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Autore: Malveria92    18/07/2018    0 recensioni
La scena che ci trovammo davanti era una delle più disgustose che avevo mai visto: al centro dello spiazzo c’era un mucchio di cadaveri in decomposizione, ricoperti di bava appiccicosa. La pelle rimasta sui loro corpi si staccava e scivolava a terra facendo suoni disgustosi e gli occhi, per chi ne aveva ancora, erano bianchi e vitrei oppure vuoti e pieni di piccoli vermi rosei.
Tutti morti con il volto sfigurato dalla paura.
Ne contammo quindici, almeno di quelli che riuscivamo a vedere e due probabilmente facevano parte dell’ultima squadra entrata...
Il destino di un ragazzo che nasce dal fuoco, un Vecchio che vuole dare speranza a chi non ne ha più, l'inizio di un'avventura che porterà Liam in tutte le terre di Avelod per cercare il modo di spezzare la maledizione che rischia di farlo scomparire per sempre. Nella sua strada intrisa di odio e vendetta, incontrerà un'altro destino che è strettamente legato al suo...
Genere: Avventura, Fantasy, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il sole mi trovò già sveglio. Ande non venne a colazione e io mi sentii ancora più stupido, non volevo ferirla ma non ero riuscito a fermarmi.
Mi odiava ora? Forse sì.
Ci organizzammo velocemente per la spedizione di ricerca: corde, coltelli, acqua e razioni secche per ogni evenienza. Quel giorno non dovevano esserci preghiere; se le campane non suonavano eravamo salvi. Era una giornata tiepida per essere la fine di Febbraio, il sole scaldava le rocce ma non gli donava un colore differente, purtroppo. Se non fossi più risalito, l’ultima cosa che avrei visto prima di scendere sarebbe stata una pietra. Non ero d’accordo, così guardai il cielo azzurro e fui pronto a partire.

- Sei certo di volerlo fare? – mi chiese Verto mentre mi aiutava a legarmi in vita la corda – Insomma, non sei obbligato ad aiutarci quindi perché lo stai facendo?

 -Ah, questa sì che è una bella domanda! – volevo rispondergli che la risposta era semplice e riguardava la mia voglia di andarmene il più presto da Alisia, ma invece tacqui.
Non mi sembrava una risposta abbastanza forte, per convincere qualcuno della mia totale voglia di estraniarmi dai fatti che erano accaduti in quella città.
Avevo pensato a molte alternative pur di non dover scendere io a rischiare l’osso del collo, tra le quali c’erano: mandare lì sotto altre persone,  rinchiuderci un animale che attirasse la bestia allo scoperto oppure fare rumori assordanti appena fuori dalle gallerie.
Le scartai tutte; la prima perché nessuno sano di mente sarebbe sceso di nuovo lì sotto, la seconda perché non volevo sacrificare un povero animale che non c’entrava niente e infine la terza perché far tanto rumore, poteva sì attirare il verme all’esterno ma c’era il pericolo che si potesse scatenare in tutto il paese, banchettando a piacimento.
Quindi anche se di malavoglia, l’unica soluzione accettabile era andare di persona, così legati stretti alla vita e con una lanterna in mano io e Catus iniziammo la discesa.

- Solo tu potevi convincermi a scendere qui sotto – iniziò il vecchio a voce bassa.

Le tracce, che imparai presto a riconoscere, ci portavano sempre più in basso, destra, sinistra, sinistra, destra e dritto, avevamo fatto così tante svolte che mi ero già perso.
Nelle gallerie faceva freddo e l’umidità entrava nelle ossa, riempiendole di acqua gelida, la puzza di chiuso e di argilla entrava nelle narici innalzandole a loro dimora.
Per tutta la mattinata non facemmo che camminare, senza sentire altro rumore se non quello dei nostri passi.
Quando l’aria si fece ancora più stantia e da fredda e umida tramutò in calda e afosa, ci fermammo ad un bivio e per capire che direzione prendere ci mettemmo circa mezz’ora: destra o sinistra? Ormai riconoscevo le impronte ma non sapevo ancora distinguere bene quali erano le più vecchie e quali quelle recenti.
 Catus si era arrugginito? Il suo viso non tradiva alcuna espressione e questo mi mise in allerta.

