N.d.T.: molti di
voi probabilmente avranno aperto questa
fanfiction e iniziato a leggere senza capire nulla, questo
perché si tratta del
secondo capitolo ed io ho abbandonato questa traduzione per quasi un
anno
ormai! Chiedo venia, l’università mi ha tenuta
impegnata più del previsto. Ad
ogni modo, sono tornata al lavoro! Vi lascio al secondo capitolo.
Dolorosi ricordi
Il capitano portò
una mano al viso per cercare di nascondere
la sua espressione scioccata. “M-moccioso,” disse,
mentre un certo rossore
appariva sopra la sua sciarpa. Eren rimase fermo a fissarlo, senza
accorgersi
nemmeno della gente che si scontrava contro di lui e degli sguardi
infastiditi
dei passanti. L’altro uomo diede segno di averlo riconosciuto
immediatamente e dei
brividi attraversarono il corpo di Eren.
Era sempre stato
così basso? Così facile da decifrare? Il cuore
di Eren fece una capriola, ma non sapeva il perché. Non
riusciva a iniziare a
parlare.
“Questa volta sei
silenzioso,” disse il capitano mentre la
sua espressione si rilassava di nuovo. Era il movimento nervoso delle
sue mani
che lo tradiva, rivelandogli che non era così calmo e
impassibile come lui
avrebbe voluto fargli credere.
“Possiamo parlare da
qualche parte?” chiese Eren.
Il capitano annuì.
Si incamminarono a passo
svelto. Eren poteva a mala pena
sentire le sue gambe per lo shock avuto, ma era fiducioso che lo
avrebbero
sorretto mentre riversava tutta la sua attenzione sull’uomo a
fianco a lui. Il
capitano (maledizione, qual era il suo
nome?) indossava un cappotto ampio nero e una sciarpa blu,
vestito come
tutti gli altri uomini d’affari e alla moda tra cui Eren non
si sentiva molto a
suo agio. Lo avrebbe riconosciuto senza il familiare taglio di capelli?
Pensò
di no. Fu enormemente grato del fatto che il capitano non avesse voluto
cambiare il suo aspetto. Armin aveva abbandonato da tempo il taglio a
scodella
dell’Altro Armin e nessuno lo avrebbe riconosciuto per strada
senza di esso.
Il suo accompagnatore
entrò in una caffetteria, senza
controllare se Eren lo stesse seguendo. Sì, eccome se lo
seguiva.
“Cosa vuoi
prendere?” chiese il capitano, togliendosi i
guanti di pelle. Eren osservò mentre lo faceva cercando di
ricordare la
domanda.
Cosa
vuoi prendere.
Giusto.
“Qualcosa di
caldo,” disse. Abbassò la cerniera della giacca
e iniziò a rovistare nella tasca interna cercando il
portafoglio, ma una mano lo
fermò.
“Vai a
sederti.”
Quella voce ferma non
permetteva discussioni ed Eren lasciò
il capitano stare in fila, scegliendo un tavolino in un angolo del
locale. La
sua testa era un brulicare di domande, ma una spiccava sulle altre:
quale diavolo
era il vero nome del capitano?
Forse iniziava con la L. Gli
era già capitato di pensarci,
ma consultare le liste di nomi per bambini non aveva aiutato per
niente.
Davvero iniziava per L? L’unico nome che iniziava per L che
gli venne in mente
in quel momento fu Leeroy Jenkins.
Era abbastanza sicuro che non
fosse quello giusto.
Dovette interrompere il suo
brainstorming quando il capitano
lo raggiunse con in mano due bicchieri di carta. Ne porse uno a Eren
prima di
sedersi di fronte a lui e di togliersi cappotto e sciarpa. Aveva
un’espressione
corrucciata ed Eren si chiese perché avesse accettato di
parlare con lui se non
voleva.
No. Non era quello.
Semplicemente, il capitano non voleva
esprimersi come facevano gli altri. Non ci sarebbero stati sorrisi
pieni di
lacrime e abbracci, non come era stato con Mikasa e Armin.
“Qual è il
tuo nome?” chiese Eren, aveva deciso di gettare
la prudenza al vento. Poteva sempre fingere di aver capito come si
chiamava
attualmente, non qual era il suo nome prima.
“È
lo stesso,” rispose il capitano.
Dannazione!
“Il tuo?”
“Ehm,
è lo stesso. Eren. Eren Jaeger. Sono entrambi gli
stessi.”
Il
capitano alzò un sopracciglio. “Io so qual era il
tuo nome.
