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Autore: Susannah_Dean    13/07/2018    2 recensioni
Shadow, Amy, Sonic, Blaze, Silver, Rouge, Knuckles, Sally. Otto persone, otto vite, otto città ai quattro angoli del pianeta.
Quale legame esiste fra di loro? Di quale mondo fanno parte, in realtà?
Stanno per scoprirlo.
Ma potrebbe essere già troppo tardi.
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[ Human!AU, liberamente ispirato alla serie tv Sense8]
Genere: Avventura, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Altro Personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Onyx City, Illinois.
 
 
- Miss Rose? Si sente bene?
Amy trasalì, tornando improvvisamente in sé. Quanto tempo aveva perso a guardare fuori dalla finestra? Non era nemmeno una visione tale da restarne incantata: i vetri di tutte le finestre erano sporchi e pieni di crepe, e fuori era già calata la sera, rendendo difficile distinguere alcunché.
La persona che l’aveva richiamata all’ordine stava ancora aspettando una risposta. Amy si voltò e sorrise alla bambina che le stava davanti, ancora con indosso i vestiti da allenamento. – Certo, tesoro. Mi sono solo distratta un momento. E tu, perché sei ancora qui? E’ tardi.
La piccola fece spallucce. Si chiamava Cream: Amy lo ricordava bene, perché era una delle sue preferite. Aveva la stoffa per diventare una giocatrice formidabile, a meno che la sua estrema timidezza e una vaga sfiducia in sé stessa non si mettessero in mezzo e non la spingessero a lasciare la squadra. – Mia mamma finisce di lavorare tardi, stasera. Mister St. John ha detto che potevo restare ad aspettare qui.
Geoffrey St. John era l’altro allenatore della squadra delle bambine, e nella modesta opinione di Amy, aveva lo stesso quoziente intellettivo di un sedano bollito, oltre ad essere un vero pallone gonfiato. Lasciare una bambina di otto anni in uno spogliatoio vuoto (perché era poco credibile che avesse notato la propria collega indugiare dopo la doccia) era proprio nel suo stile. – Allora non ti dispiacerà se resto ad aspettare con te.
- Oh, no, miss Rose, non deve disturbarsi, posso…
Amy la zittì con un gesto. – Non si resta mai da soli in campo, ricordi la regola? E poi, puoi aiutarmi a fare il giro finale prima di chiudere.
Nonostante le sue deboli proteste, il sollievo era palese sul volto di Cream mentre la seguiva fuori dallo spogliatoio e la aiutava nelle ultime faccende. La ragazzina non spiccicava parola, ma non si allontanava mai troppo dalla sua allenatrice, e le stava alle calcagna mentre spegnevano le luci e raccoglievano tutti i pezzi di materiale dimenticati in giro.
Tutto sommato, anche Amy era contenta di avere qualcuno al proprio fianco. Anche se l’idea di quella bambina abbandonata a sé stessa la faceva infuriare (era probabile che non ci fosse nessuno ad aspettarla a casa, perciò Geoffrey non avrebbe potuto darle un passaggio comunque, ma quel maledetto se n’era semplicemente andato), era innegabile che tutto fosse più facile con due mani in più a disposizione. Essere l’ultima ad uscire dal campo significava dover chiudere e spegnere ogni cosa, ed era incredibile notare quanti oggetti potesse lasciarsi dietro per sbaglio una squadra dall’età media di undici anni.
E poi, era dal giorno prima che si sentiva più irrequieta del solito, con la testa leggera, come dopo essersi fumata uno spinello. Ma Amy non toccava niente del genere da anni, anche se Geoffrey l’aveva guardata dall’alto in basso col suo solito modo di fare, e Mina (l’unica vecchia compagna di squadra con cui si tenesse ancora in contatto) si era convinta che lei fosse ubriaca quando Amy le aveva scritto della donna fantasma.
Ma Amy l’aveva vista. Ne era sicura, anche se quella era sparita dal suo campo visivo in un battito di ciglia. L’avrebbe giurato, se qualcuno glielo avesse chiesto, come avrebbe giurato di essere perfettamente sobria in quel momento. Riusciva a ricordare ogni minimo dettaglio di quel momento, e quanto le fosse sembrata fuori posto quella donna, scalza e con la pelle più scura della sua, che mal si adattava ai suoi capelli chiari e agli occhi azzurri con cui l’aveva osservata. Gli ubriachi e i drogati non avevano una memoria così precisa, no?
O magari si stava confondendo, ed erano proprio alcol e sostanze stupefacenti a darti ricordi tanto nitidi e precisi. Ma anche se così fosse stato, era passato molto tempo dall’ultima volta che si era presa una sbronza come si deve. E non è detto che la mia vita sia migliorata, nel frattempo, si ritrovò a pensare, quasi involontariamente.
Doveva smettere di indugiare su quel tipo di pensieri. Doveva finire il suo lavoro, riconsegnare Cream a sua madre, tornare a casa e farsi una bella dormita. Non era il caso di rivangare sbornie lontane negli anni, o di riflettere su quanto le fosse sembrata familiare la donna che aveva allucinato.
In quel momento, però, accadde di nuovo. Mentre si chinava a raccogliere un guantone abbandonato a terra (visto lo stato pietoso in cui si trovava, doveva essere di una delle due sorelle, Lana e Lilly, che nonostante si fossero sentite ripetere mille volte quanto il materiale da softball fosse costoso insistevano a trattarlo come spazzatura), Amy si sentì riempire il petto da quella bizzarra, inquietante sensazione di familiarità che aveva provato osservando la sconosciuta. Le sembrava di aver appena aggiunto l’ultimo pezzo ad un puzzle abbandonato da anni.
E in un attimo, con la stessa rapidità e semplicità di un battito di ciglia, successe qualcosa.
All’improvviso, non stringeva più tra le mani un guantone distrutto. Le sue dita si muovevano sulla tastiera di un computer portatile, digitando parole in una lingua straniera che non riconosceva nemmeno, ma che leggendo sulla schermata riusciva a capire benissimo. Non era più in piedi, ma seduta ad una scrivania, e anche se fuori dalla finestra al suo fianco era notte fonda, la luce di una lampada da tavolo la accecava.
Durò pochi secondi, o forse un’eternità. Poi la scena davanti ai suoi occhi tornò normale, e lei si trovò confusa e senza fiato al suo posto, nel grande campo da gioco di Onyx City, con una bambina che cercava di farle una domanda che non riusciva a capire, come se le stessero fischiando le orecchie.
Merda, pensò, sbattendo le palpebre più e più volte, cercando di mettere a fuoco ciò che stava vedendo. Sto veramente diventando pazza.
 
