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Autore: Chipped Cup    30/07/2018    3 recensioni
[ Mini Long di 6 capitoli | Johnlock | Victorian AU ]
Di ritorno dalla guerra in Afghanistan, John Watson si ritrova senza un lavoro né un posto dove vivere. Finisce così a servire la famiglia Holmes, prima come cameriere e, in seguito, come valletto personale del loro secondogenito, Sherlock, un uomo solitario, scorbutico e intrattabile, che sembra nutrire, però, una certa simpatia per l'ex soldato.
Genere: Angst, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Irene Adler, John Watson, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Victor Trevor



Quella fu forse, anzi quasi sicuramente, la notte peggiore della sua vita – almeno fino a quel momento. Non fece altro che rigirarsi nel letto, già scomodo di per sé, incapace di chiudere occhio o anche solo smettere di pensare agli ultimi avvenimenti, continuando a sussultare sul posto ad ogni minimo rumore.

Immaginava di essere portato via da un momento all'altro: il pensiero delle guardie che irrompevano su due piedi, senza preavviso, nella sua stanza per afferrarlo con violenza e portarlo, sotto lo sguardo di tutti, dritto in prigione non accennava a volerlo abbandonare. Holmes non aveva chiesto soccorso subito, non aveva mandato nessuno in città per denunciarlo, o almeno non lo aveva fatto in sua presenza, perciò niente gli assicurava che non avesse agito dopo averlo mandato via. Una parte di lui si cullava al pensiero che Sherlock non sarebbe mai andato a disturbare nessun domestico a quell'ora della notte e che, quindi, avrebbe rimandato tutto all'indomani mattina.

Non si illudeva del fatto di poter riuscire a calmarlo, ad implorarlo e a fargli cambiare idea; aveva visto con quale rabbia lo aveva tirato via, era certo che non avrebbe lasciato passare la cosa per nessun motivo al mondo. Eppure, in un primo momento e, magari, stupidamente, aveva pensato, o meglio sperato, che Holmes dimenticasse l'accaduto, che almeno ci provasse e lo perdonasse. Si erano avvicinati molto nell'ultimo periodo, era un uomo buono al contrario di quello che poteva dire l'apparenza, si disse che non avrebbe mai mandato un amico a patire in carcere.

Ma si disse anche che un vero amico non si sarebbe mai comportato in quel modo; e Sherlock era una persona orgogliosa, senza contare che aveva un onore da difendere, onore che sarebbe stato macchiato a vita se quella storia fosse venuta fuori, un giorno o l'altro, rivelando come Sherlock avesse messo tutto a tacere e fatto finta di nulla. Avrebbero additato anche lui, come omosessuale, lo avrebbero arrestato senza pensarci due volte, ignorando come erano andate veramente le cose, ignorando come era stata tutta colpa sua, come avesse frainteso certe parole e certe gesti e come il suo signore lo avesse allontanato malamente. C'era qualcosa che non andava in lui, pensò, se invece di pensare e preoccuparsi di quella che sarebbe stata la sua rovina, perdeva tempo in apprensione per il Sherlock Holmes.

Non avrebbe mai dimenticato il suo volto, così come non avrebbe mai potuto dimenticare quel bacio. Era sbagliato, lo sapeva, e lui era stato uno stupido a fiondarsi sulle sue labbra, eppure solo pensare a quel tocco lo faceva rabbrividire, lo portava in tutt'altra dimensione, lo calmava. Forse era impazzito, completamente impazzito. Come poteva essere diversamente?

Si voltò dall'altra parte, la luce della luna entrava dalle finestre prive anche solo di una misera tendina – si era detto più volte di richiederne una a Lestrade, ma gli era sempre sfuggito di mente. Poco male, tanto non avrebbe dormito comunque. Era giunto il momento di pensare ad un modo per salvarsi la pelle, e la faccia. Magari se avesse dato le dimissioni, come prima cosa al mattino... i Signori Holmes sarebbero rimasti sorpresi, Lestrade avrebbe chiesto spiegazioni, ma non sarebbe stato poi il primo valletto a gettare la spugna con Sherlock Holmes, non sarebbe stato un problema lasciarglielo credere. Se non fosse che tutti avevano potuto osservare il loro rapporto, il legame che si era creato; difficilmente avrebbero fatto affidamento su quella versione. Senza contare che era praticamente un'impresa impossibile darla bere a quella famiglia, perspicaci e osservatori, tutti loro. No, avrebbero capito che qualcosa non andava, avrebbero fatto domande, sia a John che a Sherlock e a quel punto...

No, non poteva licenziarsi. Non poteva fare nulla, quella storia era destinata a venire fuori.

Sospirò, non conosceva più altre parole per insultarsi, ormai, ed aveva passato ore intere a non fare altro. Aveva rovinato tutto con una singola mossa, la sua carriera, la sua vita, il suo onore forse, ma cosa più importante, la sua amicizia con Sherlock. Aveva ancora davanti agli occhi la sua espressione, non poteva scordarla. Soprattutto non riusciva ad accantonare il solito pensiero, ovvero che dietro la sua rabbia si celasse dell'altro, molto altro. Non aveva visto disgusto o delusione, anzi, c'era stato un istante in cui si era quasi sentito ricambiare, ma poi era scattato. Era da pazzi pensare che si fosse protetto dietro quella collera? C'era un'ombra di tristezza sul suo viso, un briciolo di malinconia e John continuava ad interrogarsi da dove nascesse.

O, più semplicemente, si era immaginato tutto. E quel sentimento che aveva avvertito doveva essere a senso unico, doveva aver senz'altro frainteso qualsiasi gesto o parola di Holmes, specialmente quell'ultimo discorso. “Le donne, non sono proprio la mia area”. Così aveva detto, più o meno. Era certo che quella frase non potesse avere altre spiegazioni, o forse sì? Aveva osato insultare il suo padrone, oltraggiarlo, solamente per delle parole fraintese.

Oltraggio, sembrava insensata quella parola se accostata ad un bacio. John sospirò, nel silenzio della notte. Aveva visto la vera forma del male, aveva potuto assaporare la mostruosità che viveva in quel loro mondo, la brutalità degli uomini sul campo di battaglia. Era certo che un bacio non avesse niente a che vedere con tutto questo. Eppure, restava una cosa vietata e malvista. Stentava quasi a crederci. E chi lo aveva deciso, poi? Gli uomini. Gli stessi uomini che creavano armi da fuoco, fucili, pistole, bombe. Gli stessi uomini che spargevano sangue e morte solamente per conseguire degli ideali che diventavano sempre meno importanti mano a mano che il tempo passava.

Lì fuori c'erano mogli, madri, sorelle che perdevano il proprio uomo, il proprio figlio e il proprio fratello per colpa di una guerra. E lui sarebbe stato arrestato, pur non avendo ucciso nessuno, soltanto perché aveva osato provare dei sentimenti nei confronti di un altro uomo. Come se avesse mai potuto fare qualcosa per impedirlo, tra l'altro. Non aveva voluto tutto questo.

Si addormentò, alla fine, con le prime luci dell'alba, vinto dalla stanchezza. Si risvegliò poco dopo, alle cinque come ogni mattina. La voglia di non lasciare il letto e di darsi malato era tanta, ma si costrinse ad alzarsi, lavarsi con acqua gelida, vestirsi e raggiungere gli altri nell'ala della servitù per la colazione.

«Ha un aspetto orribile» non mancò di fargli notare Molly, una volta che ebbe raggiunto la tavola e si fu seduto al suo fianco. Anche Lestrade si voltò a lanciargli un'occhiata, ma non aggiunse niente, seppure storse la bocca non gradendo le sue occhiaie, i capelli spettinati e la faccia scura.

«Non ho dormito molto» rispose semplicemente, ringraziando la cuoca che passò a riempire di porridge il suo piatto vuoto.

