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Autore: Adhara    10/07/2018    2 recensioni
Soltanto una nuova minaccia per il Mondo Magico poteva far riavvicinare l'Auror Potter col suo ex professore di Pozioni. Due uomini del tutto nuovi, vecchi rancori e una strega oscura sono gli ingredienti per una pozione ammaliante e... pericolosa.
Genere: Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Altro personaggio, Il trio protagonista, Severus Piton | Coppie: Harry/Severus, Remus/Sirius, Ron/Hermione
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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12.

«Ma stiamo parlando di una pazza. No? È come quando dico di mettermi a dieta. Lo sai che non succede»

Ron prese un sorso di Burrobirra dopo aver alzato le spalle e Harry sospirò. Erano seduti alla Testa di Porco, ancora avvolti nei mantelli per ovviare al gelo che entrava dalle finestre di legno. Fuori, Hogsmeade era un gioiellino cosparso di neve.

«Non lo so, Ron» rispose Harry. «È una strega potente»

«Possiamo tirare su i sigilli eccezionali, se non ti fidi» disse Ron.

I due giovani uomini si guardarono per un istante.

«Non lo so» ripeté Harry, prima di sparire per un attimo dietro al boccale di Burrobirra. Ron lo seguì, la bevanda calda a riscaldare i loro stomaci, l’odore di butterscotch che impregnava l’aria.

La Testa di Porco, dopo la Guerra, aveva visto i propri affari crescere in modo vertiginoso. Naturalmente non si vedeva mai la ressa che interessava I Tre Manici di Scopa, ma era comunque raro trovare la locanda vuota come un tempo. E ogni tanto i due amici ci entravano, in quelle stanze scricchiolanti, per fare due chiacchiere con Neville o per prendersi un attimo di pausa dal mondo. Quella sera si trattava della seconda opzione. Erano seduti in un angolo, addossati ad una finestra, e parlavano piano.

«Hermione ti accorderebbe subito i sigilli» aggiunse Ron.

«Ma non è necessario» rispose Harry. «Sono io ad essere paranoico»

«E Piton si sa difendere» gli fece notare Ron.

Harry annuì.

«Infatti, mi sentirei un idiota» mormorò. «”Ehy, ti ho fatto un regalo, cinque sigilli protettivi per la casa ed il negozio, così siamo sicuri che una strega in carcere in Bielorussia non ti possa fare del male”»

Ron scoppiò a ridere.

«Ti affatturerebbe» commentò.

Harry sorrise, guardando il fondo del proprio boccale.

«Sì, lo farebbe. Mi comporto da stupido»

Ron gli tirò un calcio sotto al tavolo, prendendolo di striscio e colpendo una gamba della sedia di Harry. Imprecò, mentre Harry rideva, e trascorse un momento con gli occhi strizzati e la bocca socchiusa lamentando il dolore alle dita del piede con cui aveva tentato l’assalto. Poi si rimise dritto, imprecò di nuovo e si lasciò cadere contro lo schienale della sedia.

«Non ti comporti da stupido, imbecille. È colpa tua se mi sono spappolato un piede. Non ti comporti da stupido»

Harry, asciugandosi le lacrime, rise ancora, ma stavolta si diede un contegno. Ron lo guardava con affetto, la faccia seria.

«Se si trattava di me e Hermione… Merlino sa quanti sigilli richiederei. Lei non me ne accorderebbe neanche uno. Ed è Hermione, no? Duella meglio di me. Ma la proteggerei. Chi se ne frega se sembrerei paranoico, la proteggerei»

I due amici si osservarono in silenzio. Ron era arrossito parlando, e Harry poteva quasi toccare il disagio che stava provando nel confrontare se stesso e sua moglie con Harry e Severus. Pensò che era stato quasi esagerato, ma sapendo che era stato uno sforzo non da poco non lo criticò.

«Grazie, Ron» sussurrò. L’altro annuì, bevendo.

«Beh, di cosa?» rispose. «Vedrai che non succederà nulla. Hermione si è raccomandata col Ministro bielorusso di tenere un occhio aperto su Inga»

«Il Consigliere è partito subito?» chiese Harry.

