proprio davanti alla porta della sua bottega,
sembrava cercare qualcosa in tasca. La strega sparì dietro ad una porta.
Il mago fermo alzò il viso.
«Potter»
ringhiò Severus, allontanandosi dalla finestra di
fretta, raggiungendo con andatura sicura la porta dell’appartamento. Scese le
scale che portavano alla bottega con un brivido, era la parte più fredda
dell’edificio e i muri soffrivano dell’aria gelida che vi si appiccicava
all’esterno. Entrò nel negozio come una furia in nero e spalancò la porta con
violenza, facendo balzare all’indietro Harry.
«Ehy…»
biascicò lui. Il suo viso era pallido, e sulla sua pelle risaltavano macchie di
rose rosse sulle gote e sulla punta del naso. Era avvolto in una sciarpa rossa
e oro ficcata senza particolare eleganza nel cappotto dal taglio babbano.
«Posso aiutarti?» chiese duramente Severus, scrutandolo. Harry allungò il collo, lanciando
un’occhiata nel negozio, chiedendo tacitamente di essere invitato dentro. Severus non raccolse, l’espressione calcificata.
Allora Harry sbuffò, e il suo viso
si illuminò di arroganza.
«Beh, non lamentarti eh, ma davanti
a me vedo il Professor Piton»
Severus fece per sbattergli la porta in
faccia, ma non si stupì quando Harry si piazzò nel mezzo, prendendosi il legno
massiccio contro una spalla alzando un tonfo sonoro. Il Pozionista
alzò un sopracciglio.
«E a me sembra di vedere un
ragazzino che speravo fosse cresciuto» ribatté, e senza aggiungere altro girò i
tacchi e riprese la via di casa. Harry fu rapido a seguirlo e a chiudere con
cura la porta.
Salì le scale levandosi di dosso la
sciarpa, più lento dei rapidi passi da insetto di Severus.
Infine chiuse anche la porta dell’appartamento con particolare apprensione e
nell’ingresso si passò la sciarpa sui capelli, bagnati da quelli che una volta
erano stati fiocchi di neve.
Severus era sparito dietro la porta dello
studio e Harry, ascoltando il silenzio, imprecò tra i denti.
«Come dici? Oh grazie tesoro,
gradirei proprio una tazza di tea bollente!» aggiunse ad alta voce.
«La sai usare una cucina, no?» gli
rispose la voce acida di Severus.
Harry restò immobile, in attesa: ma Severus non aveva intenzione di raggiungerlo. Così si levò
anche il mantello e, i denti stretti, andò a preparare due tazze di tea nero. Severus se lo vide arrivare in studio dopo una decina di
minuti, ma non alzò lo sguardo quando pose sul tavolino una tazza fumante. Il
profumo di tea aveva invaso l’aria, assieme all’odore di neve e quello del
dopobarba di Harry.
«Ascolta, scusami per quello che ho
detto l’altra sera» disse piano l’Auror,
occhieggiando verso Severus. Vedendo che lui non
accennava a guardarlo, continuò: «Non avevo messo in conto che ti avrebbe
potuto infastidire…»
«Mettere
in conto?» ripeté Severus.
«Non ci avevo pensato» mormorò
Harry.
Gli occhi neri di Severus si alzarono di scatto dalla pergamena che stava
leggendo, andando a imprimersi con ira in quelli di Harry.
«È sempre quello il tuo problema,
Potter» sputò, velenoso. «Tu non pensi. Non pensi mai che forse non sei sempre
tu ad avere tutte le ragioni, che anche gli altri hanno una sensibilità, che
non sei più il Bambino che è Sopravvissuto. Tu non pensi»
Harry ascoltò le parole di lui a
testa china, e Severus fu quasi sorpreso nel vederlo
contrito. Ma l’immagine dell’Harry Potter undicenne gli era ormai rimasta
impressa nel retro degli occhi, e non poteva ignorarla. Un freno pesante quanto
un macigno gli si era ora imposto e non avrebbe sbagliato cercando di
toglierlo.
«Hai ragione, ti chiedo scusa» disse
piano Harry.
«Scuse accettate. Ora va’ via»
sentenziò, statuario, Severus. Avvertì lo sguardo di
Harry su di sé, un misto di gioia e confusione. Poi una mano arrivò al suo
ginocchio, in una carezza tenera.
«Non poss-?»
stava chiedendo Harry, ma Severus lo cacciò.
«Abbiamo sbagliato ad avere quel ménage. Io ho sbagliato» disse. «Ti
prego di andare via e di non tornare, perché da questo momento tu ed io non
siamo niente insieme»
Harry allontanò la mano, come
scottato, la bocca semi aperta, lo sguardo vacuo. D’un tratto tutta l’aria del
mondo gli fu negata, e la sua gola si contrasse alla ricerca di qualcosa, o
delle parole giuste da dire per far cambiare idea a Severus.
Ma Harry non seppe cosa dire. Abbassò la mano sulla propria coscia e,
lentamente, fletté le ginocchia; si alzò. Severus non
lo guardava. Era una maschera di cemento. Harry avvertì il proprio pomo d’Adamo
espandersi sino a diventare una boccia per pesciolini rossi piena di lacrime.
Poi, dopo un minuto, dopo un anno, uscì dallo studio, afferrò il mantello, e se
ne andò.
Non c’era nessuno con lui, a parte
l’eco di voci soffocate e risate isteriche.
Guriy si strinse le braccia conserve al
petto, affondando di più nella pesante veste di servizio che, da sette mesi,
indossava ogni mattina per quattro giorni a settimana, più straordinari. Perché
a Shemeli faceva sempre fresco e, all’interno di
quelle mura maledette, faceva sempre freddo.
