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Autore: Alicat_Barbix    23/07/2018    2 recensioni
In un universo alternativo, in cui i cuori di ognuno interagiscono con i loro proprietari, Sherlock Holmes, brillante consulente investigativo, e John Watson, disperato medico militare in congedo dall'Afghanistan, si incontrano e i loro cuori non riusciranno mai più a tacere. Ma a volte, i fatti presenti sono irrimediabilmente influenzati da sentimenti e decisioni passate...
Dal testo:
(...)
“Su questo tavolo c’è una boccetta buona e una cattiva. Il suo scopo, signor Watson, è quello di scegliere una delle due boccette, sperando di non aver preso quella velenosa.”
(...)
“La boccetta cattiva. Voglio sapere qual è.”
(...)
“E’ il suo cuore il problema, non è vero?”
(...)
“La boccetta.”
Con un fluido movimento della mano, spinge avanti una delle due boccette, un sorriso ferino sulle labbra.
(...)
Chiudo gli occhi e mi avvicino alle labbra la morte. Addio vita. Addio mondo. Addio cuore che non ho più.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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IN A HEARTBEAT
 
by Alicat_Barbix
 
PROLOGO
 
John’s POV. Adoro questa stagione. E’ semplicemente liberatoria la sensazione che mi avvolge ogni volta che metto piede fuori da quella topaia, con l’aria fredda che mi avvolge e il cielo plumbeo che incombe minaccioso. E’ durante giornate come queste che mi sento libero di chiudere gli occhi e lasciare che il grigiore spumoso del firmamento mi avvolga, attenuando il grigiore interno, il senso di vuoto. Non so che fare della mia vita, forse non l’ho mai saputo. La strada di tutti gli altri è chiara, nitidamente tracciata dalla loro nascita, mentre io… io sono solo un involucro dentro al quale non c’è vita, dentro cui non arde quella fiamma che anima chiunque incontri per strada. Sono spento, sbiadito, sfiorito.
“Ehilà, John!”
Quasi non odo la voce catarrosa e roca di Warren, il giornalaio da cui di solito acquisto il mio Times quotidiano. Mi volto con aria forse smarrita e quando incontro il suo affabile volto rubicondo mi apro in un sorriso tirato, magari anche falso. Mi capita spesso, ultimamente: con Ella, con mia sorella quando non litighiamo, con i vecchi compagni d’università… E’ sempre più difficile mascherare ciò provo davvero dietro a questa espressione all’apparenza solo un po’ stanca. Succede anche quando mi guardo allo specchio: mi meraviglio di quanto l’aspetto esteriore riesca ad emulare una qualche emozione così distante da quello che invece ti corrode interiormente.
“Salve, Warren.”
“Lo vuole il suo solito quotidiano?” mi domanda allungandomi una copia del Times fresca fresca di editoria.
“Ehm… Sì, grazie, Warren.” biascico accettando il giornale e frugandomi in tasca alla ricerca degli spiccioli necessari per pagarlo, ma lui mi allontana la mano col compenso, borbottando un ma si figuri!
“Ce n’è stato un altro.” borbotta poi.
Interiorizzo quella frase e non ci metto troppo per capire a cosa si riferisce: nella capitale non si parla ormai d’altro che di questo. Suicidi seriali – pare – tutti identici, tutti avvenuti in posti in cui le vittime non avevano ragione di essere, tutti causati dalla stessa, identica pillola. Sfoglio frettolosamente le pagine spesse e imbrattate d’inchiostro fitto e scuro, fino ad arrivare a quella interessata: Jennifer Wilson, 38enne, originaria di Cardiff e una mezza colonna dedicata alla descrizione dello svolgimento delle indagini dirette da un certo ispettore Lestrade. Il quarto suicidio. In fondo alla pagina ci sono anche le foto delle vittime. Li guardo negli occhi, uno a uno, indago in quelle pupille di mero inchiostro, tra quelle rughe d’espressione che solca i loro volti, provo ad ipotizzare che cosa li abbia spinti a compiere un tale gesto, quali siano stati i loro ultimi pensieri prima di spegnersi per loro stessa mano. Si sentivano anche loro vuoti? Vuoti come me? Sorrido nel scoprirmi a pensare alla pistola accuratamente riposta in quel cassetto mangiucchiato dai tarli, diabolicamente attraente, bellissima. Neanche la guerra è stata capace di ammazzarmi. Sul campo di battaglia, tra le eco degli spari e le grida dei miei commilitoni, avevo ripreso a sentirmi vivo, potevo percepire lucidamente il sangue pulsarmi nelle vene, l’adrenalina animare le membra intorpidite da giorni di battaglia e notti di insonnia. Poi, una stupida ferita alla spalla e tutto è sprofondato nei rifiuti.
“Mi chiedo dove abbiano preso quelle pillole.” mormoro sovrappensiero.
“John…” sussurra tra l’allibito e il preoccupato Warren, di cui avevo totalmente dimenticato la presenza. “… Ma che dice?”
Capisco solo troppo tardi la frase sfuggita dalle mie labbra. Merda. Fingo una risata divertita, portandomi la mano libera da questo maledetto bastone allo stomaco per rendere tutto più credibile. “Dovrebbe vedere la sua faccia, Warren!”
“Brutta canaglia di uno Watson, me l’ha fatta! Devo dire che è un ottimo attore.”
Eccome se lo sono. Non faccio altro da quando sono nato. Recitare, mascherare, nascondere, più verbi di sapore differente ma della stessa consistenza.
Ho bisogno di andarmene via da qui. Magari… potrei fare una passeggiata al parco, per schiarirmi un po’ le idee e stare un po’ da solo. Con la coda dell’occhio scorgo un taxi che incede lento, i sedili ancora vuoti.
“Adesso devo andare, Warren. Ah, e grazie per il giornale!” esclamo con gioia forzata prima di alzare l’indice alla macchina in arrivo. Mi infilo dentro come se ne dipendesse la mia vita e tiro un sospiro di sollievo. Il tassista, un buffo ometto avanti con gli anni, si volta e mi chiede con fredda cortesia – tipica di ogni inglese – la mia destinazione. “Hyde Park.”