«Sì, credo contatteranno Hermione quando consegneranno Inga. Anzi…»

Il giovane guardò l’ora sul suo orologio magico da taschino e alcune ciocche di capelli ramati gli caddero sulla fronte.

«Tra poco finirà la riunione» aggiunse.

Harry gli indicò la porta della locanda con un gesto del capo.

«Vai. E contattatemi se ci sono novità su Inga» disse. Ron si alzò con calma, mettendosi in ordine gli abiti e lasciando sul tavolo un bel po’ di soldi. Harry gli avvicinò il gruzzolo, ma l’uomo lo fermò e gli impose di lasciarlo sul tavolo.

«Stasera offro io» lo rimbeccò Ron, prima di allontanarsi. Si salutarono con un cenno ed un sorriso, poi Harry lo osservò sparire oltre la porta. Aprendola, un fazzoletto nero punteggiato di fiocchi di neve rispose al suo sguardo. Stava ancora nevicando.

Il giovane restò seduto ancora per un po’, il tempo di finire la Burrobirra e di stare in pace nel silenzio. Fu disturbato soltanto una volta da Abertforth, che passò a ritirare il boccale di Ron e gli diede una poderosa pacca sulla spalla. Poi fu solitudine. Fuori dal vetro sporco, il panorama notturno lo invogliava a restare lì a dormicchiare ad occhi aperti.

Quando finalmente si alzò ed uscì sulla strada, il gelo si insinuò senza pietà sotto al suo mantello, accompagnandolo lungo la via oscura. Non c’era nessuno attorno a lui.

Harry fece una breve passeggiata, giusto per finire nel centro del paesino ad osservare le allegre luci che illuminavano le casette. In lontananza vide Madama Rosmerta aggirarsi brevemente attorno ai Tre Manici di Scopa prima di rientrare e gli parve di riconoscere anche una collega di Neville poco lontano, che se ne andava sulla via verso il castello. Attese di vedere entrambe le figure sparire dalla strada prima di guardarsi attorno. Poi decise di andare a casa.

 

Seduto su una grande poltrona, Severus pensava. Aveva le gambe accavallate e sulla coscia teneva una pergamena scribacchiata. In mano, la piuma. I suoi occhi neri fissavano con intensità le parole che vi aveva vergato, tanto da sembrare quasi risentiti verso quegli appunti. Sotto ai fini capelli corvini, legati sulla nuca da un cordino di cuoio, gli ingranaggi del suo cervello sembravano quasi mandare fini pigolii. Era immobile, ad eccezione della mano destra con cui teneva la piuma: una lunga piuma verdastra che seguitava a muoversi seguendo gli scatti nervosi del polso che, come scandendo il ritmo dei pensieri, si alzava e si abbassava impercettibilmente.

La grafia del Pozionista aveva vergato poche parole sulla pergamena, organizzate in una lista: quattro cuori di bambini, il cuore di un’innamorata, melissa, dittamo, iperico. Sangue di Re’em.

Secondo la leggenda bastava questo, un calderone di tantalio e il gioco era fatto. Ma mancava qualcosa. Ne era certo, eppure non capiva cosa. Severus si mosse piano, per la prima volta dopo un bel pezzo. Abbassò la gamba su cui era poggiata la pergamena, la prese tra le dita, la portò più vicina al proprio viso. Continuò a leggere e a rileggere gli ingredienti così, come se i suoi occhi abbisognassero di occhiali.

L’iperico. La pianta scaccia demoni per eccellenza. Il fiore capace di scongiurare la negatività, le febbri, la malinconia.

La melissa. L’antico rimedio ai problemi cardiaci e ai dolori psichici. Una delle piante più popolari se si volesse creare un filtro d’amore.

Il dittamo. Capace di curare ferite e mal di testa, problemi di stomaco e di infertilità. La strana pianta che, bruciata dai più esperti dei divinatori, sembrava essere capace di rendere visibili gli spiriti dei defunti.

Tre delle piante più importanti tra gli ingredienti pozionistici, almeno per i magi dell’epoca di Julius. Bastavano per assicurare la prestanza fisica di cui un mago che possedesse tutta la magia del mondo avrebbe avuto bisogno?

Severus sospirò, pinzandosi la base del naso con le lunghe dita pallide. C’era qualcosa che gli sfuggiva, ma il sottofondo degli altri suoi pensieri rendevano il suo studio praticamente inutile.

