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Autore: KaterinaVipera    28/07/2018    2 recensioni
Amira si reca in un piccolo villaggio sperduto nella campagna inglese a trovare la cugina, in cerca di un posto dove iniziare la sua nuova vita, lontana da casa e da tutte quelle persone che le hanno voltato le spalle quando ne aveva più bisogno.
Ciò che cerca è la possibilità di ripartire e, soprattutto, la tranquillità che negli ultimi mesi le è stata negata.
Ma, la vita, ha in serbo per lei tutt'altro e fin da subito si ritrova in una realtà che non sapeva esistesse; le persone che, all'inizio le sembrano solo strane si riveleranno per quello che sono veramente: creature straordinarie che credeva fossero solo fantasia e lei dovrà decidere se essere solo lei, una semplice ragazza, o, al contrario, farne parte ed accettare ciò che le dice il suo cuore: lei appartiene a lui, è sua, solo che ancora non lo sa.
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non ho dormito molto e dimenticarsi le tende scostate non mi ha aiutato affatto, facendomi svegliare appena il cielo si è schiarito, ma tanto meglio, così facendo ho modo di aiutare Anna con le faccende e le spese di casa.
Mi rinfresco e dopo aver indossato degli abiti puliti – alla fine ho disfatto quasi tutte le valigie ieri sera dopo cena – scendo trovandola ai fornelli a preparare la colazione.

“Come siamo mattiniere.” dice dandomi un bacio sulla tempia e ritornando a girare i pancake.

E al buon odore dolciastro, il mio stomaco inizia a brontolare.

“Mattiniera e affamata.” scherza.

Per dispetto le faccio la linguaccia ma subito dopo l’aiuto ad apparecchiare con tazze e piatti.

“Alan non c’è?”

“No, lui è stato richiamato stamattina presto dal suo alf… dal suo titolare.” si volta di scatto sui fornelli, lasciandomi un poco perplessa sul suo cambio repentino di voce con quella frase lasciata a mezzo.

Smetto di pensarci quando mi mette la colazione nel piatto, composta da pancake allo sciroppo di more e alcuni al cioccolato e panna.

“Tu mi vuoi vedere ingrassare!” mi lamento, intanto però ho iniziato ad assaggiare una pasto che di prima mattina, in Italia, non è tanto comune, dove caffè e cornetto al bar sono la tradizione.

Si siede accanto a me e inizia a mangiare con avidità, mescolando i suoi dolci, con le uova strapazzate e alcune fettina di pancetta.
La guardo un po' schifata.

“Non mi guardare così! Io devo nutrire due persone!” si giustifica, continuando a mangiare con avidità.

“Comunque il cibo non scappa.” scherzo e lei in risposta mi fa la linguaccia.

“Che madre matura sarai!” addento un pezzetto di dolce, sorridendo.

Non aggiunge altro, però mi rifà il verso.
Continuiamo a mangiare e parlottare del più del meno, fino alla fine della colazione, poi la aiuto a sistemare tutto, dato che ha sporcato più del dovuto solo per fare due o tre cosine.

“Oggi devo andare in paese per alcune commissioni. Ti andrebbe di accompagnarmi?” chiede asciugandosi le mani ad uno strofinaccio, a fine pulizie.

“Molto volentieri.”

“Bene, avrai modo di conoscere la favolosa Burneside!” finge di esultare.

“Credevo che ti piacesse il posto.”

“No, mi piace questo posto, non la città. È una piccola cittadina e come tale, piena di gente idiota.” tira in su gli occhi.

“Sì, capisco bene. Io sono venuta via da casa proprio per questo motivo.” raccolgo la borsa, infilo la giacca e la seguo fuori.

“E allora che ci sei venuta a fare qui?” domanda lei, aprendo l’auto parcheggiata nel vialetto.

“Sono venuta a trovare la mia cugina preferita.”

“Ah ah, simpatica!”

Dieci minuti dopo siamo a bordo del suo bolide: una macchina piccolina che appena viene accesa, espelle un fumo nero e tossico, ma se non altro, è adatta per questo tipo di strade sconnesse.

“Perché non ti decidi di cambiarla? Questa macchina ormai è illegale.”

