Storie originali > Soprannaturale > Vampiri
Segui la storia  |       
Autore: kurojulia_    16/07/2018    1 recensioni
Takeshi era un guerriero. Un distruttore senza patria e senza scrupoli. Quelle sillabe... quel nome le apparve a dimensioni piccole piccole nella sua testa, fra tantissimi altri scritti più grandi, in modo quasi ingombrante.
Eppure, anche se era così minuscolo, era il primo che gli occhi della sua mente leggevano all'istante – fulgido.
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

02.

Nella sua testa rimbombò qualcosa, in modo violento e catastrofico, poteva persino dire doloroso. Non sapeva di cosa si trattava - o meglio, non voleva dire di saperlo; perché ciò che le martellava l'emisfero destro del cervello, l'emisfero un poco più serio della sua mente, quello che predominava come un leone, non era un semplice mal di testa. Era la sua voce. La sua morbida e avvolgente voce, simile alla luce del sole che inonda la città nelle prime ore del mattino – l'aveva pensato per un attimo, non poteva negarlo, e forse stava un po' esagerando.

Ma proprio quel timbro tanto intenso la stava risucchiando.


 

Le sue parole stavano ancora echeggiando quando l'improvviso suonare della campanella la riportò coi piedi sul tetto, in quella stupida e folle cittadina di 10,000 abitanti insulsi, pieni di pregiudizi e pensieri ristretti, pieni di...

«Lasciami andare!», premendo i palmi sul suo petto, riuscì a scansarlo da sé - aveva il respiro corto, si sentiva andare a fuoco. «Sei pazzo? Potrei denunciarti per molestie sessuali!». Lo vide toccarsi il petto con una mano, come se non riuscisse a credere che l'avesse spinto via - o forse era il fatto che lei sembrava molto più fragile e debole di così?

Il ragazzo, lo sconosciuto, alzò gli occhi su di lei e poi si guardò intorno. «Con la testimonianza del signor... ? Aria? Ossigeno? Cielo?».

«Ah-ah, che simpaticone», ma non poteva dargli torto, denuncia per molestie sessuali a caso non poteva certamente farle, sebbene l'idea avesse carezzato la sua spalla in svariate occasioni. «Anche se tu stesso hai affermato di... di volermi perseguitare? Devi proprio avere dei problemi - seri, direi».

Lui rise a bassa voce.

«Dì la verità, sei scappato da un manicomio? Questo spiegherebbe perché la tua faccia non mi è familiare».

«Ah, perché, tu fai attenzione alle persone che hai intorno?».

Mmh.

«Eh, no, vero?».

Qualche volta... «Sta zitto».


 

Yuki fece un passo indietro, toccando con la schiena la ringhiera, come un topo in trappola. Non pensava che lui le avrebbe fatto del male, onestamente, ma comunque quell'individuo non doveva essere molto normale: o questo o era davvero, davvero sincero... non che migliorasse la situazione. Il fatto che non c'era un alito di vento, adesso, la inquietava.

«Rilassati», disse lui, inforcando le mani nelle tasche.

L'albina sibilò, aguzzando lo sguardo come un gatto infuriato - solo in un secondo momento ricordò la campanella. Accidenti, quanto tempo era passato, esattamente? Sayumi doveva essere preoccupata mentre il professore adirato, che accoppiata vincente. Aveva totalmente perso la cognizione del tempo mentre veniva molestata da quel ragazzo.

«... come ti chiami?», disse, piano.

«Takeshi».

«Takeshi come?».

«Takeshi Katugawa, Yuki Akawa».

L'albina si chiuse in se stessa, come se volesse scavalcare la ringhiera. «Come fai a conoscermi?», chiese, mormorando, mentre si portava una ciocca dei morbidi capelli bianchi dietro l'orecchio. Quand'era stata la prima volta che l'aveva vista? Qual era stato il suo primo pensiero?

«Casomai, come ho fatto a non averti conosciuta prima».

«Cosa... ?», Yuki sbatté le palpebre, confusa. «Aaah, non importa. Ascolta Katugawa, ti consiglio vivamente di non farti più vedere. Non seguirmi. Non guardarmi. Non parlarmi. Non voglio avere niente a che fare con te, né ora né domani né mai».

Non ci fu risposta. Takeshi Katugawa si limitò a guardarla con uno sguardo indecifrabile ma con un sapore tutto suo, del tipo che sai bene quanto male farà ma ci ricaschi ogni volta - di quel genere. Senza dire una parola, i due si separarono; lei andò alla porta, lui restò fermò dove si trovava, non si dissero più niente. Lui non fece nessun commento, divertito, e lei non gli fece più nessuna raccomandazione o minaccia di denuncia - non ci fu niente, se non un fosco e solitario schiaffo d'aria.