 
Johannesburg, Sudafrica.
 
Sally si stirò la schiena, facendo una smorfia nel sentire il distinto crack emesso dalle sue ossa. Non era possibile sentirsi così fiacchi prima di compiere trent’anni. Cos’era successo al suo fisico da atleta del liceo?
- Se resti sveglia ancora un po’, dovranno portarti in ufficio in barella – commentò una voce dallo schermo del computer. Sally riportò la sua attenzione a Nicole, che la fissava con aria di riprovazione.
- E se mi addormento, nessuno compilerà questi rapporti e farò prima a non presentarmi mai più in ufficio – replicò, accennando all’angolo dello schermo non occupato dalla videochiamata, dove quei malefici documenti la stavano ancora aspettando.
La sua fidanzata storse la bocca, poco convinta. – Sai come la penso su tutta questa faccenda.
- Lo so, lo so. – Era la stessa opinione che aveva anche Sally, in realtà. Ma era comunque impressionante come non fosse nemmeno più necessario specificare di quale faccenda stessero parlando. Dopotutto, ne avevano discusso abbastanza da sapere quale fosse la radice di tutti i problemi.
Eppure, eccole ancora lì, sempre nella stessa situazione.
Sally sbadigliò, senza badare a coprirsi la bocca con la mano. Dopotutto, Nicole l’aveva vista in situazioni molto più compromettenti di quella. – In ogni caso, non preoccuparti. Schiaccerò un pisolino prima di andare al lavoro.
- E’ meglio che tu lo faccia – disse l’altra, assumendo un tono scherzosamente esasperato. – Sai, dicono che stare svegli più di ventiquattr’ore di fila ti bruci il cervello.
- Temo che sia vero. Credo di aver avuto un’allucinazione da stanchezza, prima che tu mi chiamassi.
Era stata sorprendentemente realistica come allucinazione, anche. Il fatto che si fosse trovata in piedi vicino a un prato, con una piacevole brezza sulla pelle, dimostrava quanto lei volesse sfuggire alla sua situazione, chiusa in un appartamento nel caldo soffocante di Johannesburg.
Tuttavia, per quanto piacevole, un’allucinazione era sempre un segno di perdita di lucidità, e Sally aveva bisogno di tutta la lucidità possibile al momento. Un’oretta di sonno era d’obbligo.
- Stai facendo molti sogni ad occhi aperti in questi giorni, patat. Prima quella strana signora, poi questa allucinazione… - Nicole fece un sorriso malizioso. – Non è che mi vuoi lasciare e fuggire via? Magari con una bella donna più vecchia, coi capelli rossi?
Suo malgrado, Sally scoppiò a ridere. – Ti piacerebbe. Non riuscirai mai a liberarti di me. E anche se tu hai deciso di ignorare le mie spiegazioni, te l’ho già spiegato: non ho sognato un bel niente. Ho visto quella donna come ora vedo te.
Anche se il fatto che fosse apparsa dal nulla nel mezzo del suo ufficio lasciava spazio solo a due opzioni, i sogni o i fantasmi, e Sally Acorn non era il genere di persona che credeva ai fantasmi. Esistevano cose molto più razionali e concrete di cui preoccuparsi: il governo, suo padre, Elias.
I rapporti da finire di scrivere.
La giovane donna lanciò un’occhiata all’orologio del suo computer. Erano già passate le cinque: per poter completare il proprio lavoro e schiacciare anche un pisolino, avrebbe dovuto chiudere la chiamata in fretta. Anche se era l’ultima cosa che volesse fare. – E’ meglio che tu vada a letto, tesoro, altrimenti dovrò essere io a insultarti. Dev’essere quasi mezzanotte laggiù.
- Non avrai mai la soddisfazione di insultarmi. Sono una persona normale con dei ritmi di sonno normali, io. – Stavolta fu il turno di Nicole di sbadigliare. – Volevo solo dare la buonanotte a quella sgobbona della mia fidanzata prima di andare.
Sally sorrise, travolta da un’ondata di affetto nei confronti dell’altra. Non meritava una persona come Nicole, anche se non avrebbe mai osato ammetterlo di fronte a lei. Nicki le avrebbe distrutto un timpano tentando di convincerla ad avere più autostima. – Buonanotte. Prometto che andrò a dormire anch’io presto.
- Ci conto. – Nicole appoggiò la mano sul proprio lato dello schermo, spingendo Sally ad imitarla. – Ti amo.
- Ti amo anch’io. – Le loro mani sembravano ridicole messe così, piccola e rovinata quella di Sally, lunga e sottile quella di Nicole, ma Sally avrebbe dato qualsiasi cosa perché il vetro che le divideva non esistesse. Aveva bisogno della sua ragazza qui: erano invincibili insieme, non una ad Ottawa e l’altra nel cuore del Sudafrica.
Purtroppo, così stavano le cose, e dopo un paio di secondi la comunicazione si interruppe. Sally abbassò la mano e si concesse un momento per riprendersi, per cercare di scacciare l’espressione preoccupata di Nicole dal proprio cervello.
Funzionò solo a metà: a sostituirla non venne l’analisi di mercato su cui stava tentando di concentrarsi. Invece, le passò davanti l’immagine di suo padre (non puoi essere così impaurita, sei una donna adulta, non PUOI) e subito dopo, bizzarramente, quella della donna che aveva visto. Sognato. Qualunque cosa fosse accaduto.
Era strano, perché non ci aveva dato peso, sul momento. I suoi ritmi di lavoro erano molto intensi, ed era plausibile che quel giorno avesse saltato la pausa pranzo, come spesso accadeva. Sentirsi un po’ intontita, vedere persone che non c’erano…Tutto credibile, in fondo. Tantopiù che la donna le era sembrata familiare, anche se non riusciva a ricordare dove l’avesse vista prima.
E allora, perché ora che aveva iniziato a pensarci non riusciva a togliersi quella signora dalla testa?
Sally scosse la testa. Non c’era tempo: non c’era mai tempo per nulla, figurarsi una serie di allucinazioni date dalla carenza di riposo. Doveva mettersi al lavoro. Doveva finire quei rapporti e far sì che fossero scritti abbastanza bene da essere approvati senza correzioni.
Anche se sapeva che così non sarebbe mai stato.
 
