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Autore: Fenio394Sparrow    23/07/2018    1 recensioni
[ Ghost!AU - Amberprice, Pricefield, Amberfield, ma tanto finisce in un'Amberpricefield ]
Il senso di perdita che provava … era la morte. Aveva perso la vita.
Non persa, non persa, rubata, rubata, rubata! Portata via!
Jefferson non l’aveva lasciata nella discarica.
Jefferson l’aveva seppellita nella discarica.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Chloe Price, Max Caulfield, Rachel Amber
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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 Capitolo Due
 
“Vi ho amati, vi ho amati e vi ho perso
Ed è come un inferno”

 
 
Rachel non aveva mai studiato Dante Alighieri, né tantomeno le sue opere. Ma, a differenza di quanto si potesse pensare, Rachel era una persona abbastanza acculturata e curiosa per natura: da quando avevano avanzato l’ipotesi di mettere in scena la Divina Commedia con il club di teatro si era informata e appassionata all’universo creato dal poeta fiorentino, che nulla aveva fatto se non dedicare l’opera cardine della letteratura italiana all’amore della sua vita.
All’epoca si era domandata che erba si fosse fumato per immaginare cose tanto coerenti nella loro assurdità, ora invece si chiedeva se avesse davvero avuto un’esperienza di pre-morte o roba simile, perché quella che stava provando in quel momento Rachel non poteva essere nient’altro che un girone dell’Inferno esclusivamente a lei dedicato.
 
Vuoi fare la modella?
Immortaliamo i tuoi ultimi momenti e rendiamoli il premio del tuo assassino.
Vuoi essere ammirata, adorata, venerata?
Facciamo in modo che nessuno sappia della tua morte, rendiamola un segreto, un incubo dal quale non puoi fuggire.
Vuoi che tutti pendano dalle tue labbra?
E noi ti riduciamo al silenzio.
 
Chiusa in una pallina di vetro scossa a piacimento da Mark Jefferson, che amava vedere la neve vorticare sulla vittima e l’acqua annegarla.
La cosa che faceva più male? Che l’aveva sconfitta. L’aveva uccisa in ogni modo in cui una persona può essere uccisa e non avrebbe mai pagato – non sarebbe mai stato nemmeno  sospettato – per i suoi crimini.
Voleva ucciderlo. Voleva ucciderlo, torturarlo, strappargli gli occhi dal cranio e darli in pasto ai cani, ridurlo al silenzio e ridere della sua debolezza per fargli sapere che era stata Rachel Amber a porre fine alla sua schifosa vita …
Una cappa d’oscurità era scesa su di lei. Rachel non poteva vederla, però poteva percepirla. Come un’aura che la circondava, una parola che risuonava nella sua mente senza posa, stormi d’uccelli neri che preannunciavano il suo violento intento.
Vendetta.
 
Un corvo gracchiò alle sue spalle e la ragazza si girò per guardarlo.
Lui la fissò di rimando, guardò proprio dritto verso di lei, confermando quel che già sapeva. Il corvo poteva vederla.
«Il famiglio della strega» mormorò la ragazza. «Un presagio di morte.»
Quella di Jefferson, oh sì. Lei era già morta, non preannunciava niente per lei, non costituiva alcun pericolo per lei. Che finezza, che eleganza, che squisito modo di mandarle un messaggio: il corvo lo devi rispettare, ma non ti devi mai fidare.
Allungò la mano per accarezzarlo e quello gracchiò, senza tuttavia spaventarla. Ammirò il piumaggio nero come il buio  e lucido come inchiostro appena rovesciato. I riflessi bluastri le ricordavano l’oceano a mezzanotte. Il fatto che solo gli animali riuscissero a vederla le dava da pensare. Che il corvo fosse lì per guidarla?
Il misticismo della foresta e dei suoi abitanti non era cosa nuova per gli abitanti di Arcadia Bay. Tutti sapevano che la città sorgeva sui luoghi acri dei nativi americani – alcuni erano stati addirittura profanati, altri no – e la loro influenza, dicevano alcuni, non si era estinta con la colonizzazione.
 