 


 

***


 


 

Le dita strisciarono sulla parete, troppo liscia per aiutarla a reggersi sulle sue stesse gambe, gambe che erano diventate gradualmente deboli ed esili. I palmi erano sudati, piantati contro il muro, mentre l'altra mano andava alla gola e la circondava, in un gesto di disperato auto-salvataggio. Si sentiva bruciare, sarebbe arsa senza che nessuno ci avesse fatto caso. Sentiva le palpebre così pesanti che avrebbe potuto addormentarsi in quel vuoto corridoio del terzo piano. Non riusciva a sillabare una parola, a stento poteva trarre un respiro, una piccola boccata di ossigeno per i suoi polmoni affaticati.

Ah, lei non... non poteva chiedere aiuto. Né l'avrebbe mai fatto. Se doveva ripagarci, l'avrebbe fatto a testa alta.

Ma intanto, si sentiva svanire sotto il fragile filo della vita.

Se cominciava a provare queste angoscianti sensazione, significava che era arrivato il momento di provvedere a se stessa, al fine di sopravvivere a quella strana esistenza. In silenzio, si tirò su, ricominciò a camminare. Qualche volta poteva capitarle di non sentirsi esattamente... bene, ma poteva domare quegli effetti, sebbene con qualche fatica.


 

A quanto pareva, erano passati quindici minuti da quando si era separata con Sayumi; lei era tornata in classe circa quattro minuti prima che suonasse la campanella ed il professore aveva avuto un ritardo di cinque minuti. Quindi, aveva perso sette minuti di lezione che, alla fine, lezione non era stata dato che l'uomo aveva semplicemente parlato di alcune cose scolastiche.

«Ogni tanto mi spaventi. Sei viva, non mi dire. Che fine avevi fatto?», aveva chiesto Sayumi, alla fine dell'ora di matematica.

«Sono viva, già. Miracolo dei miracoli... te l'ho detto, dovevo fare una chiamata ed è stata più lunga di quanto credessi, sfortunatamente». E pensare che aveva detto che non avrebbe sprecato più di cinque minuti per quella "chiamata"...

«Ci sono dei problemi o qualcosa del genere?».

«Assolutamente. Tranquillo in modo indecente».

Yuki strinse i denti e mostrò un freddo sorriso senza crepe né svincoli. Era inaccessibile, un portone a due ante in ferro battuto. Non avrebbe lasciato a nessuno il modo per entrare, non si sarebbe fatta fregare e, soprattutto, non sarebbe di certo capitato a causa di un tale idiota.

Non si sarebbe lasciata scoprire.


 


 

***


 


 

«Senti, devo chiederti una cosa».

La precedente giornata si era conclusa senza ulteriori intoppi o stalker, era finita, si potrebbe dire, persino bene; avevano percorso la discesa-salita, quella che portava alla scuola, e si erano separate davanti ad un cancello di ferro socchiuso. Quel cancello di ferro conduceva al piccolo boschetto sulla fiancata della città dove, all'interno, ben nascosta, c'era la residenza dell'albina. Una casa in un bosco, esatto.

«Dimmi», disse Sayumi, mentre appoggiava sul banco il libro di letteratura giapponese e una penna, sottile e gialla. Yuki la guardò intensamente, cercando di captare nei suoi occhioni turchesi se, il giorno prima, magari avesse intuito qualcosa. «Conosci un ragazzo... ».

«Un ragazzo?».

«Sì, esatto, un ragazzo. Lui... ».

«Lui?».

«Takeshi?». Sì, non era riuscita a togliersi dalla testa quell'individuo. Voleva capire perché aveva fatto quello che aveva fatto, voleva sondare il terreno e non farsi vedere mentre, quatta quatta, avrebbe analizzato la sua personalità. E magari sarebbe riuscita ad intrappolarlo nella sua tela per mangiarselo vivo. Ma la sua migliore amica sembrava avere qualche dubbio.

Sayumi aggrottò la fronte. «Takeshi... ?».

«Takeshi Katugawa», disse piano l'albina, muovendo lentamente le labbra per pronunciare nome e cognome del ragazzo dello sconosciuto pedinatore, nel tono più silenzioso che conosceva, oltre al pensiero. «Credo sia del nostro anno. L'hai mai sentito nominare? O visto in giro... ».