 

- Signore? Li ha trovati?
L’uomo non diede segno di aver sentito. Rimase seduto dov’era, le mani appoggiate al tavolo, gli occhi chiusi. Dopo qualche secondo trascorso senza ricevere risposta, la persona che gli aveva posto la domanda uscì di nuovo, chiudendosi la porta alle spalle.
Solo allora l’uomo aprì gli occhi, ritrovandosi di nuovo nella spoglia sala da interrogatori in cui si era chiuso. Solo, fortunatamente. Senza nessuno attorno che gli ponesse domande idiote.
Nessuno di quei piccoli leccapiedi aveva un briciolo di cervello. Sembrava quasi che li scegliessero apposta. Anche se lui avesse trovato qualcosa, di certo non lo avrebbe riferito a loro, ma avrebbe portato le informazioni (edulcorate, spogliate di ogni elemento non strettamente necessario) ai loro capi.
O meglio, a quelli che credevano di essere al comando. Era circondato da un numero impressionante di imbecilli, dopotutto.
L’uomo inclinò leggermente la testa, lasciando che i lunghi capelli bianchi gli oscurassero parzialmente il volto. Era certo della presenza di telecamere nella stanza, e non era bene mostrare troppo di ciò che stava provando.
Anche perché, al momento, ciò che provava era più che altro rabbia. Il suicidio di Tikal aveva reso molto più difficile il suo compito, ed era stato così imprevedibile da fargli temere di aver perso il suo tocco.
Ma no, non era possibile. La sgualdrinella era stata fortunata, ecco tutto. E alla lunga, il suo sacrificio sarebbe stato inutile. C’erano altri mezzi per trovare ciò che loro stavano cercando.
C’era, nello specifico, un’altra persona con cui lui era rimasto in contatto, una persona che avrebbe certamente fatto di tutto per trovare i membri del nuovo cluster.
L’uomo si concesse un breve sorriso, protetto dagli sguardi avidi delle telecamere. Poi chiuse gli occhi e si rimise a cercare.
 

Eccoci di nuovo qui! Ho visto che il capitolo precedente ha incuriosito alcuni di voi, ma siccome sono un'autrice malvagia, non ci sono ancora risposte a certe domande...anzi, fioriscono altri misteri.
Spero in ogni caso che il capitolo vi piaccia e che, se trovate errori o volete commentare qualcosa, lasciate una recensione. A presto!
Suze
   
 
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