«Sei qui per aiutarmi?» chiese curiosa.
Il corvo chinò la testa e la guardò con aria interrogativa – poteva giurarlo, era perplesso. Gracchiò due volte prima di librarsi in volo verso al città. Dove si trovava Jefferson. Oh, Mark. Il tuo presagio di morte mi guida verso di te. Sono la tempesta che spazza via la città. E sto venendo a prenderti.
 
Convinta che il corvo fosse una benedizione per il suo intento omicida Rachel si diresse verso la città, verso la Blackwell, per spiare il suo assassino. Ovunque andasse vedeva la propria faccia sorriderle dai volantini che domandavano a gran voce “MI AVETE VISTA?” oppure che urlavano “SCOMPARSA”. Gli studenti si radunavano a gruppetti e ogni singola conversazione riguardava la misteriosa, se non addirittura leggendaria, scomparsa di Rachel Amber. C’erano persone assolutamente certe che Rachel avesse preso baracca e burattini e si fosse piazzata sulla prima corriera per Los Angeles, stufa di essere bloccata in quel buco di città, e addio a tutti.
Altri temevano che avesse fatto un tuffo non programmato dalla scogliera per via della droga di cui abusava, oppure che fosse inciampata in qualche fosso. Dov’era andata, dunque? Beh, nel posto dove finiscono le persone che scompaiono senza lasciare traccia.
 
Rachel osservava tutto ciò con tristezza crescente, soprattutto perché lei non aveva bisogno di scomparire – e di morire – per essere sulla bocca di tutti. Ed in tutto questo, nei giorni che seguirono la sua misteriosa scomparsa e che si susseguivano senza differenza alcuna, il suo banco nell’aula di fotografia – e in ogni altra aula – restava vuoto. Agli occhi degli altri.
Rachel sedeva sempre alla propria postazione, lasciata religiosamente intatta dai suoi compagni, prestando un’attenzione maniacale alle lezioni del professore, in attesa che si tradisse, che sprecasse una parola di troppo su qualsiasi argomento, che si guardasse attorno allarmato e insinuasse il dubbio nelle menti dei suoi studenti …
Ma non accadde.
Non accadde a fine Aprile, quando la sua scomparsa era sulla bocca di tutti; non accadde a fine Maggio, quando era ormai convinzione diffusa che si trovasse a L.A. a vivere il proprio sogno; non accadde a fine Giugno, quando gli esami tenevano tutti troppo occupati per preoccuparsi ancora di Rachel Amber.
Presto i suoi volantini vennero sommersi da inviti al ballo di fine anno e comunicazioni scolastiche, risultati degli esami e ammissioni all’anno successivo, mentre lei osservava tutto con una certa freddezza.
 
Oh, certo, la faceva imbestialire il fatto che tutti vivessero bene senza di lei – Victoria Chase si sentiva finalmente la regina dell’alveare e Mark Jefferson continuava ad insegnare con impeccabile professionalità – ma Rachel riusciva a non farsi toccare più del necessario da queste cose, a non lasciare che la consumassero come l’incendio che aveva appiccato tre anni prima alla foresta che circondava Arcadia Bay perché era arrabbiata. Ora non poteva, ma se avesse potuto …
Se avesse potuto Rachel avrebbe appiccato mille incendi e avrebbe bruciato mille foreste e  consumato l’ossigeno di mille città per vederli tutti morti soffocati, guardarli tutti contorcersi e respirare fumo nero e accasciarsi al suolo esattamente come aveva fatto lei. Non era giusto che loro vivessero e lei no.
Non era giusto che le loro miserabili vite vissute facendosi trascinare dalla corrente continuassero, mentre la sua, la sua vita piena di progetti e ambizioni e sogni di gloria fosse solo un ricordo. Che i suoi polmoni non respirassero più, che il vento non le accarezzasse la pelle, che i profumi non le solleticassero le narici … non è giusto. Non è giusto, cazzo.
Ma, come aveva detto, riusciva a non farsi consumare troppo da questi pensieri.
 