- Da questa parte – sussurrò infine girando a sinistra.

Lo seguii e pochi metri dopo la luce delle lanterne si rifletté colorata sui muri, era bellissimo! Le gemme rosse, verdi, azzurre, viola e bianche creavano un arcobaleno che illuminava la galleria di mille sfumature.
 Mi chiesi perché mai fuori di lì vivevano in quel mondo grigio, quando nelle cave ne esisteva uno così pieno di colori. Il Dio Acaun in realtà doveva essere un esibizionista!
Guardando le pareti, non mi accorsi che il Vecchio si era fermato e ci andai a sbattere contro. Fissava il pavimento grigio e granuloso, seguendo il suo sguardo notai un oggetto, al lato della strada, quasi sotterrato dalla polvere.

- Questo è un coltello di un Maretak Desertico – disse prendendo in mano il ferro per poi passarmelo.

Maneggevole e di facile utilizzo aveva la lama lunga come la mano di un uomo, leggermente più larga vicino l’impugnatura, terminava con una punta fina e aguzza. La particolarità però, oltre allo strano materiale di cui era fatta che non riuscivo a riconoscere e ai simboli incisi sulla linea di tempra dell’arma, stava nell’impugnatura che rivestita con uno strano cuoio nero era stata impreziosita da una piccola gemma blu zaffiro.
Lo intascai; al suo precedente proprietario non sarebbe più servito.

- Significa che siamo sulla strada giusta – sussurrai con il sudore che mi imperlava la fronte.

Se la strada giusta era quella che ci portava a trovare oggetti smarriti di persone ormai morte.
Quando il mio stomaco mi avvertì che era ora di pranzo, ci fermammo vicino ad un altro incrocio a mangiare un po’ di carne secca insipida.
Lungo la via avevamo ritrovato altri oggetti: torce, una scarpa e anche un ciondolo vuoto di quelli in cui all’interno si tengono i ritratti di famiglia; non proprio un incoraggiamento a continuare, certo, ma ci ricordava di stare attenti, così mentre stavamo mangiando nessuno dei due fiatò.
Senza il rimbombo leggero dei nostri passi era più facile accorgersi di altri rumori. Nel silenzio quasi assoluto i sensi si espansero e concentrati come eravamo, ci accorgemmo subito di un suono che non avremmo mai voluto sentire: qualcosa stava strisciando verso di noi.
Trattenemmo il fiato, con il cibo stretto in mano e ci facemmo piccoli piccoli, mentre una bestia gigante ci passava proprio davanti, neanche dieci passi e avrei potuto toccarla per scoprire se era veramente viscida come sembrava. La luce della lanterna illuminò il verme rugoso abbastanza bene da vederne il muso piatto, aveva le fauci come quelle delle sanguisughe carnivore: file di denti gli ricoprivano il palato, giù fino a dove si riusciva a vedere. Ai lati del corpo aveva degli spuntoni appuntiti con la quale graffiava i muri delle gallerie, chi sa nel deserto a cosa gli potevano servire?
Fortunatamente ci superò continuando dritto, sembrava non avesse fatto caso a noi, come se non avesse in alcun modo avvertito la nostra presenza. Quando sparì dietro una curva della galleria, ricominciammo a respirare così piano che pareva avessimo paura di attirare la sua attenzione aspirando troppa aria.
Era sicuramente qualcosa che non avrei mai potuto uccidere, aveva più armi di me.
Dopo esserci tolti gli stivali, che facevano troppo rumore sul pavimento roccioso, imboccammo la strada da dove era venuta la bestia.
Meglio stargli lontano.
Non trovammo altri oggetti dei dispersi ma dopo quelle che parvero ore, ci accorgemmo di altre tracce molto più raccapriccianti; chiazze scure e a volte abbondanti ricoprivano la strada, come pozzanghere di fango secco. Alcune erano allungate, come se qualcosa ci fosse passato sopra mentre altre sembravano rimaste come quando erano state formate, a testimoniare il luogo esatto in cui il proprietario di quel sangue, fosse morto. Dopo poco la galleria iniziò ad allargarsi e una folata di vento, proveniente da chi sa dove, portò con se un odore putrido che mi arrivò dritto alle narici facendomi tossire disgustato. Con le mani a tappare naso e bocca, entrammo in una grotta così alta che le nostre luci quasi non riuscivano a raggiungere il soffitto.
Appesi ai muri della caverna notammo delle lanterne e anche se avevamo paura di vedere cosa c’era più in là del nostro naso, andammo a riempirle con il nostro olio per poi accenderle una per una.
La scena che ci trovammo davanti era una delle più disgustose che avevo mai visto: al centro dello spiazzo c’era un mucchio di cadaveri in decomposizione, ricoperti di bava appiccicosa. La pelle rimasta sui loro corpi si staccava e scivolava a terra facendo suoni disgustosi e gli occhi, per chi ne aveva ancora, erano bianchi e vitrei oppure vuoti e pieni di piccoli vermi rosei.
Tutti morti con il volto sfigurato dalla paura.
Ne contammo quindici, almeno di quelli che riuscivamo a vedere e due probabilmente facevano parte dell’ultima squadra entrata.