Sherlock’s POV. Lento. Molto lento, troppo lento, stupidamente lento. Solo un idiota non avrebbe potuto capire. Rache. Dando per scontato che stia per Rachel e non corrisponda ad una stupida minaccia di vendetta in tedesco come quell’idiota – per l’appunto – di Anderson si ostina a sostenere, le opzioni rimaste erano poche. Perché non ci ho pensato subito? Scanso Lestrade, irrotto in casa con la scusa di una perquisizione antidroga – che sciocchezze: non tocco quella roba da dopo… Scaccio quella scomoda immagine che per anni ha minacciato di ricomporsi nel mio Palazzo Mentale dopo averla scansata nell’angolo più buio della mente. Leggo l’indirizzo mail scritto sulla targhetta della valigia della vittima e mi sbrigo a riscriverla sulla barra del nome utente dell’app per le poste elettroniche sul cellulare. Era così ovvio! Ce l’ho sempre avuto sotto gli occhi! Rachel non è un nome, ma una password. E infatti, la casella postale di Jennifer Wilson si apre dopo pochi secondi.
“Possiamo leggere la sua posta, e allora?” biascica Anderson con voce irritata.
“Anderson, non parlare, abbassi il quoziente intellettivo di tutto il vicinato.” Ovvio che non è la sua posta a interessarmi, ma… “Trovato!” esclamo con un sorrisetto vittorioso osservando il nitido puntino rosso su una mappa approssimata di Londra.
“Come diavolo…” borbotta Lestrade sporgendosi sulla mia spalla per osservare meglio, ma io chiudo fuori lui e tutta la sua stupida squadra dalla mia mente, per entrare nelle stanze del mio Palazzo Mentale. L’assassino… Di chi ci fidiamo anche se non lo conosciamo? Chi passa inosservato ovunque vada? Chi caccia in mezzo alla folla?
Ma certo… Ma certo!
Riapro repentinamente gli occhi e studio la cartina. Secondo la mappa, il telefono della vittima si trova presso l’istituto superiore di Roland Kerr. Non ha ragione di trovarsi lì, è una zona isolata… Non ha ragione di trovarsi lì. Scatto in piedi rovesciando la sedia all’indietro.
“Sta per fare una nuova vittima, veloci!”
Lestrade resta per qualche istante a fissarmi con occhi sgranati, quasi paralizzato da quella consapevolezza. Faccio un passo in avanti e lo prendo per le spalle, la stretta sicura e gli occhi infuocati.
“Coraggio, Lestrade, fidati di me, o un altro innocente verrà ammazzato!”
A quelle parole, gli occhi dell’ispettore si riempiono nuovamente di cognizione. “Avanti, gente! Muoversi!”
“Al collegio di Roland Kerr!”