«Qualcosa la tormentava?» Gli domandò mostrandosi preoccupata. Si vedeva come volesse aiutarlo, peccato che John non fosse né dell'umore adatto per farsi compatire, né per parlare.

«No» ribadì, stanco «semplicemente non riuscivo a prendere sonno, Miss Hooper» spiegò brusco e sbrigativo. Molly sussultò e abbassò il capo, delusa o forse imbarazzata. Mrs. Hudson non li aveva persi di vista per tutto il tempo, gli rivolse uno sguardo sospettosa.

«Non sia scortese con la Signorina Hooper, John. È un bene avere qualcuno che si preoccupa per noi di questi tempi» lo rimproverò, avvicinandosi una fetta di pane. John si fece piccolo piccolo, gli ricordò molto sua madre.

«Ha ragione, Mrs. Hudson» concesse in un sospiro «mi dispiace, Miss Hooper. Ho la testa che mi esplode e non riesco a pensare come si deve» tentò di giustificarsi senza rivelare troppo.

«Non fa niente. Forse si sente poco bene, forse è influenza!»

Watson aprì la bocca per rispondere, ma Lestrade lo interruppe subito. «Sciocchezze!» Esclamò, prima di fiondarsi sul suo porridge, probabilmente preoccupato di dover pensare a come sostituirlo in caso di qualche malanno: gli aveva rivelato, qualche giorno prima, come fosse la prima volta da un bel po' di tempo che un valletto resistesse tanto, insieme a Sherlock.

Pensare che, di lì a poco, avrebbe dovuto davvero cercare qualcuno che prendesse il suo posto.

Arrivò poi la tarda mattinata, John aveva già adempiuto alla maggior parte dei suoi compiti quando Mrs. Hudson gli si presentò davanti con un sorriso gentile. «È tardi, caro, deve andare a svegliare il signor Sherlock.»

John si immobilizzò sul posto per qualche istante. Immaginava che Sherlock non volesse vederlo, lui per primo si sentiva imbarazzato e, doveva ammetterlo, spaventato. Non aveva pensato di dover andare a svegliare il suo padrone, né di prepararlo per la colazione o per la cena di quella sera, né di aiutarlo in qualche ricerca. Aveva dato per scontato che sarebbe stato denunciato e portato via già da quella mattina.

«Io...» cominciò a dire, doveva trovare assolutamente una scusa per delegare i suoi compiti, almeno per quel giorno «io non credo che sia una buona idea» affermò subito dopo, mordendosi la lingua all'occhiata accigliata della donna. Lestrade, dietro di lei, alzò gli occhi e restò in attesa. «Voglio dire, non mi sento molto bene. Davvero. Anzi, volevo giusto chiedere un permesso per prendermi una giornata di riposo, signor Lestrade.»

L'uomo lo scrutò attentamente. «Qualunque cosa abbia, non è grave, Signor Watson. Sta bene, ha un colorito un po' pallido, lo concedo, ma sta bene. Ora, vada a svegliare il Signor Holmes» pareva irremovibile, così John, sospirando sonoramente, si incamminò verso la camera del padrone.

Restò un po' fuori la porta, agitato. Non sapeva come si sarebbe comportato l'altro, così come non sapeva come si sarebbe comportato lui stesso. Doveva dire qualcosa? Si disse di provare a chiedere scusa, almeno quello glielo doveva. Holmes probabilmente non lo avrebbe accettato, magari lo avrebbe cacciato subito. O forse si sarebbe limitato ad ignorarlo? John, personalmente, lo sperava, anche se dubitava che il suo signore si sarebbe lasciato anche soltanto avvicinare.

Posò la mano sulla maniglia, respirò a pieni polmoni ed entrò. Non doveva fare altro che accostarsi al letto, posare una mano sulla spalla di Sherlock così come aveva fatto ogni mattina, scuoterlo leggermente e aspettare che lo mettesse a fuoco. Avrebbe capito solamente allora quale sarebbe stato il suo destino. Se Sherlock avesse urlato, o reagito violentemente, voleva dire che la sua ora sarebbe stata vicina; se lo avesse ignorato, significava che, forse, se la sarebbe cavata con un semplice licenziamento.

La stanza era completamente immersa nel buio; gli era già capitato di dirigersi, come prima cosa, verso le tende così da scostarle bruscamente per lasciar entrare il sole. Era capitato due volte, in effetti: la prima per errore, era solamente la sua prima mattina e Sherlock lo aveva stuzzicato e preso in giro per giorni interi; la seconda era stata volontaria, più o meno un mese prima, si era preso il privilegio di fargli uno scherzo e Sherlock l'aveva fortunatamente presa sul ridere – dopo qualche ora. Di certo, per quella mattina gli scherzi erano cancellati.

Si accostò silenziosamente affianco al letto, posò una mano sulle lenzuola rialzate, ma si ritrovò ad affondarla nel materasso. Sbarrò gli occhi, cominciò a tastare ovunque, la consapevolezza di trovarsi davanti ad un letto sfatto, ma vuoto. Corse alle finestre, fece entrare la luce mattutina del sole e poi si voltò di nuovo. La stanza era vuota: era certo che Sherlock avesse provato a dormire, la sera prima, lo si capiva dal disordine delle lenzuola, il problema, adesso, era capire dove fosse andato.

Cominciò ad andare nel panico: non poteva essersi svegliato prima di loro per andare in città, lo avrebbero senz'altro saputo e qualcuno lo avrebbe visto, in più mancava ancora un'ora alla colazione, quindi era impossibile che fosse sceso per mangiare senza aspettarlo. Si guardò intorno, spaesato, grattandosi il capo nervoso. Notò subito la mancanza della sua vestaglia da camera, solitamente era poggiata sulla sedia della scrivania e nessuno osava spostarla. Doveva trovarsi per forza in casa, non poteva essere uscito. E poi, un pensiero lo attraversò all'improvviso: l'albero dietro la serra era diventato una sorta di ritrovo per entrambi, lo usavano soprattutto quando Sherlock voleva scappare dalle serate in famiglia. Avrebbe scommesso tutti i suoi averi che il moro si trovasse lì.

Rapido si precipitò fuori dalla stanza e poi in giardino, stando attento a non farsi vedere lungo il tragitto così da non essere obbligato a dare delle scomode spiegazioni. Non gli fu difficile individuarlo, seppur ben nascosto dai cespugli. Stava fumando, lo poteva dire da una piccola nuvoletta di fumo che veniva fuori da dietro l'albero. John si avvicinò, rassicurato dal fatto di averlo trovato, ma poi lo vide: indossava gli stessi vestiti della sera prima, la veste da camera sopra la camicia; ai suoi piedi c'erano vari mozziconi di sigaretta, rinunciò a contarli sapendo che gli avrebbe fatto senz'altro la morale, facendolo innervosire; teneva gli occhi chiusi, la sigaretta accesa nella mano destra, poggiata a sua volta sul ginocchio, la testa era poggiata al tronco dell'albero, alta e puntata verso il cielo. Sembrava che stesse dormendo, ma John, esperto, sapeva che in realtà stava semplicemente pensando. E in quei momenti era vietato disturbarlo, ma Watson aveva il vago terrore che avesse passato l'intera notte lì fuori, al freddo e coperto soltanto da quella misera vestaglia. Doveva portarlo in casa il prima possibile.

«Signor Holmes» lo chiamò, piano; Holmes mosse appena le sopracciglia, facendogli capire di essere in ascolto «da quanto tempo è qui fuori?» Non ricevette una risposta, lo prese come una sorta di conferma al suo sospetto. «Non ha dormito, signore?»