Era sbottato in modo violento la notte di Capodanno, con Potter. Potter. Se lo ricordava bene quando, ragazzino, sedeva nella sua vecchia aula – era il dramma di avere una memoria di elefante. Lo aveva sempre trovato ripugnante, frutto di un peccato primordiale, ultimo cimelio di una storia vergata col dolore e con le lacrime. E pensava di esserne scampato, poi, anche se sapeva, infondo, di dovergli la vita. Sospirò di nuovo.

Non era mai stato richiamato da Silente, mai. C’erano stati episodi spiacevoli, sì, e lui quei colleghi li aveva sempre guardati con disprezzo dall’alto delle finestre del castello, mentre se ne andavano con i loro bagagli, cacciati via dagli alunni che avevano agito come cioccolato tentatore nei giorni della Quaresima. Ma lui era sempre stato ligio, inflessibile: come, dal’altra parte, era sempre stato un po’ in tutto.

Si alzò dalla poltrona e, posata pergamena e piuma sul tavolino, si avvicinò a passi lunghi alla finestra. La neve non accennava a cadere e lui, che un po’ serpe si sentiva nelle carni, rabbrividì al pensiero di mettere il naso fuori di casa. Guardò giù: una strega e un paio di maghi stavano camminando lungo la via. Li osservò dall’alto, biasimandoli. Un mago si fermò proprio davanti alla porta della sua bottega, sembrava cercare qualcosa in tasca. La strega sparì dietro ad una porta.

Il mago fermo alzò il viso.

«Potter» ringhiò Severus, allontanandosi dalla finestra di fretta, raggiungendo con andatura sicura la porta dell’appartamento. Scese le scale che portavano alla bottega con un brivido, era la parte più fredda dell’edificio e i muri soffrivano dell’aria gelida che vi si appiccicava all’esterno. Entrò nel negozio come una furia in nero e spalancò la porta con violenza, facendo balzare all’indietro Harry.

«Ehy…» biascicò lui. Il suo viso era pallido, e sulla sua pelle risaltavano macchie di rose rosse sulle gote e sulla punta del naso. Era avvolto in una sciarpa rossa e oro ficcata senza particolare eleganza nel cappotto dal taglio babbano.

«Posso aiutarti?» chiese duramente Severus, scrutandolo. Harry allungò il collo, lanciando un’occhiata nel negozio, chiedendo tacitamente di essere invitato dentro. Severus non raccolse, l’espressione calcificata.

Allora Harry sbuffò, e il suo viso si illuminò di arroganza.

«Beh, non lamentarti eh, ma davanti a me vedo il Professor Piton»

Severus fece per sbattergli la porta in faccia, ma non si stupì quando Harry si piazzò nel mezzo, prendendosi il legno massiccio contro una spalla alzando un tonfo sonoro. Il Pozionista alzò un sopracciglio.

«E a me sembra di vedere un ragazzino che speravo fosse cresciuto» ribatté, e senza aggiungere altro girò i tacchi e riprese la via di casa. Harry fu rapido a seguirlo e a chiudere con cura la porta.

Salì le scale levandosi di dosso la sciarpa, più lento dei rapidi passi da insetto di Severus. Infine chiuse anche la porta dell’appartamento con particolare apprensione e nell’ingresso si passò la sciarpa sui capelli, bagnati da quelli che una volta erano stati fiocchi di neve.

Severus era sparito dietro la porta dello studio e Harry, ascoltando il silenzio, imprecò tra i denti.

«Come dici? Oh grazie tesoro, gradirei proprio una tazza di tea bollente!» aggiunse ad alta voce.

«La sai usare una cucina, no?» gli rispose la voce acida di Severus.

Harry restò immobile, in attesa: ma Severus non aveva intenzione di raggiungerlo. Così si levò anche il mantello e, i denti stretti, andò a preparare due tazze di tea nero. Severus se lo vide arrivare in studio dopo una decina di minuti, ma non alzò lo sguardo quando pose sul tavolino una tazza fumante. Il profumo di tea aveva invaso l’aria, assieme all’odore di neve e quello del dopobarba di Harry.