John’s POV. Ci sediamo come farebbero esattamente due amici di vecchia data, come se avessimo intenzione di ordinare qualcosa al bar o scambiare quattro parole, rivangando il passato. Mi fissa estremamente interessato con i suoi occhietti piccoli e vispi, come un pitone pronto a scattare fulmineamente verso la preda, i denti velenosi e le spire del corpo soffocanti. Mi guarda in silenzio e io non so come comportarmi. La pistola ha avuto il suo effetto, inizialmente. Quando sono entrato nel taxi, non credevo davvero che la situazione avrebbe imboccato questa piega, e nonostante tutto, alla vista di quell’arma latrice di morte non ho provato che un piccolo balzo al cuore per lo stupore. Stupore che si è sciolto, lasciando il posto ad una muta confusione nel momento in cui l’autista mi ha costretto ad entrare qui dentro.
Sospiro. “Volevo solo fare una passeggiata.”
Il tassista ridacchia appena e i suoi occhi brillano ancor più. “Ma si guardi. Non le sono rimasti che pochi istanti di vita, eppure trova la forza di scherzare. Non si direbbe spaventato.”
“E lei non si direbbe spaventoso.” ribatto inarcando un sopracciglio, ma poi mi limito a sospirare una seconda volta e ad incrociare le mani davanti a me, lasciando andare il bastone che cade a terra con un tonfo. “Che cosa vuole?”
“Parlare con lei.”
“Perché?”
“Perché così si ucciderà.”
Una risatina amara fuoriesce dalle mie labbra. “Le ho fatto qualcosa in particolare? Non so, le ho forse rubato le caramelle da piccolo o cose del genere?”
Lui sogghigna ma non risponde. La sua mano scivola lentamente nella tasca del maglione grigio – grigio come il cielo e come me – e ne estrae due boccette contenenti due pillole uguali in tutto e per tutto. “Facciamo un gioco.” sentenzia alla fine suscitando il mio interesse. “Su questo tavolo c’è una boccetta buona e una cattiva. Il suo scopo, signor…” “Watson.” “… signor Watson, è quello di scegliere una delle due boccette, sperando di non aver preso quella velenosa.”
“Interessante, sì, ma perché dovrei farlo?”
“Per prima cosa, signor Watson, si ricordi della pistola, e in secondo luogo, non le ho ancora detto la parte migliore: qualunque boccetta lei sceglierà, io prenderò l’altra. Non barerò, ingoieremo la pillola insieme e si vedrà chi è vivo e chi invece è morto.”
Mi sistemo più comodamente sulla sedia, le braccia conserte. Una pillola buona e una cattiva. Le famiglie delle vittime dei quattro suicidi hanno sempre affermato che i loro cari non avevano motivo per togliersi la vita, che i posti in cui i loro corpi sono stati ritrovati non avevano alcuna connessione con loro. Potrebbe essere che… che sia capitato loro quello che sta capitando a me?
“E’ lei il responsabile della morte di Jennifer Wilson e delle altre tre vittime di cui si parla ultimamente?”
“Già… i suicidi… Beh, non posso dire di essere il responsabile, ma comunque, diciamo che mi assumo parte della colpa. Sono stati loro ad ingerire le pillole, io mi sono limitato a fornire loro una scelta.”
“Scelta che ora sta dando a me.”
“Esattamente.”
E’ strano. Non ho paura. Anzi, mi sento stranamente rilassato, quasi appagato. Magari è solo un segno del destino ed è per questo che sono qui: per un disegno più grande. Per tutti questi mesi in congedo dall’Afghanistan, non ho mai osato premere il grilletto della mia pistola: troppo umiliante, il mio orgoglio me l’ha sempre impedito. Ed ora eccomi qui, di fronte alla resa dei conti. Analizzo le singole possibilità con ponderatezza: se scelgo quella cattiva, sono morto, ma se scelgo quella buona… chi mi dice che sono vivo? Insomma, è da tempo che non lo sono, che mi limito a respirare, a soddisfare i bisogni minimi del mio corpo, ma il mio cuore non batte più da tanto. Non ho nulla che ho paura di perdere o una ragione per rimanere attaccato alla mia vita, anzi. Penso che la morte sarebbe un sollievo, il mio finalmente e non un semplice infine. Perciò, perché no? I giornali parleranno di me, le notizie si diffonderanno in fretta, le persone che un tempo ho amato sapranno che sono morto, quelle che mi hanno dimenticato si ricorderanno di me, e fra tutte, magari ci sarà anche…
Sospiro e scuoto la testa. Basta. Non posso andare avanti così. Non sono più John Watson, non lo sono da tempo, non ricordo neanche più quando e se lo sono stato. “Qual è la boccetta cattiva?”
“Prego?”
“La boccetta cattiva. Voglio sapere qual è.”
“In modo da scegliere l’altra? Crede che io sia così stupido?”
Sorrido appena, forse il mio primo, vero sorriso da molto. “Niente affatto, anzi, credo che lei sia abbastanza intelligente e gentile da porgermela, così risparmiamo tempo.”