La ragazza appoggiò le mani sul banco e spinse il corpo indietro, stiracchiando un po' la schiena. «Sì, l'ho sentito nominare, ma non l'ho mai visto. Penso che non venga molto spesso a scuola... delle nostre compagne di classe parlavano proprio di lui, ultimamente; di lui si dice che sia incredibilmente sexy e altrettanto silenzioso, che si faccia vedere un giorno su sei qui a scuola; qualcuno dice che sia un teppista, qualcosa del genere... che la sua famiglia sia della yakuza, insomma. Intorno alla sua classe c'è sempre un po' di gente e c'è sempre casino da vendere. Ma perché me lo chiedi?».

Yuki inarcò un sopracciglio. «Qual è la sua classe?».

Sayumi sembrò pensierosa, d'altro canto era il proprio il tipo di persona che si poneva cinquecento domande al secondo: era molto intelligente, a detta dell'albina. Si premette l'indice contro una tempia, riflettendo un istante. «Mi pare... 2-C? In ogni caso, è in fondo al corridoio. La chiamano "classe in fondo", guarda caso».

 

Che originalità, pensò Yuki, affondando i denti nel labbro, costringendosi a mettere a tacere il veleno dalla sua graziosa bocca - anche se Sayumi ne avrebbe riso fragorosamente. A lei non dispiaceva affatto - sorrise, incuriosita, mentre inclinava il capo d'un lato. «Allora? Perché tutte queste domande?».

L'albina aveva già girato lo sguardo e il torso, lasciando fluttuare i suoi pensieri e la sua concentrazione su qualcosa che non fosse un essere umano. «Eh?», sussultò appena, tornando a guardare l'amica ficcanaso. «Ah, beh... », sospirò. «... potrebbe esserci la remota possibilità che l'abbia incontrato. Di persona. Faccia a faccia. E respirava».

Sayumi rise allegramente. «Non avevo dubbi che respirasse!». Poi, fece un attimo di silenzio, come se stesse rielaborando la nuova informazione. «Ed è successo qualcosa? Se hai fatto tutte queste domande, temo che qualcosa possa essere successa».

Sebbene Sayumi Ichinomiya fosse una sua cara amica - la sua cara amica -, lei si era da sempre imposta di non allargarsi troppo. Mantenere un profilo che non faccia intendere più di tanto su se stessi, come forma di... prevenzione. Ragion per cui, poteva rilasciarle una certa quantità di informazioni, di verità e di omissione e doveva farlo con tranquillità o lei avrebbe notato qualcosa - questo era più che certo. «Ah, no, niente di ché. L'ho incontrato di recente e aveva bisogno di indicazioni, indicazioni che non sapevo bene fornirgli, lo sai. Poi ci siamo presentati. Non aveva un'aria familiare, quindi... ».

A volte c'era anche un po' di menzogna. «Oh, capisco!». Sayumi sorrise. «Ma quando l'hai incontrato? Forse-... ».

E proprio in quel momento, la campanella ruppe la loro conversazione e il chiacchiericcio di sottofondo, sostituendolo con un verso di dissenso - ma salvando la povera Yuki Akawa, costretta ad un angolo claustrofobico.


 


 

***


 


 

La scuola superiore frequentata da Yuki e Sayumi era costruita su tre piani, un grosso giardino dietro l'edificio e un tetto accessibile con un po' di forza bruta. Superato il cancello e l'atrio dall'asfalto in selciato, si sfociava al piano terra e, dopo tre scalini, si incontrava subito la segreteria della scuola, aperta fino alle 16:00; tutto intorno era pieno di numerose aule utilizzate per i club del pomeriggio con attività varie. C'erano poi la palestra, la sala insegnanti e l'ufficio del preside. I restanti piani ospitavano le classi degli studenti, divise per anno scolastico: Yuki e Sayumi frequentavano il secondo, quindi erano al secondo piano.

Una scuola in una cittadella del genere, per forza di cose, era gremita di soggetti discutibili - ma non in senso strettamente negativo; erano persone generalmente allegre, dall'atteggiamento spensierato ma, in realtà, profondamente stressate e angosciate con se stesse. E c'erano pregiudizi, pettegolezzi, chiacchiere ipocrite. Non erano cattive persone - cos'è che rende cattiva una persona? L'aver perso il senso del giudizio, forse?


 

Yuki stava ancora pensando a ciò che le aveva detto Sayumi: non si capiva niente, in pratica; c'erano troppi pareri, troppe possibilità, ma che in un modo o nell'altro portavano sempre allo stesso risultato: era il classico tipo da cui tenersi alla larga. In teoria, era da tenersi alla larga. Sapeva che era così. Ma restava preoccupata all'idea di esser realmente perseguitata da quel soggetto - più ci rifletteva, più si fondava in lei il fatto che fosse un tipo instabile.