L’unico che come lei sembrasse avere uno scopo nella vita era proprio il suo assassino, e con orrore di Rachel non agiva da solo.
«Nathan, è ora di cercare un’altra modella» disse un giorno.
La stanza si restrinse tutt’attorno a Rachel. Nathan?
Nathan non poteva essere suo complice. Nathan era suo amico, cazzo. Nathan le voleva bene, Nathan non poteva aver partecipato al suo assassinio …
«Non ce la faccio» rispose il ragazzo nascondendo il viso fra le mani. «Non dopo Rachel, no …»
«Brutto bastardo» mormorò Rachel sconvolta. Lo schiaffo partì senza che se ne rendesse conto, ma ovviamente invece di lasciare il segno delle cinque dita sulla guancia di quel pezzo di merda la attraversò come se fosse fatta di fumo. Il ragazzo tremò quando lo attraversò con la mano, come se l’avesse percepita in qualche modo.
Jefferson lo osservava con espressione indecifrabile, ma Rachel sospettava che sapesse che quel momento sarebbe arrivato, ma forse non così tardi. Dopotutto era morta da due mesi, Nathan aveva mantenuto il profilo basso per tutto quel tempo, era ora che desse di matto, no?
«Nathan, so come ti senti. E so anche che per te è stato così orribile che hai rimosso tutto ciò che è successo quella notte. Ma la verità è che è stato un incidente.»
«Non credo proprio!» esclamò Rachel furiosa, eppure fermò la sua mano, tanto non avrebbe fatto differenza. E poi … pendeva dalle sue labbra. I buchi nella sua memoria stavano per essere riempiti?
«Rachel si è offerta volontaria per posare per noi»
«Per te» lo corresse a denti stretti. «Per te, stronzo. Non sapevo nulla di Nathan.»
«Si è offerta volontaria per noi, ignara che prediligiamo un altro tipo di servizio fotografico.»
Nathan annuiva ogni tanto, debolmente, come se cercasse di convincersi di quello che gli diceva.
Rachel invece sputò ai suoi piedi. «Mente, lo schifoso bastardo. Nathan non c’era mentre mi scopavi, vero? A te non piace condividere le bambole.»
«E quindi le abbiamo dato la solita dose che usiamo sulle ragazze per far in modo che siano perfette, esattamente come le vogliamo noi.»
Le altre ragazze?
«Solo che tu» e sottolineò il tu sorridendo impercettibilmente al sussulto del ragazzo «solo che tu, questa volta, hai sbagliato la dose. Gliene hai data troppa.» Incurante dei tremiti di Nathan, Jefferson andò avanti nel suo orribile racconto. «Purtroppo ce ne siamo accorti troppo tardi: il servizio era già finito quando abbiamo capito che non c’era più battito. Sei svenuto per l’orrore. L’ho seppellita dove nessuno la ritroverà mai più e mi sono occupato di te.»
Le lacrime solcavano il viso stremato di Nathan, così come quello di Rachel. Allora era così che era morta? Una siringa, qualche goccia in più e lei era dolcemente scivolata in un sonno profondo e senza sogni?
Per colpa della negligenza di Nathan?
Questo voleva dire che se lui fosse stato un pochino più attento …
«No …» scosse la testa. La gola le bruciava. Sarebbe stata ancora … viva.
Nathan piangeva a meno di un metro da lei.
No, no, no, c’era qualcosa che non andava. Andava tutto in pezzi, compreso il suo cuore che sebbene non battesse sembrava molto più incline a spezzarsi di quanto lo fosse mai stato in vita.
Cercò di dominare l’impulso di urlare e fare a pezzi ogni cosa perché c’erano troppi dettagli che non quadravano.
Capisci cosa è successo. Distingui la verità dalle menzogne. Jefferson stava ancora parlando, ma Rachel comprese solo l’ultima parte della conversazione, quella che le diede i brividi e le fece capire, per la prima volta in mesi, che per lui era stata meno di una scopata veloce. Che quando dava segno di non star pensando a lei, era perché effettivamente non stava pensando a lei. Una mosca molesta calpestata.
«Rachel ormai è acqua passata. E’ la tragedia della vita. Voleva essere adorata, voleva schiere di persone che l’ammirassero, voleva diventare un’icona ed un’immagine a cui ispirarsi e a cui aspirare. Ora, gli unici che l’apprezzeranno nella sua prematura dipartita saremo io e te. Non capisci che dono ci ha fatto, morendo?»
Nathan alzò gli occhi.
«Non capisci che questo ha dato senso alla sua vita? Per due mesi è stata perennemente nei nostri pensieri, sulla bocca di tutti, miticizzata e adorata, le sue presunte gesta rese leggenda ... Ma ora basta. E’ ora che Rachel Amber torni ad essere quello che Los Angeles l’avrebbe comunque resa: una stellina spenta ancor prima di brillare.»
Nathan, che aveva preso a scarabocchiare parole illeggibili su un foglietto di carta sospirò. «Vuoi dire che la dimenticheremo? Che la dimenticheranno?»
«Con il tempo» annuì Jefferson «se siamo fortunati e manteniamo il profilo basso.»
Nathan parlò con aria assente.   «E’ ora di riaprire la camera oscura?»
«E’ ora di riaprire la camera oscura.»
 