Troppo freddo per parlare, pensare, mangiare, ridere: soltanto i
prigionieri ci riuscivano perché, dopo dieci, venti, novant’anni di reclusione
era quasi scontato abituarsi e perdere la меркаваньне*.
Lui, Guriy,
certamente non aveva perso molto a stare lì. Lo pagavano bene, quella strega di
sua sorella lo lasciava in pace da quando aveva iniziato a portare a casa un
po’ di soldi, e non aveva granché da fare se non qualche giro di ricognizione
ogni tanto. Come scosso dalla propria mente stessa, il ragazzo, poiché non
contava più di diciannove primavere, guardò l’orologio appeso alla parete
grigia della cella dei vigilanti in cui sedeva. Mancava poco alle cinque: ora
dell’ultima ronda e poi a casa. Si alzò, riordinandosi la veste in lana color
antracite, e si assicurò di avere la bacchetta pinzata nell’apposita tasca delle
brache. Poi uscì dalla celletta, lasciandola aperta: le chiavi di quello
stanzino le aveva perse il vecchio Nazar appena un
mese e mezzo prima, così ne facevano a meno. I suoi stivali alzavano suoni cupi
nel largo corridoio antistante le celle dei prigionieri. Trasse dalla tasca
della giacca il grosso mazzo di chiavi magiche quando giunse alla prima porta:
ne avrebbe aperte quattro, avrebbe salutato qualche vecchio amico, e poi via,
che i ragazzi quella sera lo aspettavano al pub di Ganna
per festeggiare la nascita dell’ultimo maschietto di Rudol’f.
«Come te la passi, vecchio?»
borbottò Guriy transitando accanto alla cella di uno
dei più anziani dei detenuti. Sulla branda, nell’ombra, un vecchino gli fece un
sorriso sdentato: sembrava fatto di carta, tanta poca carne aveva sulle ossa.
«Non c’è male» gorgogliò. Guriy gli fece un cenno.
Gli piaceva essere sempre amichevole
coi suoi detenuti: erano dei poveracci e molti non sarebbero mai usciti da lì
se non coi piedi in avanti. Farsi dei nemici tra loro era inutile. Così scorrazzò
oltre la terza porta salutando e parlando con tutti quelli che gli rivolgevano la
parola, stringendo anche la mano ad un uomo che, stando alle parole di Nazar, era impazzito un paio di mesi dopo la cattura e da
allora aveva la fissa di stringere le mani. Erano dei poveracci.
Quando, infine, Guriy
arrivò all’ultima porta, allora si fermò un momento in ascolto. Lì, il silenzio
era ancora più fondo: occhieggiò oltre le sbarre, ma era tutto in ordine. Aprì la
porta: si alzò un cigolio. Era tempo di entrare nell’ala più sorvegliata del
piccolo carcere magico di Shemeli.
Non aveva particolarmente timore dei
carcerati speciali: ogni volta che entrava nella loro ala poteva avvertire gli
scudi magici lasciarlo passare, riconoscendolo come guardiano, e d’altronde non
erano che tre gli ospiti di quell’ala. Guriy si
corresse: quattro.
Passò davanti alla prima cella,
controllando: il vecchio mago che ci viveva era seduto a terra come sempre, la
testa tra le ginocchia, scosso da un intenso risolino. Le sbarre della cella
accanto, invece, cingevano un viso che si sporgeva, i denti marci a mordere un
listello metallico di quella sua prigione.
«Ciao Guriy»
sputacchiò il mago. «Mi hai portato la mia cioccolata?»
«No, Gleb,
non è domenica oggi» rispose bonariamente Guriy. Gleb annuì.
«Giusto, giusto, oggi è giovedì»
disse, e Guriy non lo corresse, ma andò avanti. Il terzo
mago dell’ala era sdraiato a letto e il ragazzo restò ad ascoltare per
avvertire il suo respiro: sì, dormiva. Certo, potevano fare ben poco se non
dormire, quelli: erano messi l’uno accanto all’altro, le celle vuote davanti,
apposta perché non avessero nessuno da guardare, ma soltanto gli sproloqui
altrui da ascoltare. Ma poi c’era lei.
«Inga»
salutò cortese Guriy. La strega seduta sulla branda
alzò la testa e, come ogni giorno, gli rivolse un sorriso radioso.
«Guriy»
sussurrò. Aprì le braccia: aveva strappato le maniche della divisa così da far
diventare la casacca una blusa che lasciasse in mostra i serpenti che aveva
tatuati addosso. «Ti piace? Mi sto dando alla sartoria»
Guriy rise.
«Ti dona molto, ma dovrei farti un
richiamo per questo» rispose. Inga rise a sua volta e
si avvicinò.
«Che importa, mi darebbero un’altra
divisa se me lo facessi?» chiese. Guriy scosse la
testa.
«Allora vedi? Al massimo prenderò
freddo»
Il ragazzo annuì.
«Non trovi che queste divise non
siano per niente adatte alle forme di una signora?» soffiò ancora Inga. Guriy alzò gli occhi al
cielo.
«Che strega vanitosa» disse, e il
suo tono era pieno di amichevolezza. Inga rise la sua
risata leggera e argentina.
Di tutti i maghi e le streghe oscure
della sua prigione, Guriy doveva ammetterlo, lei era
la più simpatica.
*bielorusso, senno.
Non ci sono parole per
esprimere quanto io sia mortificata per aver abbandonato questa storia. Spero
soltanto che chi l’ha tanto apprezzata sia felice di vederla tornare, perché d’ora
in poi mi impegnerò ad aggiornarla fino a vederla conclusa, ora che mille e
mille impegni sono giunti ad un termine.
Sono solo una
scribacchina e, senza il mio pubblico, non sono nulla: quindi, mio adorato pubblico,
chiedo scusa per l’assenza.