“Perché ci sono affezionata. E’ stata la mia prima auto che mi sono comprata dopo un anno di lavoro a Londra, poi una volta trasferita a Burneside mi è dispiaciuto darla via. Quindi, eccola ancora qui.”

Scuoto la testa, pensando che mia cugina non cambierà proprio mai e non importa che tra qualche mese diventerà mamma, resterà sempre la solita ragazza esuberante e un po' strana.
Lungo la strada che dal villaggio porta al paese, veniamo circondate da campi immensi, lasciati incoltivati a causa dell’inverno in arrivo, e da boschi verdi e fitti, molto più di quelli che ho visto ieri per venire da lei, ma subito mi salta all’occhio un dettaglio.

“In questo paese non ci sono allevamenti?” chiedo, ripensando a tutti quelli che ho visto ieri, durante il viaggio, benché le strade fossero diverse.

“Cosa dici Amira?” sorride e mi pare che sia forzata. “Non ce ne sono in paese, troppo piccolo, ma in città quante ne vuoi. Mucche, pecore e cavalli. Benvenuta in campagna!” finge di esultare, alzando le mani.

Il discorso finisce così, mentre lei alza la radio che sta passando un cantante che piace ad entrambe, ritrovandoci in questo modo a canticchiare sopra la voce della cantante, stonate.
Il viaggio prosegue senza intoppi, Anna mi spiega che nel villaggio dove vive lei – 147 anime, tra qualche mese 148 – le persone vivono grazie al bosco: piccoli lavori di edilizia, falegnameria e protezione della fauna selvatica locale.
Insomma, tutta roba molto tranquilla ma agli abitanti va bene e non cercano altro di quello che hanno.
Arriviamo a Burneside, mezz’ora dopo e subito si vede la differenza tra i due posti: la città è più viva, con le persone che passeggiano, aprono le saracinesche dei negozi, molte più auto che percorrono le strade principali.
Ci fermiamo appena troviamo posto, vicino al marciapiede, riservato alle donne in dolce attesa, e ci incamminiamo seguendo la lista di mia cugina.

“Buongiorno Anna, come stai oggi?”

E’ una signora anziana a parlare, un po' piccola, con un mazzolino di fiori freschi in mano.

“Buongiorno a lei signora Evans. Sto benissimo grazie. Le voglio presentare mia cugina Amira.”

Sorrido alla donna, stringendole la mano. E nel giro di qualche minuto, mi ha tempestato di domande e se non le poneva a me o ci mettevo troppo a rispondere, lo chiedeva ad Anna.
E questa è solo la prima di una lunga serie di presentazioni.
C’è stato George, il macellaio, che ha il negozio di famiglia ormai dai tempi di suo nonno; c’è stata Livia, la fioraia, che lavora con la madre da quando le è morto il padre ed è una delle migliori amiche di Anna.
Al market, ho conosciuto Natalie, una ragazza di qualche anno più grande di me, che lavora lì solo finché non avrà finito gli studi serali, poi andrà a fare la parrucchiera a Londra e poi Anna mi ha presentato Carlos, il magazziniere messicano trasferitosi qui quando era bambino con la sua famiglia.
Ci fermiamo a metà giornata a mangiare qualcosa da Betty’s, una graziosa tavola calda, con le mattonelle quadrate bianche e nere e tavolini davanti alle finestre. Anna ordina un sandwich con uovo e salmone e le patatine fritte con il cheddar fuso sopra, mentre io mi limito a ordinare un tost semplice, del kids menu.

“Dovresti mangiare di più.” mi rimprovera mia cugina.

“Non ho molta fame in questo periodo.” smangiucchio qualche boccone, bevendoci l’acqua ghiacciata.

“Non ti preoccupare, qualche mese da me, e sarà come tu fossi da nonna!” mi fa l’occhiolino, mangiando il suo panino.

Le sorrido grata, perché riesce sempre a mettermi di buon umore, nonostante il più delle volte sia nero come la pece.
A fine compere mi sento più stanca di quando sono arrivata.
È stata lunga e Anna non perdeva occasione per presentarmi altre persone o farmi vedere vetrine e portarmi a giro per la città.
La aiuto a caricare le buste in auto, cercando di caricare tutto dato la mole esagerata di acquisti fatti.

“Te la senti di guidare?” mi chiede, evidentemente troppo stanca per farlo lei.