Distingui la realtà dalla finzione. Distingui. La realtà. Dalla finzione.
Fatto certo: Jefferson mentiva. Mentiva sempre. Mentiva bene.
Altro fatto certo: l’aveva legata e violentata e fotografata. Prima si era offerta volontaria lei, poi quando aveva iniziato a comportarsi in modo strano, a toccarla dove non doveva, a guardarla con quella luce ferina negli occhi, a spaventarla, fino a culminare nella lotta in cui aveva perso i sensi …
Poi le cose si facevano troppo confuse per poter dare un senso logico. A volte, come da appena sveglia – appena morta – aveva avuto l’impressione che non avesse agito da solo, ma non ricordava di aver visto o sentito qualcun altro. Da lì quindi si addentrava nel mondo delle ipotesi.
Rachel lasciò perdere il pedinamento di Nathan e Jefferson e si diresse verso il belvedere sulla scogliera, tentando di non teletrasportarsi. Aveva scoperto quell’abilità dall’inizio – una figata assurda, peraltro – e in quei due mesi si era esercitata. Certo, era molto figo, tuttavia avrebbe preferito essere viva. Ma non si può avere tutto, eh?

Doveva riflettere, riflettere lucidamente, e teletrasportarsi la distraeva troppo. Camminare per Arcadia Bay non era diverso dal camminare per i corridoi della Blackwell: l’unica differenza era che anche le macchine la attraversavano, non solo le persone. Non si disturbava a camminare sui marciapiedi: non tollerava che i pedoni rabbrividissero al suo tocco, né sopportava gli sguardi incuriositi dei loro animali domestici. Da quando il corvo si era manifestato due mesi prima non aveva ricevuto altre visite. Si era insinuato in lei il dubbio che mormorava forse il corvo non voleva aiutarti nei tuoi progetti di vendetta, forse il corvo ti voleva ricordare che morta sei e che morta rimarrai e che i morti non possono creare altri morti. Morta morta morta.
 
Un ringhio frustrato le sfuggì di bocca senza che riuscisse a controllarlo. I suoi tentativi omicidi non erano andati a buon fine. Il massimo che fosse riuscita a fare era stato buttare giù qualche oggetto dal tavolo, e con molto sforzo. Si domandò quanto sforzo ci fosse voluto per Nathan per ucciderla. La sensazione di puntura combaciava con la storia della droga e della dose, quindi ci credeva. Accarezzò i due lati del collo con la punta dei polpastrelli e la trovò, sul lato destro. La cicatrice di un minuscolo foro.
Passò oltre la senzatetto ignorando che la seguiva con lo sguardo, la meta fissa nella sua mente. Le occorsero venti minuti a passo svelto per giungere sull’altura ai piedi del faro. Era lì che lei e Chloe avevano iniziato a legare, era lì che avevano visto suo padre baciarsi con quella che all’epoca aveva definito l’altra donna, quella che era la sua madre biologica. Ed era stato quel bacio ad innescare la reazione furiosa alla discarica, qualche ora dopo, che aveva portato all’incendio che aveva bruciato la foresta. Ah, che bei tempi.
 