«Ascolta, scusami per quello che ho detto l’altra sera» disse piano l’Auror, occhieggiando verso Severus. Vedendo che lui non accennava a guardarlo, continuò: «Non avevo messo in conto che ti avrebbe potuto infastidire…»

«Mettere in conto?» ripeté Severus.

«Non ci avevo pensato» mormorò Harry.

Gli occhi neri di Severus si alzarono di scatto dalla pergamena che stava leggendo, andando a imprimersi con ira in quelli di Harry.

«È sempre quello il tuo problema, Potter» sputò, velenoso. «Tu non pensi. Non pensi mai che forse non sei sempre tu ad avere tutte le ragioni, che anche gli altri hanno una sensibilità, che non sei più il Bambino che è Sopravvissuto. Tu non pensi»

Harry ascoltò le parole di lui a testa china, e Severus fu quasi sorpreso nel vederlo contrito. Ma l’immagine dell’Harry Potter undicenne gli era ormai rimasta impressa nel retro degli occhi, e non poteva ignorarla. Un freno pesante quanto un macigno gli si era ora imposto e non avrebbe sbagliato cercando di toglierlo.

«Hai ragione, ti chiedo scusa» disse piano Harry.

«Scuse accettate. Ora va’ via» sentenziò, statuario, Severus. Avvertì lo sguardo di Harry su di sé, un misto di gioia e confusione. Poi una mano arrivò al suo ginocchio, in una carezza tenera.

«Non poss-?» stava chiedendo Harry, ma Severus lo cacciò.

«Abbiamo sbagliato ad avere quel ménage. Io ho sbagliato» disse. «Ti prego di andare via e di non tornare, perché da questo momento tu ed io non siamo niente insieme»

Harry allontanò la mano, come scottato, la bocca semi aperta, lo sguardo vacuo. D’un tratto tutta l’aria del mondo gli fu negata, e la sua gola si contrasse alla ricerca di qualcosa, o delle parole giuste da dire per far cambiare idea a Severus. Ma Harry non seppe cosa dire. Abbassò la mano sulla propria coscia e, lentamente, fletté le ginocchia; si alzò. Severus non lo guardava. Era una maschera di cemento. Harry avvertì il proprio pomo d’Adamo espandersi sino a diventare una boccia per pesciolini rossi piena di lacrime. Poi, dopo un minuto, dopo un anno, uscì dallo studio, afferrò il mantello, e se ne andò.

 

Non c’era nessuno con lui, a parte l’eco di voci soffocate e risate isteriche.

Guriy si strinse le braccia conserve al petto, affondando di più nella pesante veste di servizio che, da sette mesi, indossava ogni mattina per quattro giorni a settimana, più straordinari. Perché a Shemeli faceva sempre fresco e, all’interno di quelle mura maledette, faceva sempre freddo. Troppo freddo per parlare, pensare, mangiare, ridere: soltanto i prigionieri ci riuscivano perché, dopo dieci, venti, novant’anni di reclusione era quasi scontato abituarsi e perdere la меркаваньне*.

Lui, Guriy, certamente non aveva perso molto a stare lì. Lo pagavano bene, quella strega di sua sorella lo lasciava in pace da quando aveva iniziato a portare a casa un po’ di soldi, e non aveva granché da fare se non qualche giro di ricognizione ogni tanto. Come scosso dalla propria mente stessa, il ragazzo, poiché non contava più di diciannove primavere, guardò l’orologio appeso alla parete grigia della cella dei vigilanti in cui sedeva. Mancava poco alle cinque: ora dell’ultima ronda e poi a casa. Si alzò, riordinandosi la veste in lana color antracite, e si assicurò di avere la bacchetta pinzata nell’apposita tasca delle brache. Poi uscì dalla celletta, lasciandola aperta: le chiavi di quello stanzino le aveva perse il vecchio Nazar appena un mese e mezzo prima, così ne facevano a meno. I suoi stivali alzavano suoni cupi nel largo corridoio antistante le celle dei prigionieri. Trasse dalla tasca della giacca il grosso mazzo di chiavi magiche quando giunse alla prima porta: ne avrebbe aperte quattro, avrebbe salutato qualche vecchio amico, e poi via, che i ragazzi quella sera lo aspettavano al pub di Ganna per festeggiare la nascita dell’ultimo maschietto di Rudol’f.