Acconsento anche se mi spaventa un poco la guida dall’altra parte.
Infatti, il ritorno dura molto di più e tra qualche inchiodata, freccia sbagliata e un senso quasi preso nel verso opposto riusciamo a ritornare a casa sane e salve.
Scarichiamo le buste della spesa, facendo più volte avanti e dietro, e quando esco per prendere l’ultima busta rimasta, vedo che è rientrato anche Alan e che sta parlando con un uomo.

“Ciao Alan!” alzo la voce per farmi sentire, data la loro distanza.

Entrambi gli uomini si girano nella mia direzione, ma l’unico a salutarmi è Alan, l’altro si limita a squadrarmi e riservarmi un’occhiata torva.
Distolgo lo sguardo dai due, stranita e intimorita dall’incenerata che mi ha tirato, lesta chiudo il bagagliaio, e torno in casa.
Con Anna ci mettiamo a preparare una zuppa di carne, mentre le verdure cuociono in una pentola a parte e noi ascoltiamo un disco dei Beatles.
Alan entra in cucina quando ormai fuori è già buio, bacia sua moglie e saluta poi me, lasciandosi dietro un forte odore di bosco.

“Sei stato a giro per il bosco?” chiedo affettando una cipolla, tentando inutilmente che non mi lacrimino gli occhi.

“Sì, perché?”

“Profumi di bosco.” dico senza pensare, ma l’attimo dopo mi mordo la lingua.

Ecco, adesso penseranno che ci sto provando con un uomo sposato, con mia cugina per di più! Perché non riesco mai a cucirmi la bocca?!
Mi sento così idiota e non so come uscirne.

“Ehi, amore, non mi avevi detto di avere un cane da tartufo al posto di una cugina.”

Entrambi si mettono a ridere, ma l’occhiata che si sono scambiati non mi è sfuggita. Dovrò assolutamente rimediare e spiegare ad Anna che non era mia intenzione dire quello che ho detto.
Nell’arco di un’oretta la cena è pronta e servita sulla tavola che sta tra il salotto e la cucina, un tavolo rettangolare, per circa sei o otto persone.
Tutti e tre parliamo del più e del meno, loro mi raccontano dei lavori di ristrutturazione che hanno fatto l’anno scorso in giardino per il gazebo e quelli per la stanza del bambino che sanno già essere un maschietto.
Si vede proprio che Alan è al settimo cielo per questo, gli si illuminano gli occhi tutte le volte che l’argomento viene fuori.
Dal canto mio, gli racconto del mio gruppo di ballo moderno, degli spettacoli che abbiamo messo in scena, trovando il loro maggior interesse quando gli racconto di essere stata anche fuori dall’Italia per una gara, alla quale purtroppo siamo arrivati solo terzi, e delle vacanze fatte a Praga con la mia migliore amica.

Siamo al dolce quando qualcuno bussa alla porta.

Per essere gentile, anche se non è casa mia, mi alzo e vado ad aprire al nostro inaspettato visitatore, ritrovandomi di fronte un uomo alto e vestito di nero.
Mi viene un colpo al cuore, maledicendomi per non aver guardato prima lo spioncino, ma quando alzo la testa – perché il mio metro e sessanta scarso non mi permette di fare altro – riconosco nei tratti duri, la barba di qualche giorno, il cipiglio severo lo sconosciuto con il quale stava parlando Alan.

“Buona sera.” dico intimorita dal suo sguardo, dal suo aspetto e dal suo mutismo.

Mi devo calmare, non è un serial killer.
Anche se potrebbe sembrare.
Lo strano verso che emette, gutturale, raschiato, molto simile ad un ringhio di un cane, mi fa muovere un passo all’indietro.

“Voglio parlare con Alan.” la sua voce è bassa, categorica, e non mi sembra il tipo di persona che ride spesso.

Felice di potermi allontanare dall’uomo, mi affaccio in salotto, dicendo al diretto interessato che ha una visita, sedendomi poi per non doverlo rivedere e per finire il dolce che non mi va più a causa dello stomaco chiuso.
Gioco con il biscotto al cioccolato, spostandolo con la forchetta ma non mangiandolo.

“Stai bene?”

“Non ho più fame.”