Si prese un momento per apprezzare la bellezza del paesaggio, una delle poche cose che aveva ancora il potere di scaldarle il cuore. I colori del tramonto avvolgevano l’aria e la coloravano dei toni delicati dell’arancione e del giallo, guidati dal vento fresco che spirava dal mare, una costellazione di riflessi argentei del sole che dolcemente si immergeva, caldo nonostante tutto. Il lento infrangersi delle onde sulla spiaggia cullava placido qualche barca a largo, mentre degli uccellini zampettavano sulla panchina a ridosso della scogliera. Non erano soli.
 
«Chloe!» esclamò felice Rachel. Si avvicinò verso la ragazza seduta di spalle, intenta a fumare una sigaretta. Sedeva scomposta, a gambe aperte, i gomiti poggiati sulle ginocchia e l’espressione desolata e abbattuta, anche se nascosta sotto le sopracciglia inarcate che le conferivano un’aria perennemente incazzata. Ma Rachel conosceva troppo bene Chloe per non riuscire a leggere oltre il libro aperto che per lei era il suo viso. Vederla così abbattuta le stringeva il cuore. Era da un po’ che non la andava a trovare. Non poterla toccare le faceva male. Non poterla baciare le faceva male. Non essere vista le faceva male. E doveva ammettere che se l’era un po’ presa quando l’aveva sentita chiamarla “puttana”.
Ah, la coerenza di Chloe. Difendeva a spada tratta il suo onore davanti a chiunque – chiunque anche osasse insinuare che potesse essere morta, chiunque la chiamasse battona, chiunque facesse commenti poco carini su di lei – ma Chloe si sentiva perfettamente in diritto di darle della puttana quando si sentiva abbandonata.
Proprio come in quel momento.
 
«Vaffanculo» mormorò espirando il fumo della sigaretta. «Non è scomparsa, mi ha abbandonato, quella puttana.»
«Smettila» rispose Rachel chiudendo le mani a pugno. «Sono morta, non ti ho abbandonata. Mi hanno uccisa.»
«Scommetto che se la passa bene a Los Angeles, vero? A fare la bella vita, a scoparsi chi le pare, a darla a qualsiasi produttore la possa aiutare nella sua scalata per il successo, a ridere di me nelle lenzuola di qualcun altro!»
Gettò a terra il mozzicone in un gesto rabbioso e lo spense con una tale cattiveria da sollevare una piccola zolla di terra con lo stivale. «’Fanculo anche a te.»
Il vento le scompigliava i capelli azzurri e le faceva venire la pelle d’oca sulle braccia, ma non era per questo che Chloe tremava. Rachel si avvicinò tanto da poter contare le pagliuzze più scure dei suoi occhi, tanto da poter vedere le lacrime che minacciavano di rigarle le guance pallide e incavate. Da quanto non faceva un pasto che comprendesse più di una bottiglia di birra? Chloe, ti stai distruggendo.
Vide il labbro tremante e allungò la mano per accarezzarla e darle un po’ di conforto. Si impegnò affinché non oltrepassasse la sua pelle ma la sfiorasse semplicemente, per fare quello che da mesi le era negato: toccare qualcuno, sentirlo fra le dita, trattenerlo per ancorarsi alla realtà e non fluttuare più come un palloncino alla deriva. Per un momento, per un solo momento, riuscì a sentirla, sentirla veramente.
Anche Chloe dovette sentire qualcosa. Il suo tremore cessò e sospirò bruscamente, senza più riuscire a trattenere i singhiozzi. Non appena sbatté le palpebre e le lacrime rotolarono giù per le sue guance, il contatto si interruppe e le dita di Rachel attraversarono le sue labbra come se fossero foschia.
Chloe scosse la testa. «Mi hai abbandonato.»
La voce era incrinata dal dolore e vederla così, raggomitolata su stessa e così terribilmente sola le fece sentire così male che se avesse potuto si sarebbe strappata il cuore dal petto, pur di non sentirlo più. Soprattutto perché in parte si sentiva colpevole. Sentirla parlare a lei direttamente, poi, era mille volte peggio.
«Te ne sei andata, te ne sei andata come se vanno tutti! Mio padre, Max, adesso tu … E’ colpa vostra se la mia vita è una merda! Se non faccio un cazzo dalla mattina alla sera! E’ colpa vostra!» asciugò con forza le lacrime, si alzò in piedi e si diresse verso il bordo della scogliera, le mani che tremavano ancora.