 

Alla fine, stava camminando in corridoio. Le lezioni si erano appena concluse, da circa quattro minuti, e Sayumi aveva avvisato l'albina che prima di tornare a casa doveva andare in sala insegnanti - quale momento più propenso di quello per dare un'occhiata? Tanto per farsi del male?

In funereo silenzio, dunque, a testa alta e sguardo fisso davanti a sé come un generale dell'esercito, finì di percorrere il corridoio arrivando fino in fondo. «2-C», lesse, alzando lo sguardo all'angolo della porta. Era la classe di cui aveva parlato Sayumi. La "classe in fondo", quella rumorosa, con un sacco di gente intorno - normalmente. Ma il fatto che le lezioni fossero appena finite aiutava la calma ad aggrapparsi anche a quel posto.

Si avvicinò alla porta, affacciandosi appena appena col capo, lasciando che le grandi iridi oro guardassero ogni angolo, ogni lato, ogni centimetro quadrato dell'aula. C'era ancora qualche ragazzo, ma del suo obiettivo non c'era traccia - si notava subito, quello. La sua assenza le provocò un mix di emozioni, un po' di fastidio e un po' di sollievo.

Sarà a frantumare le ossa a qualcuno?, pensò, scostandosi dalla porta. Nell'istante in cui fece un passo indietro, la sua schiena si scontrò contro il petto di qualcun altro e una voce alle sue spalle la fece sobbalzare. «Hai bisogno di qualcosa, Akawa-san?».

«AH!».

Per un lungo, interminabile secondo, aveva creduto si trattasse di Katugawa e si era sentita tremare le gambe, come fossero diventate di gelatina. Invece, si trattava di un ragazzo dai capelli ossigenati e uno sguardo particolarmente... assonnato, si direbbe, e interrogativo, confuso, il ché si ben legava al tono della sua frase.

L'albina batté le palpebre e scosse il capo. «No, io non... come fai a conoscermi?», era riuscita a dire Yuki, non senza avergli rifilato uno sguardo truce, attraverso gli iridescenti occhi oro – per la sorpresa, aveva fatto qualche passo più in là e ora dava le spalle al corridoio che aveva appena percorso. Lo stava ritenendo come una figura sospettosa, dato che le era apparso alle spalle come una fittizia e informe ombra ossigenata. In un certo senso, quel ragazzo assomigliava ad un fuoco fatuo.

Il ragazzo aveva fatto spallucce, mentre lei pensava a come andarsene in modo teatrale. «Chi è che non ti conosce? Sei l'unica albina nella scuola, comunque».

«E tu sei l'unico finto albino, immagino», ribatté lei, incrociando fermamente le braccia al petto, come se stesse difendendo il fatto che lei fosse quella vera. In ogni caso, il ragazzo non fece una piega, limitandosi ad aguzzare la vista e gli occhi sottili per guardare dentro la 2-C. «Stavi cercando qualcuno?», chiese.

Oh, potrei... usare a mio vantaggio questo ragazzo..., pensò, per un secondo. Ma non era certa si trattasse di una buona idea; non aveva idea di chi fosse o di che rapporto avesse con Katugawa, quindi... era meglio investigare da soli. «Sei di questa classe, tu?».

«Sono Kazuki e sì, sono di questa classe».

«Sono andati tutti via?».

Il ragazzo stette in silenzio qualche attimo. Infine, rispose: «Puoi vedere da te, c'è ancora qualcuno. Ma dubito fortemente che si tratterranno. Sono usciti tutti dalla classe, però».

Il ché non assicura che siano tutti andati a casa... evidentemente, qualcuno mi sta consigliando di lasciar perdere questa stupidaggine e tornarmene a casa e basta, e avrebbe dovuto farli prima questi pensieri, molto tempo prima, anziché dirigersi lì davanti, proprio come aveva fatto lui. Fu proprio un minuto dopo che, alle sue spalle, - le sue rigide spalle che non si lasciavano sfuggire nulla - sentì il calore di una presenza. Di una persona.

Ma non si girò. Restò immobile, con uno sguardo quasi atterrito su Kazuki, quel ragazzo senza espressioni, i cui connotati facciali sembravano aver subito un brutto colpo.

«Ah, Katugawa-san, non eri andato via?», domandò quel ragazzo.

 

Quel calore si surriscaldò ulteriormente. Più forte, più vivo, sembrò avvicinarsi ancora di più alle spalle di Yuki - ancora immobile, inchiodata su quel punto. E quel ragazzo non rispose alla domanda di Kazuki, lasciandola aleggiare nell'aria come un virus virale - Yuki strinse le labbra, in una linea d'acciaio. «Già, non eri andato via? Non ti avevo detto di andare via?».