Pensavi lo avessi dimenticato?”
Eren
scrutò con attenzione la sua bevanda. Sperava si fosse
raffreddata abbastanza per poterne bere un sorso.
“Tu lo hai dimenticato,”
disse il capitano, la voce non nascondeva la sorpresa. “Ah.
Ecco allora perché
mi chiamavi capitano.”
Si
poteva morire per l’imbarazzo? “Era così
come la gente ti
chiamava. Come io ti chiamavo.”
“Non
mi sono offeso,” disse l’uomo, ma per quanto ne
sapeva Eren,
dietro quell’espressione vacua poteva nascondersi una rabbia
mostruosa. “È
Levi.”
“Levi,”
mormorò Eren, si sentì come se tutto fosse
tornato a
posto. “Capitano Levi.”
“Solo
Levi.”
Eren
arrossì. “Giusto.”
“Volevi
parlare,” disse Levi. Non sembrava proprio impaziente,
invece era come se stesse ricordando a Eren qualcosa che potrebbe aver
dimenticato.
Eren
aveva dimenticato tante cose, ma non che volesse parlare con
quest’uomo.
“Non
saprei da dove iniziare,” disse per scusarsi. “Dopo
così
tanto, no?”
Levi
si avvicinò con dell’interesse nel suo sguardo.
“Hai trovato
gli altri?”
“Sì,
due,” disse Eren, pensando potesse essere divertente fare un
esperimento. “Indovina chi.”
“Tua
sorella,” rispose subito Levi. “E…
quello con la testa a
fungo. Il biondino. Quello intelligente.”
Eren
stava per chiedergli i loro nomi, ma preferì di no.
“Indovinato, Mikasa mi ha trovato quando avevamo sette anni,
infatti non mi
fido dei miei ricordi di prima di allora, e abbiamo trovato Armin
quando
avevamo sedici anni.”
“Siete
coetanei?”
Eren
si accigliò. “Lo siamo sempre stati.
Perché?”
Levi
distolse lo sguardo. “Ho trovato degli altri. Sono
più vecchi
di quanto lo erano, almeno rispetto a me. Erano più giovani.
E tu sembri avere
più anni di quelli che dovresti avere.”
Eren
sorrise interdetto. “Più anni di quelli che dovrei
avere?
Quanti? Quanti anni hai tu?”
“Ventotto.”
“Cosa
significa?”
Levi
bevve un sorso dal suo bicchiere, the, dall’etichetta che
sporgeva, poggiò le mani sul tavolo e, con gesto deciso,
girò la testa altrove.
“Ho una teoria. Siamo passati attraverso... una porta d'accesso. Siamo nati nel momento in
cui siamo usciti dall’altra linea temporale.”
C’era
qualcosa nella voce di Levi che fece crescere l’ansia in
Eren. Una porta d'accesso? Uscire dalla linea temporale? Tra i suoi
pensieri
gli sorse un’idea terrificante. “Usciti dalla linea
temporale. Vuoi dire
morti?”
Levi
annuì.
“Ma
tu ora hai dieci anni più di me,” disse Eren,
appena
sorridendo. “Significa che sei-sei…”
Cominciò
a sentire il proprio stomaco attorcigliarsi. Avanzò con
la sedia, preso completamente alla sprovvista. Ricordava di aver
passato delle
lunghe notti a parlare, di essere picchiato, ricordava un grande rimpianto.
Non
ricordava… non ricordava…
Aveva
sentito il suo nome, ma non riusciva a dipanare la fitta
nebbia dei suoi pensieri, l’annebbiamento della sofferenza.
Il dolore lo aveva
lasciato annebbiato, cieco, sordo. Nell’altra vita aveva
potuto sapere com’era
vedere il suo eroe morire, e ne aveva cancellato il ricordo. Avrebbe
voluto
continuare con la sua vita senza riaverlo.
“Eren.”
Questa volta delle mani accompagnarono la voce,
costringendolo a raddrizzarsi. Fece un respiro profondo nonostante le
lame che
sentiva nei polmoni e aprì gli occhi. Denti stretti.
L’uomo che gli ricambiava
lo sguardo gli apparve all’improvviso molto più
intrigante.
“Capitano,”
disse Eren. Anzi, rantolò.
Alle
sue parole apparve un mezzo sorriso. “Levi.”
“Non…”
Levi
annuì appoggiandosi sulla sedia. “Va bene. Nemmeno
io ricordo
molto. O almeno, per molto tempo non ho ricordato nulla.”