«Rachel …» mormorò Chloe al mare. Osservava le onde sotto di sé con la stessa disperazione che Rachel aveva visto solo tre anni prima, nei primi giorni che si erano conosciute. Alla discarica, quando Chloe le aveva detto che quello che provava per lei era qualcosa di più di una semplice amicizia, e Rachel le aveva voltato le spalle. Io non voglio rovinare questo nel modo in cui rovino tutto, Rachel! Oggi è stato il giorno più bello da quando … da quando mio padre è morto. Quello che c’è fra di noi, qualsiasi cosa sia, è speciale.
Ma Rachel era troppo concentrata sui proprio problemi per prestarle veramente attenzione, no? Nonostante ciò le aveva accarezzato la guancia e asciugato le lacrime sul viso, proprio come aveva fatto qualche istante prima. Nel cuore di Rachel Amber c’era sempre stato un posto speciale per Chloe Price.
Per questo, quando disse: «Se adesso mi buttassi, nessuno sentirebbe la mia mancanza» catturò completamente la sua attenzione.
Chloe sembrava di star veramente ponderando quell’idea. E Rachel, invece di sussultare con orrore, si avvicinò ammaliata da quella possibilità.
«Sì, fallo. Buttati, Chloe.»
Era così vicina che se avesse voluto l’avrebbe potuta spingere lei stessa giù dalla scogliera. Chloe mormorò ancora non importerebbe a nessuno, e tirò su col naso.
«A me importerebbe, Chloe. A me importerebbe. Buttati adesso. Buttati e vieni con me.»
 
Non sarebbe più stata sola. Non avrebbe vissuto più nella solitudine più totale, non sarebbe più passata inosservata agli occhi di una delle persone che contavano più per lei, non avrebbe più sentito quegli artigli che le laceravano il petto. Sarebbe bastato che Chloe facesse un passetto più in là, e tutti i suoi problemi sarebbero svaniti. Anche quelli di Chloe.
«Saremmo una squadra di nuovo, Chloe, pensaci. Io e te, Chloe Price e Rachel Amber contro il mondo. Potremmo infestare questo buco di città insieme, potremmo farne quel che vogliamo, potremmo vendicarci su tutti, potremmo farlo insieme …»
Si avvicinò così tanto da avere le labbra praticamente sul suo orecchio, da sussurrarle con lascivia tutti i segreti che in vita non aveva avuto il coraggio di dirle, rivelarle ogni promessa non mantenuta, confessarle ogni più piccolo peccato e  condividere tutti i sogni di gloria che aveva in mente per loro due: «Devi solo fare un passo avanti, Chloe. Non devi neanche buttarti. Ti aiuterò io.»
Poggiò la mano sulla sua schiena. E stranamente, non poterla toccare non sembrava più un problema. Non era un impedimento. C’era una forza, percepiva un cambiamento nell’aria, qualcosa di non visibile che si agitava attorno a lei. Chloe ne sembrava avvolta. Allungò il piede, lo tenne sospeso nel vuoto, singhiozzò ancora una volta.
«Coraggio, Chloe.»
Chloe trattenne il fiato, avanzando appena … e un corvo gracchiò. Chloe si spaventò e cadde all’indietro, trascinandosi istericamente lontano dalla scogliera.
 