«Non ho bisogno di dormire» commentò quello, che non sembrava avere la benché minima voglia di starlo ad ascoltare. John ingoiò il colpo, fece per aprire bocca, ma Holmes lo fermò. «E neanche di mangiare: deduco che è per questo che lei è qui» aprì gli occhi e lo guardò per la prima volta dopo l'accaduto. John annuì, e Sherlock spostò lo sguardo. Finì di fumare in silenzio, poi si alzò in piedi e cominciò a dirigersi verso casa.

«Dove... dove sta andando, signore?» Gli domandò Watson, andandogli dietro, certo che la famosa discussione non sarebbe stata rinviata ancora per molto.

«Devo cambiarmi, Watson, o crede che possa andarmene in giro con gli stessi abiti di ieri?» Non era ciò che John si aspettava, ma lo seguì silenzioso, fino alle sue camere. Immagini della sera prima gli riempirono la mente, mentre guardava Holmes levarsi la veste e appoggiarla sulla sedia. Restò in piedi davanti alla porta chiusa, le mani dietro la schiena in una posizione composta. Non sapeva cosa fare né dove guardare, era certo che Sherlock non lo volesse vicino, che non gli avrebbe permesso neanche di toccarlo e, sicuramente, non avrebbe voluto che lo guardasse spogliarsi. Si domandò allora perché lo aveva voluto lì, rispondendosi subito che magari gli avrebbe chiesto di consegnare le dimissioni.

Solo allora si accorse che Holmes lo stava fissando. «Cosa sta aspettando?» Gli domandò, sbattendo le ciglia.

«Come, scusi?» Sherlock indicò i suoi vestiti nuovi, e poi quelli che aveva indosso con sguardo eloquente. John spalancò la bocca, stupito. «È sicuro?» Chiese, non riuscendo a trattenersi.

Holmes lo guardò confuso. «È il suo lavoro» rispose. John non ci stava capendo niente.

Nonostante ciò si avvicinò, ripose i suoi vecchi abiti e lo aiutò ad indossare quelli puliti. Solitamente questa operazione era seguita da chiacchiere più o meno serie, John domandava quali fossero i suoi piani per la giornata e Sherlock gli illustrava i vari esperimenti che voleva mettere in atto, chiedendogli poi il suo parere e il suo aiuto. Allora John cominciava un discorso più frivolo, solo per innervosirlo, e alla fine Holmes si presentava a colazione ridacchiando e con uno strano appetito che metteva l'intera famiglia di buon umore. Quella volta, nessuno dei due osò emettere un solo fiato.

«Può andare, Watson. Non voglio essere disturbato per tutto il giorno, se non le dispiace farlo sapere anche ai miei genitori.»

E nessuno osò avvicinarsi alla sua camera per il resto della giornata. John se ne stava all'erta, comunque: Sherlock aveva scelto di comportarsi freddamente, ma questo non significava che la storia fosse chiusa. E pensare che si era anche ripromesso di chiedergli scusa, poi una volta davanti a lui non era riuscito a spiccicare due parole. Lo aveva guardato e gli si era mozzato il fiato, ancora e ancora. Qualsiasi discorso che si era preparato gli era suonato stupido, nella sua mente, e aveva deciso di lasciare perdere. Eppure non poteva restare nel dubbio, non poteva vivere sospeso. Magari Sherlock non lo avrebbe denunciato, ma non aveva intenzione di perdere la sua amicizia. Ma forse era tardi anche per quello, pensò.

Era seduto davanti la tavola, in quel momento, osservava Mrs. Hudson intenta a ricamare, quando Lestrade entrò nella stanza; stava parlando con Anderson, John non prestava attenzione al discorso, perso nei suoi pensieri, ma una frase riuscì a catturare ugualmente la sua attenzione.

«E domattina il Signor Holmes ha intenzione di recarsi in città. È strano, soprattutto improvviso, non mi ha spiegato neanche cosa deve fare.»

John li fissò senza neanche rendersene conto, gli occhi vitrei, le gambe molli e il cuore in gola. Allora aveva deciso, alla fine, lo avrebbe denunciato l'indomani. Non gli aveva neanche rivolto una parola a riguardo, ma aveva comunque deciso di intraprendere la strada più ovvia da percorrere. Doveva aspettarselo, si disse, eppure sentì qualcosa nel suo petto spezzarsi. Decise che avrebbe lasciato quella casa a testa alta, o almeno ci avrebbe provato. Sarebbe stato arrestato davanti a tutti, ma non aveva intenzione di abbassare lo sguardo o di provare vergogna per ciò che aveva fatto, benché meno per ciò che provava. Decise, soprattutto, che Sherlock avrebbe dovuto dirglielo in faccia, non poteva nascondersi in quel modo, rinchiudendosi nella sua stanza e lasciando il resto del mondo, lasciando lui, al di fuori.

Senza proferire parola con nessuno, si alzò e si diresse, ancora, verso la camera del suo padrone. Una volta raggiunto il terzo piano, avvertì della musica provenire proprio dalla sua stanza. Era il suono inconfondibile di un violino, ma non avrebbe mai saputo riconoscere il brano suonato, completamente ignorante in materia. Disorientato, si avvicinò comunque alla porta, bussando tre volte sulla superficie di legno. La musica cessò subito, un attimo dopo Sherlock gli fu davanti, violino in una mano e archetto nell'altra; lo lasciò entrare, John si premurò di chiudersi la porta alle spalle.

«Non sapevo che suonasse, signore» ancora una volta, tutti i suoi buoni propositi furono mandati a farsi benedire, i suoi discorsi cancellati. Notò la custodia del violino abbandonata e aperta sul letto di Holmes, non riusciva a non chiedersi dove l'avesse tenuto fino a quel momento, da quanto tempo lo suonasse e perché non aveva mai avuto l'occasione di sentirlo suonare. Quell'uomo non avrebbe mai finito di sorprenderlo.

«Stavo componendo» rivelò «avevo chiesto di essere lasciato solo» commentò con tono basso; non sembrava arrabbiato, più che altro infastidito – sia per non essere stato ascoltato, che per essere stato interrotto. Watson fu felice di non dover affrontare la sua ira un'altra volta.

«Le chiedo scusa, signore, ma devo assolutamente parlarle» cominciò a dire, stringendo i pugni per farsi forza. Sherlock gli rivolse una rapida occhiata.

«Ebbene?» Fece, in attesa.

Watson prese un respiro profondo. «Riguardo a... quello che... insomma...» non riusciva a parlare con lo sguardo dell'uomo così fisso nei suoi occhi, gli veniva da abbassare la testa o rivolgerla da tutt'altra parte. Sherlock lo incitò con un cenno del capo, impaziente. «Riguardo a ieri sera» biascicò; il moro parve irrigidirsi, si grattò il capo con l'archetto del violino e poi andò a posarlo, alla ricerca di una scusa per dargli le spalle, con molta probabilità. «Signore, devo chiederglielo. Ha intenzione di farmi arrestare?»

L'uomo fece appena in tempo a pizzicare una corda del suo violino, prima di voltarsi di nuovo per guardarlo, questa volta, come se fosse uno stupido. «E lei non crede che a quest'ora lo avrei già fatto?»

Sicuramente aveva centrato il punto, i dubbi di John nascevano proprio da lì. «Non ha intenzione di farlo, quindi?»

«No.»

«Perché?» Non avrebbe dovuto stuzzicarlo troppo, forse, ma aveva bisogno di capire, di comprendere cosa lo fermasse dal farlo. Forse era gratitudine per averlo servito in quegli ultimi mesi, o forse più semplicemente non voleva condannarlo a un tale destino. Lo osservò mentre andava a sedersi, sguardo fisso verso il vuoto, il violino tra le mani. Aveva ripreso a pizzicarne le corde, John capì che non avrebbe mai ricevuto una risposta a quella domanda. Sherlock Holmes era incredibile, constatò, avrebbe potuto parlare per ore intere con il solo scopo di mettersi in mostra, ma bastava rivolgergli una domanda un po' più personale per farlo ammutolire. «Beh... grazie» mormorò, con il capo chino. Aveva altri argomenti da trattare, ma Sherlock non pareva in vena di affrontarli, perciò si girò verso la porta, per lasciarlo solo alla sua musica.