Non so fino a che punto è vero, però ritrovarmi di fronte quell’uomo mi ha messo soggezione e mi ha fatto passare l’appetito.
Finito di ripulire tutto, mi rinchiudo in camera, sistemando le ultime cose che avevo lasciato in disordine, indossando un pigiama improvvisato, che consiste in una maglietta vecchia e un paio di pantaloni che mi arrivano ai polpacci, sedendomi sulla panca a guardare un po' il bosco e un po' il cielo stellato che solo in un paese così sperduto si può avvistare.
Mi perdo a guardare le stelle, sforzandomi di riconoscere qualche costellazione ma con scarsi risultati. Arresa, torno a guardare il giardino illuminato dalle luci della cucina e del salotto, vedendo così l’amico burbero di Alan, fermo in mezzo ad esso, intento a osservarmi.
Scatto in piedi, rimanendo ferma davanti alla finestra, indecisa su cosa fare.
Sono sicura che stia guardando me, è come se sentissi i suoi occhi scrutarmi per volermi trapassare e scoprire ogni mio segreto.
Ci fissiamo per interi secondi, poi rendendomi conto di essere stupida e sentendomi intimorita davanti a questo sconosciuto che mi sta letteralmente spiando, mi allontano, chiudo le tende e spengo la luce su questa pessima figuraccia.

 

I giorni trascorrono molto più lenti che nel mio paese, ma questo mi permette di riprendere i giusti ritmi e riflettere su cosa farne del mio futuro.
Occupo il mio tempo in lunghe passeggiate, come questa, per andare in città dato che Anna è al corso per mamme e poi andrà con alcune di loro a pranzo fuori; quindi ne approfitto per visitare il posto, e magari trovare un lavoretto.
Con le cuffie per ascoltare la musica, mi fermo da Betty’s per riposarmi e guardare le offerte sui giornali.
Ordino un latte macchiato large e comincio a sfogliare le pagine.
La tazza che mi porge la cameriera qualche minuto più tardi è davvero large, la ringrazio e la pago subito, per potermi concentrare sugli annunci.
Qualche minuto dopo, con la coda dell’occhio, intravedo delle persone entrare in gruppo e passare accanto al mio tavolino, seguiti da un altro uomo che seguo con lo sguardo senza farmi vedere.

Però, bel fondoschiena.

Si siedono al tavolino davanti al mio.
Non capisco cosa dicono per via della musica che ascolto a volume non tanto basso, ma quando uno di loro mi fa il segno del telefono, capisco che il rumore in sottofondo che sentivo è quello di una chiamata in arrivo.
Sfilo le cuffie e cerco il cellulare in borsa, credendo che sia Anna o i miei genitori, ma quando sullo schermo vedo un numero non salvato italiano, premo il tasto rosso.
Lo lascio sul tavolo, accanto alla tazza, leggendo le altre notizie di cronaca. La pace purtroppo dura poco perché il telefono squilla ancora, il numero questa volta è diverso ma sono sicura che la motivazione sia la stessa della prima chiamata, quindi evito di rispondere e riattacco sentendo una primitiva rabbia nascere.
Smetto di fare qualsiasi cosa, cercando di non pensare a niente ma ancora una volta mi viene impedito dallo squillìo a cui non bado, lasciandolo suonare, sperando che chi è dall’altra parte, capisca che non ho voglia di parlare con loro.

“Smetti di importunarci con questa stramba suoneria e rispondi!”

E’ stato un uomo a parlare, con voce autoritaria e spazientita.
Evito di rispondergli perché sarei sgarbata anche con lui, limitandomi a finire il latte e lasciare qualche penny di mancia.
Ma, a quanto pare, qualcuno ce l’ha con me perché il telefono suona ancora, facendo andare in escandescenza me per un motivo e l’uomo per un altro.

“Cazzo di palle!” sbotto in italiano, tirando in su gli occhi.

“Sei sorda ragazzina? Rispondi e smettila di disturbare.” ringhia spazientito.

Mi volto verso di lui, pronta a mandarlo a quel paese, fermando la mia lingua lunga quando riconosco l’amico di Alan.

“Io faccio quello che mi pare.” gli dico, smettendo di guardarlo per osservare fuori, concentrandomi sui pedoni o sulle auto che sfrecciano per strada.

“No, non lo fai se mi disturbi.” aggiunge, al limite della pazienza.