Rachel scosse la testa, all’improvviso esausta. Per un momento, aveva riavuto tutto. Per un momento l’aveva sentita, per un momento erano state dalla stessa parte del vetro, per un momento la realtà era stata la stessa. Adesso era di nuovo dall’altra parte. I palmi di entrambe poggiati sullo stesso punto, ma non potevano toccarsi. L’aveva vista per un momento, poi aveva scosso la testa e se ne era andata.
Rachel ne aveva abbastanza di quei momenti. Ne aveva abbastanza di sperare in essi, di provare con tutta la propria forza a farli accadere, di vedere i propri tentativi fallire miseramente. Era arrivata ad istigare al suicidio la sua migliore amica, cazzo.

Per questo i giorni iniziarono a scorrere tutti uguali come se fossero un fiume in piena e lei una roccia erosa dalla sua forza. All’apparenza resisteva, imperturbabile mentre i vermi le mangiavano le guance e gli occhi, sepolta sotto terra, ma in realtà buchi profondi si aprivano sulla superficie, buchi che la riportarono alla Blackwell, verso la fine di un’estate passata a vagare come l’anima in pena qual era.
Non era più andata a trovare Chloe. Non dopo quello che aveva fatto. Se ne vergognava, ma se ne avesse avuto l’occasione … l’avrebbe rifatto.
Per questo non andava a trovare più nemmeno Frank o Pompidou. Non sia mai che la sua aura negativa li mettesse l’uno contro l’altro.
E aveva perso ogni interesse nello spiare Jefferson o Nathan, che non biasimava per la sua morte. Poteva averla uccisa lui come no, poteva averle inferto l’iniezione fatale o meno, ma era stato Jefferson ad ucciderla, in ogni modo in cui una persona può essere uccisa. Lui aveva vinto. Rachel aveva perso. L’aveva battuta, e non poteva fare nulla per evitarlo. Parlare ai corvi, ai cervi, agli scoiattoli e alle farfalle che le si avvicinavano era l’unica cosa che l’aiutava a mantenere un po’ di sanità mentale. Era morta, certo, ma il suo dolore non era diminuito.
 
Un giorno si era ritrovata ancora una volta a vagare per i corridoi affollati della Blackwell. La scuola era appena iniziata – cinque mesi che era morta, tre da quando aveva quasi portato Chloe con sé – e tutto il mondo sembrava ignorarla completamente, così come aveva fatto per tutto quel tempo, quando, distratta da un poster particolarmente vistoso, sbattè contro una ragazza.
La sorpresa fu tale che cadde all’indietro, sbalordita. Non era stato un impatto violento, ma sentire, toccare veramente qualcuno dopo così tanto tempo di solitudine era stato un colpo tale da lasciarla a bocca aperta.
La ragazza aveva capelli corti e castani, deliziose lentiggini sul viso e occhi talmente innocenti da potersi specchiare e vedere l’invisibile. Rachel poteva giurare di scorgere il proprio riflesso all’interno.
«Oddio, scusami» mormorò la ragazza togliendosi gli auricolari dall’orecchio. Le note di una canzone indie si diffusero nell'aria. Si abbassò al proprio livello e le toccò la spalla – le toccò la spalla – per assicurarsi che stesse bene. L’aiutò a tirarsi su in una profusione di scuse. «Mi dispiace, ero distratta, ti prego perdonami, non volevo farti cadere …»
Rachel la fissava, esterrefatta. Quando la sua interlocutrice finalmente la guardò negli occhi, Rachel riuscì a pronunciare solo una frase, la voce roca dal disuso.
«Tu puoi vedermi.»









NdA:
scusatemi per l'attesa, anche se ho dimezzato rispetto all'ultima volta! Devo dire che è stato molto difficile scrivere questo capitolo, considerando quanto è corposo. Ma sono soddisfatta: lo stile che sto usando è molto discontinuo proprio per enfatizzare il trascorrere indifferente del tempo, la giovane età di Rachel e l'aria mistica che avvolge la nostra cara cittadina. O per lo meno ci provo!
Buon compleanno in ritardo a Rachel, che ieri avrebbe compiuto 24 anni! (Se la memoria non mi inganna)
E con questa cliffhanger finale, vi lascio e vi do appuntamento alla prossima volta. Come al solito, perdonate eventuali errori.
Feniah <3

EDIT: 02/03/2022

 
 
   
 
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