«Lei vorrebbe licenziarsi» la voce di Holmes lo bloccò; non gli aveva fatto una domanda, quanto una constatazione, e senza nemmeno degnarlo di uno sguardo tra l'altro. John fece pochi passi in sua direzione, senza avvicinarlo troppo. Ancora una volta fece per parlare, ma l'uomo lo anticipò. «Non c'è bisogno di arrivare a tanto» assicurò «può tornare a fare il cameriere, i miei genitori capiranno.»

«Non mi vuole più come valletto?» Chiese sconvolto, al posto di un più comune “Come diavolo faceva a saperlo?!”, era abituato a quel tipo di osservazioni di Sherlock, anche se continuavano a lasciarlo senza parole.

«Non erano queste le sue intenzioni?» Domandò l'altro di rimando, l'espressione neutra di uno che conosceva già la sua risposta. John non rispose, non sapeva bene cosa dirgli. Sì, voleva discutere sulle sue dimissioni, ma tutto ciò non lo allettava minimamente. Si era affezionato a quel lavoro, a quelle persone e, inutile dirlo, soprattutto a lui.

«Ho pensato che fosse la cosa giusta da fare» rispose alla fine, messo con le spalle al muro. Non sapeva esattamente perché ci stava rimanendo così male, non si era mai aspettato che Holmes lo fermasse o glielo impedisse, chiedendogli magari di restare. O forse sì? Questo stava a dimostrare solamente quanto idiota fosse.

«Bene allora, non c'è motivo di discutere oltre» disse, riprendendo l'archetto e ricominciando a suonare la stessa malinconica melodia di poco prima, senza dargli modo di replicare.


*


I Signori Holmes non fecero molte storie, erano abituati a vedere valletti rinunciare continuamente al loro compito; ben più complicato fu spiegarlo a Lestrade e al resto dei domestici. La maggior parte di loro aveva visto coi propri occhi il rapporto che si era instaurato tra lui e Sherlock, sembrava impossibile che un semplice capriccio di Holmes avesse messo un punto a tutto. John non volle mai entrare nei dettagli, pur continuava a difendere Sherlock ogni volta che qualcuno osava insinuare che fosse stato un padrone troppo esigente. Non era semplice avere a che fare con quell'uomo, in quelle settimane avevano avuto tante divergenze e John aveva perso la pazienza il più delle volte, ma restava comunque una delle persone più brillanti che avesse mai conosciuto e avrebbe dato il suo braccio destro pur di poter passare anche soltanto un'altra misera ora in sua compagnia. Cosa che non sarebbe stata possibile, colpa anche di Sherlock, che aveva preso l'abitudine – o per meglio dire, l'aveva ritrovata – di non presentarsi durante i pasti. Forse non voleva vederlo, o forse aveva davvero la mente troppo occupata per mangiare; Watson, comunque, ne dubitava.

Anderson aveva preso il suo posto, John avrebbe preferito essere rimpiazzato da un estraneo, assolutamente. Per un giorno intero, l'uomo aveva camminato ad un metro da terra, vantandosi di ricoprire finalmente il ruolo che meritava. L'unica che sembrava in grado di sopportarlo, in quelle ore, pareva essere Miss Donovan, la cameriera personale di Miss Holmes – neanche sua moglie, nientemeno che la cuoca della famiglia, riusciva a tollerare i suoi modi arroganti. Ma il dover sopportare Anderson non era la cosa che lo infastidiva, di tutta quella situazione: ricordava le parole di Sherlock, sull'argomento, sapeva come non si fidasse minimamente dell'uomo; non lo sopportava, la sua vista lo innervosiva, e adesso avrebbero dovuto condividere gran parte della giornata e delle attività. E tutto per colpa sua, non faceva altro che ripeterselo da giorni.

Ma l'antipatia che aveva Holmes nei confronti del suo nuovo valletto, non tardò a palesarsi davanti gli occhi di tutti. Avevano appena finito di servire la cena ai Signori, Mrs. Holmes, come sempre, aveva chiesto ad Anderson di portare a Sherlock da mangiare visto che si ostinava a rinchiudersi nella sua camera. Tutti loro, adesso, erano seduti intorno al tavolo e si apprestavano a mangiare, a loro volta, quando il valletto irruppe furiosamente nella stanza, inveendo contro Sherlock Holmes.

«Vuole farmi uscire di senno!» Urlò, facendosi avanti e mostrando solamente allora la grande macchia sulla camicia bianca «Le sta provando tutte, so che lo fa apposta! “Anderson, mi porti questi campioni” “No, Anderson, non intendevo dire che dovesse portarmeli adesso!” “Non parli, Anderson, mi innervosisce. Non pensi, non si azzardi neanche a pensare: è irritante” “Anderson, posi il vassoio e si volti verso la parete, la sua faccia mi deconcentra”. Ne ho abbastanza!» John cercò in tutti i modi di trattenere le risa, nonostante tutto trovava quella situazione incredibilmente esilarante, cosa non avrebbe dato per poter assistere a certe scene in prima persona. «E adesso questo!» Si indicò indignato la camicia «Mi ha lanciato una palla di carta proprio mentre gli stavo portando la cena, sono certo che il suo intento altri non fosse che farmi rovesciare tutto per terra – e soprattutto addosso

«Si calmi, Mr. Anderson» proruppe Lestrade, con tono calmo, muovendo appena la mano per intimarlo ad abbassare i toni e a darsi una regolata «sapeva benissimo che non sarebbe stata una passeggiata. Il povero Signor Carter riceveva 57 insulti al giorno – aveva cominciato a contarli dopo una settimana, non sta passando niente di diverso da tutti gli altri.»

«E invece si sbaglia» continuò l'altro, che non aveva la minima intenzione di calmarsi «era diverso con lui» esclamò all'improvviso, indicandolo con un gesto della mano. John alzò lo sguardo, la risatina era finita.

«Posso assicurarle, Signor Anderson, che non è stata una passeggiata neanche con me» ed era vero, per due mesi aveva dovuto sottostare ad incredibili capricci e voglie insensate di Holmes, non se n'era mai lamentato veramente con gli altri, forse ne aveva parlato solamente con Lestrade ma entrambi avevano trovato il modo di riderci sopra.

«Sciocchezze. Ha resistito due mesi, due interi mesi! Era piuttosto ovvio che con lei ci andava più leggero, non c'è altra spiegazione.»

«Oppure ho semplicemente avuto più sangue freddo» ribatté, lanciandogli uno sguardo di fuoco. Anderson lo squadrò cagnesco, era pronto a ribattere ma Lestrade si mise in mezzo.

«Va bene, adesso basta. Mr. Anderson, vada a cambiarsi e torni giù a cenare. Non voglio sentire altre discussioni, per questa sera!»

E così fece, almeno per quella sera. John passò il resto della serata in silenzio, un nuovo pensiero per la testa. Sherlock lo aveva trattato diversamente, rispetto agli altri? Era stato, a suo modo, gentile? Non sapeva dirlo con certezza, soprattutto non aveva modo di confrontarsi con gli altri. Di certo, lo aveva trattato meglio di Anderson, ma era pronto a scommettere che la sua intenzione era quella di farlo impazzire tanto da costringerlo a dimettersi, non volendolo attorno. E non aveva conosciuto abbastanza il precedente valletto, il Signor Carter, per poter fare un confronto, non avevano mai veramente discusso di qualcosa, qualunque argomento, e non avevano mai parlato di Sherlock Holmes. Ma John era certo che con Carter aveva contato molto anche la differenza di età, troppo diversa per poter creare un qualsiasi tipo di legame. Però di una cosa era sicuro: Sherlock era solito rispettare pochissime persone, in quella casa, e lui era uno di questi. Doveva sentirsi in qualche modo speciale, e per un periodo di tempo era stato proprio così.