- Gli altri otto? – bisbigliai – Saranno nello stomaco di quella cosa?
- No, al massimo ce ne sarà uno, ne tiene tanti nello stomaco solo per catturarli – Fece una pausa, un grosso sospiro e continuò atterrito - Sono stati tutti divorati vivi. Il verme delle sabbie li ingoia interi, quella fila di zanne che hai visto, serve per ferire le prede il più possibile così che il suo veleno paralizzante faccia subito effetto. Poi li risputa e crea la sua dispensa…

- Veleno paralizzante? E in che senso dispensa? – domandai temendo la risposta.

- Non li mastica, ne prendere un pezzo per volta perché non ha una buona digestione, così usa la sua gola  per spellarli o per grattare via la carne dalle ossa, poi il resto lo rigetta – gli occhi scuri di Catus sembravano guardare lontano, come se stesse osservando una scena già vissuta in passato - La bava li mantiene in modo che può continuare a cibarsene finché non ne rimangono le ossa. Le sue prede possono rimanere vive anche per due o tre giorni…

- Perché gli ultimi arrivati non sono ancora vivi allora? – domandai più a me stesso che al Vecchio.

Trovai la risposta esaminando i corpi: si erano uccisi pugnalandosi al cuore. Con molta probabilità si erano trovati nella situazione in cui si ha poco tempo per scegliere come morire, dolorosamente e molto lentamente oppure con un colpo netto.
Non li biasimavo, non li consideravo affatto dei codardi perché la loro non era una scelta tra vivere o morire, ma tra morire come uomini o morire come cibo.
Non volevo pensare che probabilmente chi non era stato altrettanto fortunato, prima di morire era entrato da vivo, più di una volta, nello stomaco di quella cosa. Non volevo nemmeno immaginare il terrore e il dolore che tutti loro avevano provato ad essere divorati e maciullati più e più volte vedendo con i propri occhi l’interno del suo stomaco. Sapevo per certo che, le persone in quella pila al centro della sala, avevano sperato incessantemente di morire infilzati da uno dei suoi denti, avevano visto e sentito i loro amici fare una fine orrenda, la stessa che stavano facendo anche loro e avevano sperato di potersi muovere per uccidersi da soli o a vicenda, ma sicuramente invano.

- Quindi gli atri dove sono? –  chiesi ormai disgustato.
- Non lo so – mi rispose cupo.