“E io non mi faccio dare ordini da nessuno.” lo guardo negli occhi, sfidandolo a dire altro, pure io al limite della pazienza.

“Non mi piace ripetere le cose: rispondi o spegnilo.” si alza, poggiando le mani al tavolo, per mettere in mostra la sua imponenza e mostrandomi la nostra più che evidente differenza di altezza.

“Perché, altrimenti cosa mi fai?” mi alzo in piedi, poggio le mani sui fianchi, sapendo che andrò a cacciarmi in qualche guaio.

“Piano con le parole, non sai chi hai di fronte.” si intromette uno dei suoi, fulminandomi con lo sguardo.

“E lui sa chi sono io? Ecco, siamo pari.”

Ce li lascio di sasso, facendo sorridere la cameriera che fino a questo momento ci stava guardando tra il divertito e il preoccupato.
Raccolgo tutta la mia roba e una volta aperta la porta del locale, mi volto verso di loro che mi stanno ancora fissando e gli alzo il dito medio.

Una volta fuori, mi preoccupo di mettere più distanza tra me e quell’energumeno. E pensare che gli ho pure guardato il culo, mi prenderei a sberle da sola.
Durante il tragitto di ritorno penso se sia il caso di dire ad Anna ed Alan del mio scontro; so di essere stata maleducata, ma anche lui con il suo gruppetto di amici non è stato da meno, quindi, decidendo che non è una cosa importante, convengo con me stessa che è meglio non importunarli con cose da niente.
Rincuorata da queste convinzioni, torno a casa molto più rilassata, benché sia ancora nervosa per tutte quelle chiamate indesiderate da parte di persone altrettanto indesiderate.
Quando arrivo davanti alla graziosa abitazione rustica è già buio e attraverso la portafinestra della cucina intravedo i due sposi parlare tra loro di un argomento che pare gli stia molto a cuore, mentre preparano la cena insieme.
Li spio un attimo, invidiando mia cugina per essere riuscita a trovare l’uomo giusto.
L’ha trovato, conosciuto e nel giro di qualche mese se l’è pure sposato. Ripensandoci, forse non ha fatto una mossa molto saggia, ma a giudicare da come ne parla e da come si comportano, sembrano proprio felici.

È Alan il primo ad accorgersi di me, apre la porta permettendomi di unirmi a loro.

“Ma dove sei stata? Credevo di dover chiamare la polizia.” dice Anna, tra il divertito e il serio.

“Sono stata a fare una passeggiata in paese.” faccio spallucce.

“Accidenti, mi potevi chiamare. Ti sarei venuta a prendere.”

“Mi ha fatto bene camminare.”

Bene… più o meno.

La serata procede tranquilla, come tutte le sere trascorse qui a casa loro, fino a che Alan non smette di parlare e di ascoltare, come se fosse concentrato qualcosa nella sua mente.

“Con permesso.” si alza sparendo senza dirci altro.

Guardo mia cugina, ma lei è troppo impegnata a fissare il punto dietro il quale è sparito suo marito che ritorna qualche minuto dopo, con degli abiti completamente diversi, molto più sportivi.

“Devo andare, mi hanno chiamato.” dice a voce non tanto alta, parlando un inglese parecchio dialettale.

Solo che io riesco a capirlo lo stesso, se mi impegno.

“E’ successo qualcosa?” chiede Anna, col tono di voce preoccupato.

“Niente di cui allarmarsi, però l’alf… il capo ha richiamato tutto il… la squadra.”

Bacia lesto sua moglie e senza aggiungere altro se ne va.
Perplessa da questo sviluppo repentino degli eventi, chiedo a mia cugina che razza di lavoro faccia Alan per essere dovuto scappare via in questo modo e a quest’ora.
Lei tergiversa un attimo, come se non sapesse cosa dire.

Ma che hanno tutti stasera?!

“Lui… lui lavora per l’ente di protezione della fauna. Sai, il suo capo è quell’uomo che è venuto a trovarci l’altra sera. Gli hai aperto tu, ricordi?”

Dio, potrebbe andare peggio di così?




*Angolettino mio*

Eccoci col secondo capitolo...
Spero vi piaccia, fatemi sapere la vostra tramite segnale di fumo, corvo messaggero o piccione. Si accetta di tutto :) 
Un abbracio,
me <3

  
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