«Cos'è successo veramente tra di voi, John?» Mrs. Hudson lo riscosse da i suoi pensieri. Tornò alla realtà di soprassalto, si guardò velocemente intorno notando solo allora come tutti avessero ormai lasciato la stanza. Miss Donovan stava uscendo proprio in quel momento, ma volse lo sguardo in sua direzione, probabilmente incuriosita.

«Niente davvero, Signora Hudson» rispose lui, distogliendo lo sguardo dalla donna, cercando di mettersi sulla difensiva e lasciar trasparire il meno possibile. Eppure era certo che ne sapesse più di quanto voleva fargli credere.

«Mi risulta impossibile da credere, abbiamo visto tutti l'amicizia che vi legava. Uno dei due deve aver senz'altro fatto qualcosa. E ho paura anche di sapere di cosa si tratti.»

John impallidì e si sforzò di osservarla. Era seria, ma sinceramente preoccupata per lui, e per entrambi, un pochino sospettosa, forse anche spaventata. Si irrigidì e annaspò, aprì la bocca per ribattere, ma poi si ricordò della presenza della Donovan, così si girò con uno sguardo eloquente, per invitarla a lasciare quella stanza visto che la discussione non la riguardava affatto. La donna ubbidì al suo ordine silenzioso, seppur indispettita e scocciata; Watson immaginò che fosse corsa a spettegolare con Anderson. E magari anche a fare dell'altro, alle spalle della moglie dell'uomo.

«Non capisco proprio cosa lei voglia dire, Mrs. Hudson. Cosa potrei mai aver fatto, per farlo arrabbiare?» Decise di tastare il terreno, rimanendo sul vago. Voleva capire se i sospetti che aveva della donna fossero esatti.

«No, non farlo arrabbiare. Da quanto ho potuto osservare, il Signor Sherlock le avrebbe concesso e perdonato qualsiasi cosa. Forse lei non se ne rende conto, dopotutto è qui solamente da tre mesi, ma le assicuro che non permette a nessuno di avvicinarglisi, non lo permette neanche alla sua stessa famiglia. Lo permette a me, per rispetto alla mia età, e lo permette al Signor Lestrade, in rispetto della sua autorità. E lo ha permesso a lei, Signor Watson, quasi senza neanche conoscerla.»

John non avrebbe mai saputo replicare a quell'affermazione con delle parole di senso compiuto. Aveva appena risposto, senza volerlo, a ciò che si era chiesto poco prima, confermando tra l'altro le parole di Anderson. Gli avrebbe perdonato tutto, diceva lei; non proprio tutto, però, a quanto sembrava. Non avrebbe mai digerito quel bacio. «Se non è rabbia, allora cos'è?» Domandò piuttosto, approfittando dei numerosi anni di servizio della cara Mrs. Hudson.

«Si è chiuso in se stesso» constatò, pensando tra sé «e non fa altro che suonare il suo violino, a detta del signor Anderson. Lo fa per pensare, così dice lui. Mangia a malapena, probabilmente non dorme. Sembrerebbe avere il cuore spezzato.»

A John scappò un sorriso ironico. «Mrs. Hudson, si è sempre comportato così» constatò.

«Già» la donna si voltò a guardarlo, estremamente seria «eppure c'è qualcosa di diverso, riesco quasi a percepirlo. Sembra ferito – John, cosa ha fatto?»

Si sentì gelare il sangue, quella volta la Signora Hudson sembrava davvero rimproverarlo, e sembrava soprattutto sapere quello che c'era stato tra loro. Forse glielo si leggeva in faccia? O, magari, Sherlock si era lasciato scappare una parola di troppo? No, impossibile. E Sherlock sicuramente non aveva il cuore spezzato. «Mrs. Hudson, non so proprio di cosa sta parlando. Davvero» affermò provando a sembrare sicuro di sé, quando la verità era che era più confuso di prima. Si alzò dal posto, pensando fosse meglio concludere quella discussione e scappare in camera sua. Sì, scappare era proprio il termine più corretto che potesse trovare. Ma la governante lo bloccò di nuovo.

«L'ho già visto così, in passato» proruppe con aria grave «e non è finita bene. Parli con lui, John. Qualunque cosa sia successa, parlatene.»

Non era la prima volta che Mrs. Hudson si riferiva al passato di Holmes, pensò Watson una volta che si fu sdraiato sul proprio letto, ancora vestito, le braccia dietro al capo. La prima volta aveva nominato un incidente, John ne era rimasto incuriosito, in un primo momento, ma poi aveva lasciato stare e non ci aveva pensato più. Non aveva la più pallida idea di quello che poteva essere successo, chissà quanti anni prima, non riusciva neanche a immaginarlo ad essere onesti. E dubitava fortemente che avesse il cuore spezzato, Sherlock non era soggetto a certe cose, lo aveva constatato più volte in quei mesi. Magari era ferito, non gliene avrebbe fatto una colpa se fosse rimasto deluso da lui e dal suo comportamento. Lo avrebbe capito, certo, ma era anche sicuro di essere un classico signor nessuno, non era importante per Sherlock Holmes, era il suo valletto, niente di più, non abbastanza da valere ai suoi occhi o da conquistarsi i suoi pensieri. Poteva esserne rimasto deluso, sì, un po' amareggiato, per qualche ora, magari un giorno. Ma poi basta, sapeva di non valere altri minuti preziosi del suo tempo.

E andava bene così – più o meno. Doveva andare bene così.


*


Due giorni dopo la strana conversazione con Mrs. Hudson, le acque tra Anderson e Holmes non si erano ancora calmate, anzi la situazione pareva peggiorare con il passare delle ore. John, quella mattina, se ne stava seduto alla tavola assorto nella lettura del quotidiano che Lestrade aveva lasciato in giro, Miss Donovan gli faceva compagnia – almeno con la sua presenza, in cucina Mrs. Anderson era impegnata a mettere in ordine le varie scorte, Molly era stata con loro fino a qualche minuto prima, poi era stata chiamata da Eurus. La stanza era immersa nella calma e nel silenzio, finalmente.

Calma che purtroppo durò poco, interrotta ancora una volta da Anderson che, entrando e notando la Donovan, si lasciò cadere su una sedia al suo fianco – piuttosto che andare da sua moglie, pensò John. Era visibilmente adirato, il viso rosso e le mani tremanti. Sally si girò subito verso di lui, preoccupata, Watson si limitò ad alzare velocemente gli occhi dal giornale, prima di riabbassarli, restando però in ascolto.

«Ora non vuole neanche farsi vestire» aveva esclamato contrariato, dopo qualche minuto di silenzio. Voleva creare una situazione teatrale, forse. John sorrise dietro le pagine, non sapeva perché, ma le disavventure di quell'uomo lo divertivano e rilassavano. «Se ne sta lì, con gli stessi abiti di ieri, a suonare la solita musica triste. Se entro con l'intenzione di svegliarlo e vestirlo, prima mi ignora, poi comincia a sbraitare. “Sto componendo, Anderson, gradirei non essere disturbato!” E io gradirei lavorare, Mr. Holmes!» Inveì contro uno Sherlock immaginario, posizionato più o meno verso la porta.

«E lei glielo dica, Mr. Anderson» si lasciò scappare John, gli occhi ancora sulla pagina. Se ne pentì subito, quell'uomo era pazzo, preferiva non averci niente a che fare.

Anderson, comunque, lo ignorò – Donovan gli aveva appena messo la mano sulla sua, per confortarlo. A John tornò sopra la colazione. «Sta diventando intrattabile. Voglio dire, lo è sempre stato, ma adesso sta davvero degenerando.» John ridacchiò, non riuscendo a trattenersi. «Lo trova divertente, Signor Watson?»