Lo sentì ridacchiare, dietro di lei, e si chiese mentalmente cosa ci fosse di tanto divertente in un ordine impartito e non accontentato. Lei si sentiva frustrata, per questo, si sentiva ridicolizzata, presa in giro: era stata chiara come la luna di notte. Ma, a quanto pareva, non abbastanza.

«Me l'avevi detto?», ripeté lui. La sua voce, bassa, si intrufolò vicino il collo immacolato di lei, scostandole i capelli, solleticandole l'orecchio. «Sì, mi pare di sì... per questo sono ancora qui». Poi sollevò la testa, scrollando le spalle. «E poi sei tu che sei venuta davanti alla mia classe. Sei tu che ti sei avvicinata».

«Solo per capire quanto avrei dovuto fare attenzione sulla strada di casa».

«Mi pensi parecchio, eh?».

«Ti consiglio vivamente di spostarti».

Poi, stupidamente, Kazuki decise di intervenire: «Era lui che stavi cercando tanto, prima? Potevi dirmelo, avrei potuto aiutarti».


 

Improvvisamente, Yuki sentì il sangue scorrerle nelle vene congelarsi come se qualcosa fosse stato tolto. Come la capacità di produrre calore. Insomma, era morta. E quel Kazuki, anche. Era mai possibile che potesse esistere un tale grado di idiozia? E quando sarebbe successo che lei lo stesse cercando tanto? Diamine, si era solo affacciata a quella classe, voleva solo dare un'occhiata. E non l'avrebbe più fatto, quella situazione si chiudeva lì, il sipario era chiuso, i biglietti conclusi; senza dire una parola, in un silenzio omicida, ruotò i piedi verso le scale parallele alla 2-C e cominciò a salirle, rapidamente. Il ticchettio delle sue scarpe sembrava l'unico suono in tutto il secondo piano, tanto era insistente e violento. Ma si sentiva così arrabbiata che avrebbe potuto spaccare i gradini sotto i suoi piedi con i propri passi.

Non voleva saperne più niente, di lui, di Kazuki, del sesso maschile, delle persone!, voleva liberarsene e chiudere gli occhi, lasciandosi cullare - o affogare - dal torpore di un bel sogno. Un sogno nel mezzo della primavera. L'idea era di tornare a casa, in quel castello che di reale sembrava non possedere nulla, se non la freddezza nell'aria, e chiudersi in camera sua per allietare la mente di cose più piacevoli, come qualche libro o un po' di musica.

E mangiare qualche dolce spropositatamente calorico.

«Perché stai fuggendo?», e davvero non voleva crederci, ma la stava seguendo lungo il corridoio del terzo piano, davvero, sul serio? Non gli concesse nemmeno un'occhiata, continuando imperterrita a seguire la strada. Aveva intenzione di scendere delle altre scale per tornare al secondo piano, prendere la sua borsa di scuola e andare via.

«Ehy, Yuki-».

Allora si fermò, puntando i piedi. «Mi hai appena chiamato per nome? Questo... è uno scherzo?».

Non si era ancora girata, preferendo rivolgere lo sguardo davanti a sé, anche a costo di fissare il pietoso nulla cosmico - seguì un silenzio, persino da parte del ragazzo. Poteva udirne il respiro leggero e regolare. Lui era tranquillo. Quieto come una giornata assolata. Mentre lei aveva i nervi a fior di pelle, percepiva le vene pulsarle nei polsi.

«Essendo il tuo nome, ti ho chiamata così».

«E non pensi di esserti preso un po' troppa confidenza? Dato che, io, Yuki, ti odio?».

Takeshi non rispose. Stette in silenzio, le iridi marroncine brillavano appena, di una calda e soffusa luce. «Perché mi odi?».

Non era una cattiva domanda. A conti fatti, lui non gli aveva fatto nessun torto, non le aveva fatto nulla di male; allora, perché lo odiava? Probabilmente era dovuto al pedinamento, a come l'aveva approcciata, a come le aveva fatto capire, bruscamente, che fosse interessato a lei. E Yuki Akawa, che non aveva mai amato granché le effusioni, si era sentita come se le avessero pestato la coda di proposito. Uno scherzo proprio di cattivo gusto. Uno scherzo che era durato fin troppo, per quanto le riguardava.

«Apri le orecchie», esordì - girò appena il viso, guardando i suoi colori con malavoglia. «Non voglio dirlo ancora: non avremo niente a che fare, io e te. Mi segui? Non voglio averti ancora intorno. Ti odio», inspirò profondamente, e lo guardò negli occhi. «Se ti ripresenterai, dovrò ucciderti».