«Come te la passi, vecchio?» borbottò Guriy transitando accanto alla cella di uno dei più anziani dei detenuti. Sulla branda, nell’ombra, un vecchino gli fece un sorriso sdentato: sembrava fatto di carta, tanta poca carne aveva sulle ossa.

«Non c’è male» gorgogliò. Guriy gli fece un cenno.

Gli piaceva essere sempre amichevole coi suoi detenuti: erano dei poveracci e molti non sarebbero mai usciti da lì se non coi piedi in avanti. Farsi dei nemici tra loro era inutile. Così scorrazzò oltre la terza porta salutando e parlando con tutti quelli che gli rivolgevano la parola, stringendo anche la mano ad un uomo che, stando alle parole di Nazar, era impazzito un paio di mesi dopo la cattura e da allora aveva la fissa di stringere le mani. Erano dei poveracci.

Quando, infine, Guriy arrivò all’ultima porta, allora si fermò un momento in ascolto. Lì, il silenzio era ancora più fondo: occhieggiò oltre le sbarre, ma era tutto in ordine. Aprì la porta: si alzò un cigolio. Era tempo di entrare nell’ala più sorvegliata del piccolo carcere magico di Shemeli.

Non aveva particolarmente timore dei carcerati speciali: ogni volta che entrava nella loro ala poteva avvertire gli scudi magici lasciarlo passare, riconoscendolo come guardiano, e d’altronde non erano che tre gli ospiti di quell’ala. Guriy si corresse: quattro.

Passò davanti alla prima cella, controllando: il vecchio mago che ci viveva era seduto a terra come sempre, la testa tra le ginocchia, scosso da un intenso risolino. Le sbarre della cella accanto, invece, cingevano un viso che si sporgeva, i denti marci a mordere un listello metallico di quella sua prigione.

«Ciao Guriy» sputacchiò il mago. «Mi hai portato la mia cioccolata?»

«No, Gleb, non è domenica oggi» rispose bonariamente Guriy. Gleb annuì.

«Giusto, giusto, oggi è giovedì» disse, e Guriy non lo corresse, ma andò avanti. Il terzo mago dell’ala era sdraiato a letto e il ragazzo restò ad ascoltare per avvertire il suo respiro: sì, dormiva. Certo, potevano fare ben poco se non dormire, quelli: erano messi l’uno accanto all’altro, le celle vuote davanti, apposta perché non avessero nessuno da guardare, ma soltanto gli sproloqui altrui da ascoltare. Ma poi c’era lei.

«Inga» salutò cortese Guriy. La strega seduta sulla branda alzò la testa e, come ogni giorno, gli rivolse un sorriso radioso.

«Guriy» sussurrò. Aprì le braccia: aveva strappato le maniche della divisa così da far diventare la casacca una blusa che lasciasse in mostra i serpenti che aveva tatuati addosso. «Ti piace? Mi sto dando alla sartoria»

Guriy rise.

«Ti dona molto, ma dovrei farti un richiamo per questo» rispose. Inga rise a sua volta e si avvicinò.

«Che importa, mi darebbero un’altra divisa se me lo facessi?» chiese. Guriy scosse la testa.

«Allora vedi? Al massimo prenderò freddo»

Il ragazzo annuì.

«Non trovi che queste divise non siano per niente adatte alle forme di una signora?» soffiò ancora Inga. Guriy alzò gli occhi al cielo.

«Che strega vanitosa» disse, e il suo tono era pieno di amichevolezza. Inga rise la sua risata leggera e argentina.

Di tutti i maghi e le streghe oscure della sua prigione, Guriy doveva ammetterlo, lei era la più simpatica.

 

*bielorusso, senno.

 

 

Non ci sono parole per esprimere quanto io sia mortificata per aver abbandonato questa storia. Spero soltanto che chi l’ha tanto apprezzata sia felice di vederla tornare, perché d’ora in poi mi impegnerò ad aggiornarla fino a vederla conclusa, ora che mille e mille impegni sono giunti ad un termine.

Sono solo una scribacchina e, senza il mio pubblico, non sono nulla: quindi, mio adorato pubblico, chiedo scusa per l’assenza.

 

  
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