«Oh, no, non divertente. Un pochino ironico, forse.»

«Ironico?» John ripiegò il giornale.

«Beh, trovo ironico il fatto che non faccia altro che lamentarsi di questo lavoro da giorni, Mr. Anderson, soprattutto quando non ha fatto che vantarsene per una giornata intera, prima di cominciare.»

«Certo, perché il lavoro è di rilievo, ciò che mi merito dopo anni di servizio in questa famiglia. Quello che invece non merito, è essere trattato come un idiota da un pazzo

Watson strinse i pugni di rimando, lo guardò torvo. «Stia attento a quello che dice, Mr. Anderson, sta parlando del suo padrone.»

«Come se lei avesse qualche diritto di farmi la morale, Signor Watson. Non ha mollato il lavoro per questo motivo? Perché era diventato impossibile?!» Lo incalzò.

«Certo» confermò, forse con meno decisione di quanto avesse voluto mostrare in realtà «ma questo non mi autorizza ad insultare un qualsiasi membro di questa famiglia. Ho intenzione di portare rispetto a tutti loro, Sherlock Holmes incluso» sentenziò, Anderson rise sarcastico.

«Rispetto. Come se a noi ci rispettasse! Come se mi rispettasse! Quel folle.»

«Signor Anderson, la prego» provò ancora ad ammonirlo, la voglia di pestarlo aumentava a vista d'occhio.

«No, non mi vergogno a chiamarlo per quello che è: uno stronzo arrogante e schizzato!»

Non ci vide più dalla rabbia. Si alzò in piedi, la sedia strusciò all'indietro sul pavimento provocando un rumore assordante e fastidioso. John girò intorno al tavolo, afferrò Anderson per la camicia e lo tirò su, in piedi. Era più alto di lui, ma John era stato in guerra, era un ex soldato, mentre Anderson era un completo imbecille che adesso lo guardava spaurito, come un cane. Sally urlò quando sferrò il primo pugno, dritto sul naso. Qualche rivolo di sangue cominciò ad uscire, Anderson emise un lamento sordo e provò ad allontanarlo, ma John non lasciò la presa, anzi lo spinse ferocemente contro il muro.

«Mai più» ringhiò rabbioso, colpendolo un'altra volta mentre avvertiva dei passi raggiungerli di corsa «non osi mai più rivolgersi al Signor Holmes in questo modo» due mani lo avevano appena afferrato per le spalle: Lestrade e un altro cameriere, mingherlino e piuttosto giovane, che tremava terrorizzato. Miss Donovan e Mrs. Anderson erano corse a soccorrerlo, Lestrade lo aveva spinto contro l'altra parete, più adirato che mai.

«Cosa diamine le è preso, Watson?! Vuole farsi cacciare?» John non ci badò, l'uomo lo lasciò andare e cercò di ricomporsi. Si scusò con Lestrade per il suo comportamento, ma non si pentì per ciò che aveva appena fatto. Si sentì in qualche modo meglio, era riuscito a sfogare giorni di frustrazione repressa e specialmente era riuscito a zittire Anderson una volta per tutte.

«Non badarci» sentì mormorare alla Donovan, mentre passava loro davanti per uscire fuori a prendersi una boccata d'aria per calmarsi «Mrs. Hudson pensa sia un altro Trevor, non ci vorrà molto prima che lo caccino via a calci!» Era stata ben attenta a farsi ascoltare, ma John riuscì a non dargliela vinta, passandoli senza neanche degnarli di uno sguardo.

Quando fu fuori, e solo, tuttavia, si concentrò su quel nome: Trevor. Non credeva di averlo mai sentito nominare, in quei mesi. Se era stata Mrs. Hudson ad associarlo a lui, questo significava che aveva un ruolo importante nel famoso incidente da lei nominato in precedenza. Qualcosa era successo a Sherlock Holmes, questo Trevor aveva giocato un ruolo importante nella faccenda. E lui era determinato a saperne di più.


*


Non passò molto tempo prima che tutti, in casa, fossero informati dell'accaduto. John cercava di non dar conto a chi lo additava come pazzo o violento, provò ad evitare qualsiasi tipo di domanda a riguardo, e non raccontò mai la sua versione dei fatti, o meglio i motivi che avevano scaturito tutto. Anderson, al contrario, non passava giorno senza spiegare come lo avesse aggredito da un momento all'altro senza dargli neanche l'opportunità di difendersi. Ovviamente si vedeva bene dall'ammettere il vero motivo della rissa, consapevole che sarebbe finito nei guai per aver insultato così malamente il suo padrone. Lestrade era l'unico a cui John aveva raccontato tutto, complice il fatto di essere stato preso da parte e riempito di domande subito dopo l'episodio, non aveva saputo frenare la lingua, ancora scosso dalla rabbia, e aveva così sputato il rospo. E Lestrade aveva poi parlato con Anderson, ma lui aveva negato tutto e Sally aveva confermato la sua versione, com'era ovvio che fosse. Molly continuava a fare gaffe su gaffe ogni volta che parlava con lui: una volta, parlando di argomenti più frivoli, aveva descritto l'accostamento di colori di un abito di Miss Holmes come un “pugno in un occhio”, era arrossita subito e aveva cercato di scusarsi, peggiorando solo la situazione. Per questo, adesso, quando la vedeva arrivare cercava sempre un motivo per allontanarsi, facendo in questo modo un favore più a lei che a se stesso. Mrs Hudson si era detta delusa dal suo comportamento, non appena saputo il fatto. Col passare delle ore e dei giorni, però, i suoi modi nei suoi confronti si erano ammorbiditi e addolciti, facendogli pensare che Lestrade le avesse raccontato tutto.

E John era molto riconoscente a Lestrade che, non solo gli aveva creduto subito, ma aveva anche cominciato a difenderlo, nonché a cercare in tutti i modi di nascondere l'accaduto ai Signori Holmes. Non seppe mai se l'intera famiglia ne rimase all'oscuro, ma nessun provvedimento fu mai preso e questo gli bastava.

Cinque giorni dopo nessuno parlava più dell'accaduto, non in sua presenza almeno. John non ebbe modo di pensarci troppo sopra, comunque, non quando era appena stato avvertito che l'intera famiglia Smallwood era attesa a cena, quella sera stessa. Con ogni probabilità, quindi, avrebbe rivisto Sherlock, dopo qualcosa come due intere settimane: non avrebbe mai potuto mancare una cena tanto importante, aveva dei doveri da compiere in quanto padrone di casa e, di certo, non poteva fare a suo fratello un torto del genere, non presentandosi, pure se il loro rapporto era sempre stato abbastanza... complicato, da quanto aveva potuto vedere Watson.

E Sherlock non tardò a palesarsi, quella sera. Raggiunse la sua famiglia, salutò i suoi ospiti e poi si tenne in disparte, senza preoccuparsi di farsi vedere infastidito dall'occasione e dalla loro presenza. John non poté fare a meno di osservarlo, da una certa distanza: appariva stanco e spossato, aveva un colorito più pallido del solito e sembrava aver perso più di un chilo. Tornò a provare subito una nuova ondata di rabbia, nei confronti di Anderson che si dimostrava un valletto incapace che non riusciva neanche a convincere il suo padrone a ingoiare qualche boccone, ma anche dello stesso Sherlock, grande e grosso ma che si atteggiava come un bambino. Per il resto, però, gli parve bellissimo, come suo solito, nel suo completo elegante e particolarmente illuminato dalla luce del sole che cominciava a tramontare. Fu un attimo, l'uomo voltò la testa verso di lui e i loro occhi si incrociarono, di nuovo; John avvertì una scossa lungo la schiena, e si sbrigò a girarsi da un'altra parte. Si sentì incredibilmente felice. Provò a non pensarci, cercò in tutti i modi di cancellarsi quel sorriso ebete dalla faccia, quella morsa nello stomaco che continuava a dargli dei pugni ogni volta che il suo signore lo guardava, ma era tutto più forte di lui. Non riusciva a non provare certe cose, non riusciva a non essere contento anche solo di averlo rivisto. Gli era mancato così tanto, i suoi occhi, la sua bocca, il suo profilo, tutto.