In quel momento, Takeshi Katugawa ebbe dei pensieri su Yuki Akawa. Si chiese per che tipo di persona aveva provato interesse; si chiese come avesse fatto a pensare che fosse bella come un fiore e con un sorriso delicato e abbagliante come il sole di Agosto. Perché, una tale persona, parlava di uccidere con tanta facilità? Si rese conto di crederle. Non abbastanza da provare paura, no, ma era conscio che aveva il cuore freddo come l'acqua sotto i ghiacciai.

Era davvero una Principessa di ghiaccio.


 


 

***


 


 

«Grazie per aver deciso di accompagnarmi». La voce di Sayumi la riscosse. Le palpebre ebbero un guizzo, le strizzò parecchio - prima di aprire gli occhi e guardare la sua migliore amica e il suo sorriso affettuoso. «Non sono mai andata in biblioteca, credo».


 

Infine, Yuki era tornata nella sua classe; non aveva preso la borsa né era andata via istantaneamente come la sua testa le aveva all'inizio suggerito, si era soffermata, seduta al suo banco, mentre i caldi e rassicuranti raggi color arancio del tramonto ne carezzavano la superficie di legno, riscaldandola appena appena. In silenzio, a sospirare, a borbottare, aveva riposto i suoi oggetti nella borsa - e poi, come punizione divina, Sayumi era apparsa davanti a lei. A volte sembrava uno zashiki-warashi*.

Pareva che in letteratura giapponese Sayumi avesse degli evidenti cali e, di certo, non adatti per un liceo; l'insegnante l'aveva richiamata per parlarne a quattrocchi e alla fine le aveva consigliato caldamente - che, francamente, aveva tutta l'aria di un compito per casa - di andare nella biblioteca della scuola per prendere in prestito qualche testo. Di certo, cominciare qualche lettura le sarebbe stato utile.

«Figurati. Comunque resta assurdo che tu non sia mai venuta qui... o forse, ripensandoci, non lo è poi così tanto». Yuki aveva riso, beffeggiandola.

«Senti, ragazzina... non disdegno la lettura, ma non mi piace farlo perché me l'ha detto la professoressa. Che seccatura!».

Non poteva biasimarla. «Allora, hai qualche idea su cosa prendere?».

«Ho cercato su Internet e mi è uscito Genji Monogatari. Non so cosa sia. Tu che dici?».

«Ottimo inizio, anche se è piuttosto massiccio. Potresti metterci un bel po' prima di finirlo... », con lo sguardo che scendeva lentamente fino alle punte delle sue scarpe, rifletté per qualche istante. «Ma ne vale la pena, direi. Forza e coraggio, eh!».


 

Un lungo sospiro aveva accompagnato la risatina sommessa dell'albina mentre imboccavano la strada verso la biblioteca scolastica, al secondo piano: era una scuola grande sì, ma i piani in sé no. Quindi, per raggiungere qualsiasi luogo non c'era bisogno di grandi camminate o corse sfrenate.

Ciononostante, Yuki si sentiva come se ne avesse appena finita una - una lunga ed estenuante corsa contro il tempo, la luce e il suono. Si portò le dita al lato del collo, verso la carotide, per ascoltare il suo battito cardiaco: calmo ed elegante come il battito di un'aquila. La pelle era liscia e fredda, come un marmo tirato a lucido. Mentalmente, era quieta, distesa - fisicamente si sentiva consumata.


 

«Yuki?».

L'albina si riscosse con un piccolo sussulto, voltandosi con sorpresa verso la sua migliore amica; la guardava con la fronte corrucciata e la bocca un poco serrata, i grandi occhi color cielo punteggiati dall'apprensione. «Io... senti, c'è qualcosa che non va... ? Non so, è da un po' che mi dai l'impressione di non stare molto bene. Se è così e posso fare qualcosa per te... ».

La pelle liscia e fredda come il marmo cominciò a sudare. «Ehy, mammina, guarda che sto bene». Sorrise leggermente, appoggiando una mano sulla sua spalla. «Non è che sei tu quella a non stare troppo bene?».


 

E la cosa non era nemmeno tanto falsa né pensata all'ultimo istante per salvarsi in calcio d'angolo; Yuki aveva ben schiarita in mente l'immagine dell'amica mentre - i cui occhi erano vacui come uno specchio infranto - osservava il cielo, che esso fosse lucente o nuvoloso. Forse erano entrambe a non stare bene. Forse era questo. Avevano pochi tratti in comune, contati sulle dita di una mano, ed erano le omissioni e lo stato d'animo.


 

A quanto pareva.