Ispezionammo la sua tana: mentre Catus cercava di prendere, usando tutta la cautela possibile, almeno un oggetto da ognuno dei corpi che poteva raggiungere, io studiavo i muri cercando un’altra eventuale via di fuga, ma trovai solo una piccola galleria che andava in salita, era da lì che soffiava l’aria fresca, che mi asciugò un po’ il sudore dalla fronte e cacciò almeno in parte l’odore putrescente che permeava le mie povere narici.
Feci appena in tempo ad avvicinarmi a Catus per riferirglielo che le nostre corde si mossero leggermente, e noi ci impietrimmo: c’era qualcosa che non andava. Ci eravamo accordati con gli altri che erano rimasti fuori che i segnali li avremmo mandati noi per primi appena trovato qualcosa, inoltre quello che avevamo sentito sembrava più un semplice movimento che uno strattone vero e proprio.
Restammo di nuovo in silenzio, e oltre al suono umido, alle nostre spalle, dei corpi che cadevano a pezzi, sentimmo il grattare sulle parti e lo strisciare sul pavimento che ci informò dell’intenzione del nostro vermiciattolo di tornare nella sua tana. Presi il Vecchio per il braccio e lo trascinai correndo verso l’unica altra uscita che avevo trovato, ma le nostre funi si incastrarono e rovinammo a terra. Il mostro si stava avvicinando più velocemente, ci aveva sentito e ormai stava entrando nello spiazzo.
I coltelli non riuscivano a tagliare le corde abbastanza velocemente, è così che erano morti i Maretak? Per colpa dei cavi di sicurezza? Saremo stati divorati anche noi?
No, non lo avrei mai permesso! Presi le mie daghe curve e liberai entrambi. Ci fiondammo verso quella piccola galleria, non badavamo più al rumore che stavamo facendo perché il verme era proprio dietro di noi con quella bocca tonda sempre aperta, pronto a divorarci vivi. Saltammo nel cunicolo che era appena sufficiente a permetterci di strisciare l’uno vicino all’altro, il lombrico si buttò addosso all’entrata facendo tremare tutto, una pietra mi cadde sulla testa e il sangue che mi colò sull’occhio mi fece vedere tutto rosso. Un fischio acuto mi perforò le orecchie e mentre noi cercavamo di arrampicarci su quella salita ripida, l’animale iniziò a aspirare l’aria.  Non riuscivamo più ad avanzare, anzi il risucchio ci stava facendo scivolare dritti nella sua bocca. Catus cercò di infilzare il suo coltello nella roccia, ma ci riuscì solo al terzo tentativo afferrandomi poi per un braccio mentre io cercavo ancora di incastrare il mio.  
Non so quanto riuscimmo a resistere, il verme delle Sabbie non si arrendeva, convinto di aver trovato cibo fresco. La lama che ci teneva ancora vivi iniziò ad inclinarsi.
Eravamo spacciati.
Proprio mentre la nostra ancora decideva di abbandonarci al nostro destino, una mano agguantò il vecchio al polso.

- Su! Tirateci su! – sentii urlare.

Venimmo trascinati con fatica, ma usciti da quel buco buio vidi una tenue luce, e ringraziai l’aria pulita mi carezzò il viso. Sdraiati sul pavimento, fradici di sudore e con il fiatone ci ritrovammo a fissare il cielo: era sera e il sole stava tramontando.
Eravamo usciti?

- Altri soccorritori immagino – disse il tipo che ci aveva tirato fuori da li.
- No, non pensavamo di trovare sopravvissuti. Dovevamo solo capire che bestia si nascondeva qui sotto – risposi con affanno.
- Ora che lo sapete cosa potete fare? Siete intrappolati qui anche voi, proprio come noi – un ragazzo poco più grande di me mi aiutò ad alzarmi, sicuramente era stato lui a reggere la corda per il suo compagno.
Eravamo in un ampio spazio, circondati da lisce pareti di marmo sulla quale erano appoggiati, stanchi e ormai deboli, i pochi sopravvissuti.
Proprio al centro di quella immensa cupola verdognola, si allargava un profondo stagno, intorno al quale erano cresciute piante di ogni tipo, probabilmente lo avevano usato come fonte di cibo e acqua. Grazie a quella pozza non erano morti tutti di fame. Gli uccelli inoltre venivano ad abbeverarsi e chi sa che non ci fosse anche qualche forma di vita nel lago.

- Non avete mai provato ad uscire? – domandai.
- Dalle gallerie non si può, l’ultima volta che hanno tentato sono morte altre due persone. In alto c’è un uscita, ma dovremmo avere le ali per poterla usare – rispose un uomo con tono acido.

Era un tipo alto e ben piazzato, doveva essere un sopravvissuto della spedizione avvenuta il giorno prima, il suo nome era Viro e non aveva ancora avuto il tempo di sperimentare la vera fame come invece avevano fatto i suoi compaesani.
Guardandomi intorno mi accorsi che si assomigliavano un po’ tutti: individui alti, sciupati, con la barba lunga e incolta e  lo sguardo spento, ci osservavano preoccupati.