«Signor Watson?» Avevano cominciato tutti a incamminarsi verso la sala da pranzo, John compreso, ma la voce chiara e autoritaria di Sherlock lo fermò. Si voltò verso di lui, che lo stava raggiungendo tranquillamente, osservandolo e rivolgendosi a lui come se avessero smesso di parlare soltanto pochi minuti prima, e non settimane. «Può sistemarmi il papillon? Anderson ha fatto un lavoro pessimo» John sbatté le ciglia un paio di volte, prima di mettere in moto il cervello.

«S-sì, certo. Signore» biascicò piano, sbrigandosi a sistemare il danno fatto dal nuovo valletto, non capendo davvero il motivo di quella richiesta. Poteva farlo da solo, per prima cosa, o poteva chiedere a qualcun altro. Perché proprio lui? E perché tornava ad avvicinarlo proprio adesso?

«Mi raggiunga nella mia stanza, più tardi. Dopo la cena» gli ordinò a voce bassa, approfittando del momento di vicinanza, gli occhi puntati sugli ospiti che stavano passando loro di fianco; John ebbe come il sospetto che Mycroft si fosse voltato ad osservarli e si domandò se avesse sentito. Ancora confuso da quella richiesta, annuì appena con il capo, restando silenzioso con le parole che gli morivano in gola. Sherlock sorrise impercettibilmente «La ringrazio, Mr Watson!» Esclamò a voce più alta, prima di allontanarsi.

Servì la cena con tutt'altri pensieri per la testa e si notò, specialmente quando rischiò di versare l'intero vassoio addosso a Mycroft. Fortunatamente la sbadataggine passò in secondo piano, grazie alla risata di Sherlock che catturò l'attenzione di tutti e al successivo battibecco tra fratelli che gli diede l'occasione di allontanarsi in silenzio. Non sapeva cosa aspettarsi, da Sherlock. Forse adesso si sentiva pronto a discutere dell'accaduto, a chiedere una qualche spiegazione e delle scuse. John era pronto ad affrontarlo, o almeno così pensava. Perché più si avvicinava l'ora dell'incontro, più le sue gambe cominciavano a tremare sempre di più, il cuore in gola e la testa che gli martellava. Si ritrovò a camminare avanti e indietro lungo il corridoio, fuori la porta di Sherlock, una volta che la cena fu servita e i camerieri congedati, ma ciò non servì a calmarlo, bensì ad agitarlo ancora di più.

Si ritrovò a contare i secondi, e poi i minuti, osservò lo scorrere del tempo da un orologio accostato alla parete opposta. Non sapeva dire se il tempo stesse passando troppo veloce o troppo lento, non sapeva dire se moriva dalla voglia di vederlo comparire e di parlargli o se invece sperava di rimandare quel momento il più possibile. Non stava più nella pelle, ma allo stesso tempo era spaventato. Troppe emozioni, troppi pensieri per la testa, giravano come un vortice e cominciò a provare l'orrenda sensazione di venirne risucchiato da un momento all'altro.

Non dovette più farsi certe paranoie, comunque, dei passi leggeri e inconfondibili lo stavano finalmente raggiungendo. «Oh» esclamò Holmes, sorpreso di ritrovarlo lì, una volta che ebbe girato l'angolo, vedendoselo davanti «Signor Watson, mi aspettava da tanto?»

«Non proprio, signore» rispose timidamente, mentre lo faceva passare e lo seguiva all'interno della sua stanza.

«A giudicare dal numero di volte in cui ha percorso il corridoio, direi da non più di 25 minuti. Sbaglio?» John storse la bocca, cosa lo aveva tradito? Le scarpe erano troppo consumate? Il tappeto sul pavimento troppo smussato? Aveva lasciato impronte da qualche parte? Tutte quelle cose insieme, magari, o forse no; preferì rimanere con il dubbio, privandolo del suo momento di gloria che assaporava grazie alle sue spiegazioni.

«Non sbaglia, signore» rispose solamente, imponendosi di fissarlo dritto negli occhi e di non abbassare lo sguardo. In realtà non faceva neanche troppa fatica, in questo, non lo aveva visto per troppo tempo e, ora, qualsiasi bacio o parola detta in passato sembrava aver perso importanza, se confrontata al periodo della loro lontananza.

Holmes assottigliò lo sguardo, infastidito dalla mancata sorpresa di Watson; John nascose un sorriso vittorioso e, per un istante, gli parve che non fosse passato un singolo giorno dall'ultima volta che si erano parlati. «Sa perché è qui?» Gli domandò ad un tratto, cancellandogli il sorriso e mettendolo sull'allerta.

«No, signore» affermò cercando di rimanere tranquillo, quando in realtà la curiosità e l'ansia lo stava divorando. Provò a studiare Sherlock ma, come al solito, gli risultava difficile interpretare quegli occhi freddi e quello sguardo, a sua volta, indagatore, in grado di nascondere qualsiasi tipo di emozione.

«Sa, Watson, le voci girano e, per quanto io non sia un uomo amante dei pettegolezzi, mi è risultato davvero difficile non fermarmi ad ascoltare.»

John lo osservò agitato. Qualcuno aveva scoperto, o intuito, quello che era successo tra loro e che li aveva allontanati ed era corso a dirlo a tutti? Si ricordò delle parole di Miss Donovan, che lo additava come nuovo Trevor, qualunque cosa volesse significare, non gli risultava difficile da credere che fosse stata proprio lei a mettere in giro la voce di un presunto bacio tra valletto e signore. «Voci, signore?» Domandò, piuttosto, sentendosi le mani sudate e sperando che quella tortura finisse alla svelta.

«Beh, non solo voci. È piuttosto difficile rimanere totalmente indifferente da un occhio nero e un naso rotto del proprio valletto. Come se la faccia di Anderson non fosse già abbastanza nauseabonda di per sé» disse con uno sbadiglio, nascondendolo dietro alla mano destra insieme a un sorriso divertito che, però, John riuscì ad intercettare.

«Ah» esclamò per tutta risposta, abbassando la testa e grattandosi il capo, non sapendo bene cosa dire. Alla fine la notizia era arrivata anche ai piani alti, Lestrade aveva fatto di tutto per impedirlo ma a quanto pareva la lingua lunga di Anderson non aveva saputo trattenersi e ipocrita come pochi era andato a lamentarsi con niente di meno che Sherlock Holmes. Immaginava che, questa volta, nessuno avrebbe chiuso un occhio e che i provvedimenti sarebbero stati presi senza pensarci troppo.

«Mr Anderson non fa altro che lamentarsene da giorni, personalmente ho sempre cercato di ignorarlo ma quando gli ho detto che non notavo nessuna differenza nel suo viso e che il suo sguardo da imbecille non era stato, in alcun modo, intaccato è andato a frignare da mio fratello» John deglutì, troppo impegnato a insultare quel verme per ridere all'ennesimo insulto di Sherlock. «Mycroft ha chiesto spiegazioni a Mr Lestrade – a Mycroft piace avere tutto sotto controllo e il maggiordomo si è rivelato un'ottima spia. Lestrade ha vuotato il sacco per non farla finire nei guai ulteriormente, e in seguito, questa mattina precisamente, mio fratello si è premurato di informarmi dell'accaduto» spiegò tutto con sufficienza; non appena ebbe finito si slacciò il farfallino, lanciandolo distrattamente verso la scrivania perennemente disordinata. John restò in sospeso, respirava a fatica immaginando che da un momento all'altro sarebbe arrivata la batosta: prima lo aveva baciato, poi aveva picchiato a sangue uno dei domestici, e tutto in appena due settimane. Lestrade lo aveva ammonito, durante il suo colloquio, sarebbero stati presi provvedimenti seri per qualsiasi comportamento scorretto. «Suppongo, quindi, di doverla ringraziare.»