“Vorrei
chiederti una cosa su questo, se non ti dispiace.”
“Spara.”
Eren
intrecciò le dita, mentre un’ansia diversa lo
riempiva. Perlomeno
questa scoperta la faceva sembrare una cosa di poco conto.
“Ho un certo
ricordo,” esordì. “In un tribunale, o
qualcosa di simile.”
Levi
trasalì. “Credo di sapere quale ricordo
intenda.”
Se
lo sapeva, Eren non lo avrebbe descritto a voce. Aspettò che
fosse Levi a parlare, avvertendo la tensione attorno alla sua bocca.
“Credo
che in quel momento sia stato necessario,” disse Levi.
“Non
sono sicuro… no, invece sì. Era per fare scena,
anche se non ricordo il perché.
Aveva qualcosa a che fare con il tuo mutare forma. Ricordo anche che
stavi in
una cella. Ciò che facevo riguardava quello, ma è
tutto ciò che riesco a
ricordare.”
Era
già qualcosa, anche se Eren avrebbe sperato in una
spiegazione
migliore.
“Sia
Mikasa sia Armin ricordano che io mutavo forma,” disse Eren.
“Ma io no. Non ricordo nulla di tutto ciò. Ricordo
solo che potevo guarirmi le
ferite.”
Levi
annuì e calò tra di loro un silenzio
imbarazzante.
Riportarono la loro attenzione ai loro bicchieri ed Eren bevve un
sorso. Era
dolce, un tipo di mocha. Forse caramello. Chiuse gli occhi mentre
beveva un
sorso più lungo, gustandosi l’aroma del
caffè e il sapore dolce sulla sua
lingua. Sì. Era sicuramente caramello.
Quando
rialzò lo sguardo, Levi lo stava guardando e
un’ondata di
calore pervase il corpo di Eren, e non dipendeva dal caffè.
Ripensò alle altre
domande che voleva fargli, che tipo di rapporto c’era
esattamente fra di loro,
se sapeva che a Eren in qualche modo piacesse, ma anche se tutte queste
cose erano
successe in un’altra vita si sentiva comunque troppo in
imbarazzo per
chiederle.
“Chi
hai trovato?” chiese Eren sperando di non svelare il suo
imbarazzo.
“La
mia squadra,” disse Levi con voce quieta. “Quelli
che sono
morti mentre tentavano di fermare il gigante femmina. Loro sono quelli
più
vecchi. Vivono la loro bella vita, sono impiegati in una specie di casa
produttrice di videogiochi che sta cercando di ricreare il sistema di
movimento
tridimensionale. Ci stanno lavorando da anni. Poi mi hanno trovato
Erwin e
Hange, vivono poco lontano da qui. Tecnicamente, non si chiama
più Hange, ma si
fa ancora chiamare così. Erwin è sempre Erwin,
è nato in Olanda.”
“Il
comandante e la scienziata pazza?”
Levi ridacchiò.
“Sì. Entrambi sono più giovani di me,
questa
volta, quindi deduco che prima mi siano sopravvissuti.
Bastardi.”
Eren avrebbe voluto ridere alla
battuta ma il dolore di
prima lo stava attanagliando allo stomaco, non poté fare
altro che stringere i
denti e far sembrare un sorriso la smorfia che stava facendo. Si
sarebbe
ricordato come era morto Levi se ci avesse pensato abbastanza a lungo?
Aveva la
sensazione di essere stato lì presente, ma non sapeva come
era stato ai suoi
occhi o cosa era successo. Gli venne in mente un’ipotesi
orribile.
“Moccioso? Oi,
moccioso.”
Eren lo guardò e si
sentì torcere dentro. “Non ti ho ucciso
io, vero? Nell’altra mia forma? So che…“
“Non essere stupido.
Non avresti potuto uccidermi neanche
provandoci, forse per sbaglio. Non ricordo esattamente come sono morto,
ma non
è stata colpa tua.”
“Ma io ero
lì?”
Levi tamburellò le
dita sul tavolo, come se stesse per
mentire od omettere qualcosa di importante, ma tutto ciò che
disse fu: “Tu eri
lì.”
Allora Eren come avrebbe potuto
dimenticarlo? Aveva vissuto
dieci anni senza di Levi, se la sua teoria fosse stata esatta. Ne
sarebbe
impazzito, no? O era davvero quello il problema? Ricordava luoghi,
odori,
sensazioni, ma i suoi pensieri dell’altra vita erano
annebbiati.