- Altre due persone da sfamare? – fece uno.
- Non abbiamo abbastanza cibo, ieri due e oggi un’altra coppia. Se continuiamo così moriremo di fame – disse un altro.

Mentre dieci persone discutevano delle nostre vite, Catus distribuì qualche nostra razione a quei piagnucoloni e io iniziai a perlustrare la zona.
Il lago era molto fondo, non era stato creato dalle piogge come mi era sembrato in un primo momento, mi accorsi infatti che al bordo c’erano delle piccole sporgenze come se un tempo ci fossero stati dei ponticelli, probabilmente strutturati a croce, che convergevano verso il centro dove, se si faceva molta attenzione, si poteva intravedere quella che doveva essere stata una piccola scala a chiocciola che scendeva nel buio come le spire di un serpente. Forse portava da qualche parte ma io non volevo rischiare di morire affogato per scoprirlo.
Mi avvicinai ai muri sospettando che anche il luogo in cui ci trovavamo potesse essere stato costruito e infatti passandoci la mano scoprii che erano stati levigati, erano così lisci che poteva solo essere stata opera di un bravo artigiano del marmo.
Non avevo alcuna intenzione di restare lì, dovevo tornare a casa, così continuai a girare in cerchio cercando una via d’uscita che non fosse il laghetto. Studiai il marmo serpentino in basso e in alto illudendomi di poter trovare una sorta di porta nascosta, ma invano.
Non c’era altra strada così guardai in alto, notai che delle radici calavano dal soffitto strisciando sulle pareti, troppo distanti però per poterle usare.
Iniziavo ad attirare attenzione.

- Non ci sono vie d’uscita! Tu pensi veramente che nessuno di noi abbia cercato un modo per andare via di qui? Lo vedi in quanti siamo? Credi veramente di essere più furbo di tutti noi messi insieme? Se vuoi andartene l’unica soluzione è scendere da dove sei salito, ma se non vuoi morire te lo sconsiglio! – urlò Viro con un cipiglio sprezzante.

Possibile che nel continente esistessero delle persone così fastidiose? Aveva forse paura che io avrei potuto trovare quel che a lui era sfuggito?
La mia mano passò su una leggera crepa, i miei occhi brillarono e sul mio viso si aprì un sorriso vincente che però nessuno notò. Presi il coltello che mi era stato così poco utile in tutta quella vicenda e iniziai a scavare con la punta la parete; mi lasciarono fare, nessuno mi prese più in considerazione, neanche Viro si disturbò di disturbarmi, mi osservava però con superiorità come se non valesse neanche più la pena rivolgermi la parola. Il Vecchio venne ad indagare sul mio strano comportamento ma poi non riuscendo a capire cosa stavo facendo si sedette appoggiandosi al muro e mi osservò da lontano per tutto il tempo, si chiedeva sicuramente cosa diavolo stavo combinando.
Restai a grattare il granito verde per cinque giorni, fermandomi solo per dormire e mangiare. Arrivò la Luna Nuova l’ultimo del mese e la mattina successiva quando ormai le mie braccia erano completamente indolenzite, il mio scavare continuo fece impazzire qualcuno.

- Smettila! Smettila! Non ti sopporto più! Mi stai trapassando la testa! Non c’è niente dall’altra parte e sicuramente non potrai arrivarci con un’inutile coltello! – Viro, per mia sfortuna, si era arreso nel suo intento di non rivolgermi la parola e mi stava urlando contro mentre teneva le mani sulle orecchie scuotendo la testa di qua e di là. Il suo lungo codino biondo seguiva i movimenti del volto facendolo assomigliare ad un cane che stava scodinzolando, per quanto brutto, sporco e rognoso.
Mi si avvicinò con rabbia volendo togliermi la lama dalle mani ma, con un ultimo colpo sulla pietra, lo scricchiolare della crepa che si allargava arrivando fino in cima, ci immobilizzò tutti. L’uomo con il braccio ancora disteso rimase fermo a fissare il mio coltellaccio incastrato nel marmo.
   
 
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