 

Chiacchierando, raccontandosi del più e del meno, rilassandosi fra amiche - com'è giusto che sia -, continuarono a percorrere il corridoio che portava alla biblioteca della scuola; certo era strano che, trattandosi di un liceo piuttosto nella norma - o si potrebbe dire, mediocre -, vantassero persino una biblioteca e, all'interno, una piccola ma accogliente ed elegante caffetteria. Di recente era stata cambiata, con qualche ristrutturazione e aggiunta qui e lì, ragion per cui la curiosità di Yuki era alimentata. Giunte davanti la porta a due ante, l'albina la spinse lentamente per aprirle.

Si trattava di un ampio - e un pochino freddo - salone, con delle scale proprio davanti ai loro occhi che portavano a dei soppalchi. Le finestre erano coperte da pesanti tende di velluto color prugna e, proprio affianco ad esse - quelle del primo piano -, vi trovava un piccolo salottino con qualche poltrona e un divano mentre, alla sinistra dell'entrata, c'era la tanto decantata caffetteria. Ed era infatti elegante e raffinata, con il lucido legno scuro del bancone e le decorazioni dorate.

Vestito dalla radiante e splendida luce del sole era un posto meraviglioso e confortevole. Adesso, però, nelle tenebre del pomeriggio inoltrato, incuteva inquietudine mista a una strana tranquillità.


 

Sayumi era qualche passo avanti all'albina, tentando di decidere dove avrebbe potuto iniziare a cercare quel dannato mattone di carta; strano come nessuna delle due avesse pensato di cercare un interruttore e dare un po' di vita a quelle biblioteca - forse era stata l'esigenza di voler uscire da lì in fretta a non farle pensare affatto. Lo sguardo di Yuki toccò ogni angolo, ogni balaustra di legno scuro, ogni scaffale gremito di tomi.

«Yumi, perché non--», la voce dell'albina si raggelò, come se fosse stata strozzata a morte da una mano oscura.

Eccola di nuovo.

La stessa dolorosa e stupida sensazione, la stessa che aveva sentito dopo aver provato l'angoscia di conoscere quel Takugawa. Presa per l'esile collo bianco, sembrava andare a fuoco interamente, pezzo per pezzo, ogni centimetro del suo corpo. Non capiva. Non ci riusciva affatto - e non le importava nemmeno, voleva solo che quell'orribile sensazione sparisse. Si piegò leggermente sulle gambe, premendo una mano sulle clavicole, come se il gesto potesse darle conforto.


 

«Che dici se partiamo da sopra, al lato sinistra? Mi ispira fiducia... », Yumi, in tutto questo, non aveva fatto caso al malanno dell'amica, poiché era stata silenziosa e non aveva emesso un fiato. E così avrebbe dovuto essere: non doveva sapere niente. Era troppo apprensiva, troppo ancorata all'idea che la sua unica amica potesse lasciarla - per farle sapere che quell'idea poteva essere reale.

«Sì, vabbene», rispose Yuki, rimettendosi celermente dritta.

"Sì, vabbene", diceva lei. La vide indicare le ampie scale davanti ai loro occhi con aria distratta, per poi girarsi a guardarla. «Vieni, andiamo».

Si accinsero ad avanzare, arrivando ai gradini delle scale e cominciando a salirli lentamente. Il suono dei piccoli tacchi delle loro scarpe rimbombava rumorosamente nel tetro ambiente, vuoto come il guscio di una lumaca. In cima, sul pianerottolo, una finestra si ergeva arrogante, regalando una pallida e silenziosa luce lunare. Yuki si sentì quasi al cospetto di qualcosa di sacro - avrebbe dovuto inchinarsi a lei, alla luna che aveva accompagnato la sua vita.


 

Si fermò, davanti alla finestra.

Le fulgide gemme dorate, incastonate nelle orbite, ornate da ciglia nere come l'oblio - guardavano in alto, incrociando la sua figura luminosa. Era così bella da ammaliarla.

Avrebbe voluto rimanere lì. Priva di pensieri. Priva di dolore alcuno.

Priva della sua rigida anima.

Ma il bruciante dolore che aveva già avvertito, tornò ad infestarla, e la riportò sul pianerottolo, a guardare qualcosa che non avrebbe potuto aiutarla.


 

«Tutto okay?». La voce di Sayumi la catturò in un angolo. L'albina stava premendo ancora una volta quel punto, più o meno alla base del collo - i delicati lineamenti del suo viso si stavano infrangendo in una smorfia dolorante. «Sì, certo», rispose, impassibile.

Sayumi aggrottò le sopracciglia. «Non mi pare proprio. Guarda come sei pallida. Voglio dire, molto più del solito».