“Come stanno Erwin e
Hange?” chiese, cercando di distrarsi
dal dolore nel suo stomaco. Ricordò a sé stesso
che non sapeva se Levi sarebbe
stato ancora così collaborativo, o se avrebbe perfino voluto
mantenere i
contatti ora che avevano parlato. Proprio non ce la faceva a stare
lì seduto e
autocommiserarsi.
“Hange è
la stessa. Esattamente la stessa. Sarebbe potuta
nascere in qualsiasi mondo e sarebbe la stessa rompiscatole che
è sempre stata.
Sta studiando per il dottorato in una qualche strana specie di
psicologia.
Erwin è un padre di famiglia, anzi, lo diventerà
presto. Cazzo, quanto è
felice. È tutto ciò per cui ha sempre lottato,
è il suo paradiso personale.”
Eren deglutì.
“E tu?”
Levi rise. “Guardami.
Sembro diverso? Sono sempre stato
stronzo e cinico. L’essere nato in questo mondo non ha
cambiato niente, a parte
il fatto che adesso io non abbia proprio motivo di esistere.”
“Cosa vuoi
dire?” chiese Eren con la voce che non nascondeva
il panico. Le sue mani si chiusero in pugni sul tavolo.
Levi lo guardò e il
suo sguardo tagliente si addolcì. “Non
intendevo proprio quello.”
“Ah
sì?” Eren non riuscì a trattenere la
rabbia nella sua
voce. “Cosa intendevi, allora?”
“Calmati un
po’, moccioso. Non ho nessuna intenzione di
suicidarmi nei prossimi giorni. Intendo questo mondo. Non sto dicendo
che mi
manchi uccidere i giganti, ma almeno quello era semplice.”
“Quindi che cosa fai
ora?”
“Lavoro,”
disse. Guardò l’orologio. “Supponendo
che non
venga licenziato per questo.”
Eren spalancò gli
occhi. “Potrebbero licenziarti?”
“Forse. Magari
no.”
Sembrava che per lui fosse la
cosa meno importante del
mondo.
“Dovrei lasciarti
andare a lavoro, allora,” disse Eren,
senza riuscire a nascondere il suo disappunto.
Levi alzò un
sopracciglio. “Spero tu abbia pensato di darmi
prima il tuo numero.”
“Cosa? Io…
sì, certo. Non intendevo… certo che lo avrei
fatto.” Afferrò un tovagliolo e lo
piegò, quando si ricordò di non avere una
penna. Le sue orecchie diventarono fucsia. “Ehm,
penna?”
Levi gliela diede, insieme al
biglietto da visita.
“Non è
importante,” disse lui. “Il lavoro, voglio dire.
Posso restare.”
Eren avrebbe voluto, ma era
troppo nervoso per darlo a
vedere. “Le lezioni iniziano tra poco.”
Terminò di scrivere il suo numero e
aggiunse il suo indirizzo. “Posso dire a Mikasa e Armin di
te? Abbiamo cercato
Hange per mesi ormai e se Armin sapesse che l’abbiamo trovata
la smetterebbe di
farmi leggere tutti gli articoli che lui pensa essere suoi.”
“Perché
non avresti dovuto dire loro?” fu la sola risposta
di Levi, ed Eren si sentì in imbarazzo un’altra
volta. Giusto. Perché a Levi
sarebbe andato bene conoscere lui, ma non Mikasa e Armin? Era una cosa
stupida.
Eren finì il contenuto del suo bicchiere sperando di
dissimulare le sue mani
tremanti. Quando lo poggiò, il bicchiere si
accartocciò da quanto lo stava
stringendo forte.
“Grazie,”
disse, fissando il tavolo. “Non avrei mai pensato
che ti avrei rincontrato così. Pensavo avrei dovuto darti la
caccia.”
Levi annuì.
“Vai a lezione, moccioso.”
Eren assentì.
“A presto,” disse impacciato. Si alzò in
piedi
e in quel momento volle toccare l’altro, ma non si erano mai
abbracciati o
toccati molto, non che Eren sapesse, e non sapeva come cominciare.
“Sì,”
disse Levi. “Presto.”
Eren rindossò la
sciarpa e la giacca e si diresse verso la
porta, dando un ultimo sguardo dietro le spalle verso Levi. Fu solo un
istante,
un solo passo dell’andatura veloce di Eren, ma vide Levi
abbandonarsi e
poggiare il mento sulle mani. Vedere quel momento di debolezza del
capitano gli
provocò una fitta al cuore.
Cosa aveva
detto Eren per farlo rimanere così?