Lui tace, il viso imperscrutabile. Posso percepire i suoi occhi scavarmi dentro, analizzare ogni singola cellula del mio essere. Un cecchino dalla mira infallibile e dalla mano più ferma di una statua. “E’ il suo cuore il problema, non è vero?”
Uno stiletto di dolore mi trapassa il corpo, conficcandosi in quello che mi sembra un guscio vuoto, un mero petto e niente più. Come può sapere? Non può sapere.
“Non si scomodi a chiedersi come ho fatto a capirlo. So già di essere un genio dotato di un’intelligenza superiore.” sentenzia con un sospiro annoiato, accomodandosi meglio sulla sedia. “Deve far male, eh? Sapere che tutti hanno un cuore vibrante, vivo e lei è completamente svuotato di ogni cosa.”
Stringo i pugni il più forte possibile. Fa male? Fa male. Eccome se fa male. E sono stanco, stanco da morire. Non voglio più chiudermi in me stesso e continuare a fingere: se non posso star bene, se non posso più essere come gli altri, allora tanto vale morire, portare nella tomba il dolore e il mio niente.
“La boccetta.”
Con un fluido movimento della mano, spinge avanti una delle due boccette, un sorriso ferino sulle labbra. “Direi che questa volta non è davvero colpa mia.” osserva ridacchiando mentre afferro l’ampolla e la stappo, esaminando ogni screziatura della bianca pillola che sembra invitarmi suadentemente a porre fine alla mia inutile esistenza. “Qual è il suo nome intero?”
“John Watson.”
“Addio, John Watson. Nonostante io sia un serial killer… bè, spero che lei possa trovare un posto migliore, o che almeno smetta di soffrire.”
Sorrido e mi risparmio di rispondere che non credo in alcuna fottuta vita al di là della morte o in divinità varie. Ho visto troppo con questi occhi stanchi per potermi permettere il lusso e la viltà di sperare nell’esistenza di un’entità superiore.
Mi rovescio la pillola sulla mano, così piccola eppure con un potere così grande… Resto qualche secondo immobile, la mente che richiama i ricordi uno a uno e li accarezza gentilmente. Rivedo la mia famiglia prima dell’inizio di tutti i problemi con mia sorella, rivedo i miei primi amici e le mie prime fidanzate, rivedo il college, rivedo l’Afghanistan, e rivedo… rivedo ricordi che non dovrebbero mai tornare a galla, come al solito i più belli e quelli da cui è più difficile staccarsi alla fine. E infine penso… sì, penso al gelato. A quanto mi piaceva da ragazzo. Sorrido appena a quell’immagine.
Chiudo gli occhi e mi avvicino alle labbra la morte. Addio vita. Addio mondo. Addio cuore che non ho più.
All’improvviso, un fracasso alle mie spalle. Non faccio in tempo a voltarmi che una voce appare luminosa come la luce del sole.
“Si fermi! La sua vita non le appartiene! Le tolga le mani di dosso!”
Spalanco gli occhi. No… Non può essere.
La sua vita non le appartiene.
Com’è possibile? Anni… Sono passati anni.
Le tolga le mani di dosso.
Ma non potrebbe essere altrimenti. Mi volto lentamente, gli occhi che prendono a riempirsi di qualcosa che somiglia così tanto a delle lacrime eppure so che non è possibile visto che io non… E invece sono lì, scottanti, liquide, presenti. Non ricordavo neanche di che cosa sapesse avere il viso rigato dalle lacrime… Non è possibile. Non è possibile. Non è possibile.
Sono voltato. Ce l’ho davanti. Ce l’ho davanti e ancora non ci credo. Non può essere lui. Eppure non è cambiato per niente. E quella frase… quella frase non può averla pronunciata nessun altro.
Mi alzo dalla sedia repentinamente. Sono voltato e le mie labbra articolano il suo tanto desiderato e temuto nome.
“Sherlock…”

SPAZIO AUTRICE
Eccomi qui con una nuova long fic, anche se sarà molto più breve di Cuore Sul Grilletto. Sono secoli che covo questa idea e secoli che ho rimandato perché ero terrorizzata da quello che avrei potuto partorire, poi alla fine mi sono detta ma provaci! Questo prologo è solo un assaggio della storia, nel prossimo capitolo scopriremo un po' come funziona il discorso dei cuori che in questa parte è stato praticamente assente - a parte qualche menzione - e soprattutto com'è possibile che John conosca Sherlock. Lo scoprirete nel prossimo capitolo (omg, mi sento troppo come la voce narrante nelle anticipazioni dei prossimi episodi di una serie tv, lol). Spero di aggiornare regolarmente, ogni lunedì, - sempre che mi ricordi - e mi auguro che questo prologo vi abbia un po' incuriositi. Se avete tempo e piacere, recensite liberamente, senza peli sulla lingua, e vi aspetto lunedì prossimo col prossimo capitolo (che bella ripetizione). Un bacione gigante (cosa sei, una youtuber?) e alla prossima!!!
   
 
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