«Sto bene, sul serio», replicò l'albina, togliendosi quella mano per scuoterla - e Sayumi la prese, afferrandola saldamente.

«Perché sembra tu stia evitando le mie domande, invece? Credo sia da un po' che va avanti così. Schivi, evadi, scappi via e torni dopo un sacco di tempo. Io mi preoccupo, lo sai, quindi perché - anche per la mia sanità mentale - non puoi semplicemente dirmi cosa c'è che non va? Hai, non so, un qualche tipo di malattia? Io sono qui. Sarò sempre qui. Sono nata e ho vissuto fino ad adesso per un motivo, ne sono certa: conoscere la mia più cara amica».


 

Yuki la guardò. I suoi occhi erano appena sgranati, la bocca era socchiusa - la parola morte, in fondo alla sua gola.

Lei era nata e aveva vissuto per conoscerla. Perché loro due potessero conoscersi. Conoscersi, reggersi a vicenda, ricordarsi che non c'era niente di inaffrontabile.


 

Ma lei non poteva accettare questa realtà. Con un brusco scattò, liberò la mano dalla presa di Sayumi e indietreggiò, come un feroce animale ferito.

«Yu-».

«Lascia perdere. Lascia perdere!». La sua voce echeggiò come un tormento. Sayumi guardava quella ragazza, che le era tanto cara, ma riusciva a vedere solo lo spesso strato di maschera che celava le sue fattezze - con quella pelle bianca come una tormenta di neve. La guardava, Sayumi, la guardava anche mentre si voltava e metteva un piede in avanti per scendere il primo gradino. Vide come quel passo era stato calcolato male, come sembrava voler atterrare su una superficie invisibile - troppo ampio, distratto.

«Merd-». Rapidamente, Sayumi scattò in avanti e l'afferrò per il braccio che le era più vicino, sentendo come l'albina non stesse facendo nulla per semplificarle il salvataggio. Sembrava, più che altro, addormentata.


 

Ma poi qualcosa sembrò svegliarla - la vide aprire la bocca, sconvolta - e Sayumi dovette impiegare tutta la sua forza per tirarsela indietro, sul pianerottolo.

Accaldata, stanca e preoccupata a morte, Sayumi cercava lo sguardo dell'amica tra la massa di filamenti argentei. «Allora? Devo ancora lasciar perdere?». Cercava il suo sguardo, i suoi occhi, il barlume di amicizia e intimità che le avrebbe permesso di capire cosa stava succedendo - lo cercava, ma invano.


 

Quello che vide non era affatto lo sguardo di Yuki Akawa.

Occhi rossi come rubini splendettero nella penombra - il gelo di quel colore costrinse Sayumi a tremare.

«Yumi... », sussurrò l'albina, prima di raddrizzare la schiena, mentre tutta la sua figura veniva contornata dalla pallida luce lunare. Il luccichio rosso si fece spazio fra l'argento dei suoi capelli scompigliati. «Mi dispiace».


 

E poi, qualcosa di terribile accadde.

Cosa, poi, era difficile da dire - ma accadde, ad una velocità stordente: l'albina era scattata come una volpe, spostandosi alle spalle dell'altra per afferrarle con una sola mano entrambi i polsi, spingendola a tenere le braccia dietro la schiena e quest'ultima inarcata in avanti - i corti capelli lasciavano la trachea in bella vista. Sentiva il suo respiro farsi agitato, pesante. Sentiva che la sua preda si stava innervosendo, ma questo le piaceva, stuzzicava la sua fame.

E vorace, affamata, lasciò affondare i denti nella gola della sua migliore amica.


 

Di quella che aveva sempre voluto proteggere.


 


 


 

* zashiki warashi: "il bambino del salotto", è uno yōkai, cioè uno spirito, facente parte del folclore giapponese. Viene considerato come uno spirito domestico.

NOTA: 
Beh. Come potrei dirlo. 
Non pensavo che avrei pubblicato qualcosa di nuovo, a distanza di tutto questo tempo, ma alla fine ho ceduto a questo desiderio e ho ripreso a pubblicare (anche su Ao3, tra l'altro); prima di ogni cosa, ho pensato di riscrivere da capo tutto ciò che avevo scritto di Vampire Devil fino a questo momento - e non ho ancora finito, mannaggia a Cristina D'avena - soprattutto perché il mio modo di scrivere di qualche anno fa lo trovo un po' schifoso come poche cose al mondo brutto, obsoleto quasi. 
Quindi niente. Vampire Devil remake a 360°, in parole pavore. 
Spero sia di vostro gradimento e se vi va, lasciate pure una recensione!

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale > Vampiri / Vai alla pagina dell'autore: kurojulia_