Cadde dalle nubi come un idiota, Sherlock lo poté notare dalla sua espressione accigliata perché i suoi occhi luccicarono divertiti, pur senza sorridere apertamente con la bocca. «Ringraziarmi, signore?» Gli fece eco, con una domanda, credendo di aver capito male o essersi immaginato tutto.

«Ringraziarla, esatto» affermò quello, con un cenno della testa. John sbatté le palpebre, come un perfetto idiota. «Per Dio, Signor Watson! Cos'è quella faccia?» Esclamò Holmes spazientito, riscuotendolo da quello stato di apnea in cui si era rintanato. «Ho detto che Lestrade ha raccontato tutto: della lingua lunga di Anderson, delle sue... spiacevoli parole nei miei confronti, di come lei lo abbia ammonito più volte prima di perdere la calma. Mi ha difeso, Watson, ne sono rimasto molto colpito. Non come Anderson, ovviamente» scherzò alla fine, concedendosi un sorriso e facendo scappare una risata allo stesso John, stranamente più rilassato.

«Non ho fatto niente, signore, ho reagito d'impulso. Semplicemente. Non mi è mai piaciuto il Signor Anderson, se posso permettermi, e ho trovato le sue parole irriconoscenti e sgradevoli. Mi dispiace di aver perso la calma, ma–» osservò Sherlock, serio questa volta, e Sherlock osservò lui, la bocca semi aperta, in attesa «ma lo rifarei di nuovo, senza pensarci due volte.»

Sherlock ne parve, non riconoscente, ma colpito e, quasi, ammaliato. Non smetteva più di guardarlo, sbattendo a malapena le ciglia, gli occhi che adesso erano blu come il mare, un mare senza ombra di dubbio in tempesta. Riusciva a vederlo, indugiare, pensare, riflettere su un qualcosa fino ad arrivare ad una piacevole decisione. «Vorrei che tornasse ad essere il mio valletto, Watson» affermò, lasciandolo ancora una volta inebetito.

«Il suo valletto? M-ma... Anderson?» Chiese la prima cosa che gli passò per la mente, poco gli importava di quell'uomo, poteva ritrovarsi anche in mezzo ad una strada per quanto gli riguardava.

«Anderson è un idiota, credevo di averlo già messo in chiaro. Non mi piace averlo intorno, non è degno della mia fiducia. Al contrario di lei, John» il cuore di Watson perse un battito a sentire il suo nome uscire dalla bocca di Holmes, la sua voce calda e profonda sembrava accarezzarlo e donargli una luce nuova, piacevole, attraente.

«Ma...» provò ancora «i suoi genitori non faranno storie, signore? Un cameriere promosso a valletto, che chiede di poter tornare a servire ad una tavola e che adesso torna ad essere un valletto?» Anche di quel punto poco gli importava, ma ogni scusa era buona per evitare di affrontare la questione che lo aveva tenuto sveglio per notti intere.

«I miei genitori? Cosa dovrebbe importare a loro?»

«Signore» cominciò, a voce bassa «pensavo che lei non mi volesse più intorno» biascicò alla fine, non preoccupandosi più di risultare uno stupido.

Sherlock aggrottò la fronte. «Credevo che lei non nutrisse più piacere di servirmi, per questo l'ho sollevata dal suo compito» confessò il moro, lasciando John ancora una volta senza parole.

«Io, signore?! Io? Pensavo che fosse chiaro il mio... interesse e... piacere scaturito dalla sua compagnia!» Sputò fuori, forse più agitato del dovuto. Holmes pareva fosse stato appena schiaffeggiato in pieno viso con le sue parole, ne parve piacevolmente colpito, una scintilla di fuoco riuscì ad uscire dai suoi occhi, prima che potesse ricomporsi e mandare indietro qualsiasi tipo di emozione. «È lei quello che si è offeso per... quanto è successo. Signore.»

«Offeso? Io?» Ripeté quello, pareva divertito adesso; alzò gli occhi al cielo, pareva chiedere a se stesso “Dio, perché sono tutti così idioti?” «Offeso dal suo bacio?» Esclamò con forza. «Non finisce di stupirmi, Watson. Credevo che ormai avesse capito, e invece...» lasciò la sentenza a metà, John si portò in avanti istintivamente di pochi passi.

«Capire? Cosa dovevo capire?» Sherlock si era voltato, aveva smesso di guardarlo negli occhi e lui si era sentito affogare. Eppure c'era una nuova emozione, appena nata, nel suo cuore, che batteva e batteva, rumoroso e incessante contro il suo petto. C'era una sorta di speranza, una strana briciola di felicità. Sentiva di aver sbagliato in tutto, di non aver capito niente, di aver male interpretato ogni parola.

«Capire che non potrei mai offendermi per un suo... per un suo bacio» si fermò per qualche secondo, alla ricerca delle parole giuste. John lo osservò mentre respirava profondamente, lo sguardo basso, puntato verso il pavimento. Era strano vederlo così, sembrava come indifeso e ben lontano dalla sua area di competenza, il suo porto sicuro. «Ho sempre pensato che l'amore fosse un difetto chimico della parte del perdente. Nei due mesi al mio fianco si sarà fatto senz'altro un'idea di me, dico bene, Signor Watson? Non pensa che l'amore sia un mistero per me?» Era tornato a guardarlo direttamente, John boccheggiò, non aspettandosi di essere interpellato. Cominciò a balbettare qualcosa, Sherlock sorrise e riprese a parlare. «Beh, non è così. Ho solamente deciso di tenermi alla larga da qualsiasi tipo di sentimento: ingombrano la mente, spazio prezioso per informazioni e nozioni ben più importanti. E poi ti distruggono, ti consumano fino all'osso. E per 12 anni è stato così. Ma poi è arrivato lei, John. Di tante persone, di tanti uomini, proprio lei» rise senza particolare gioia, dirigendosi verso la finestra e decidendo di dargli le spalle. L'unica protezione che gli era rimasta.

«Non potrei mai – non vorrei mai ferirla, signore. Se è questo che la preoccupa» si ritrovò a dire ad alta voce, a pronunciare una promessa, un giuramento che non avrebbe mai pensato di dichiarare, neanche nelle sue più fervide fantasie. La testa vorticava, la stanza sembrava lontana, l'intero pianeta sembrava lontano. Gli sembrava di trovarsi in una grande bolla, sospesa nel vuoto, una grande bolla che li racchiudeva e li proteggeva dal resto del mondo. Perché ora cominciava a capire: Sherlock aveva cominciato a parlare di sentimenti, aveva parlato di certezze infrante e di cuori spezzati. Aveva parlato di lui, perché Sherlock Holmes aveva sempre provato qualcosa per lui. Ogni gesto, ogni parola, nelle precedente settimane, non aveva frainteso nulla, anzi. Si sentiva immensamente felice, eppure c'era ancora qualcosa che lo tratteneva a terra, qualche importante interrogativo che lo spaventava.

«Tutti finiscono per farlo, John. Non credo che lo facciate di proposito, ma ho anni di esperienza alle spalle» gli occhi rivolti al cielo, la voce malinconica e un sospiro a coprire quella sentenza. Il ritrovato valletto si rabbuiò – cercava, comunque, di non pensare al fatto che avesse cominciato a chiamarlo per nome, prendendosi quella confidenza con una certa cattiveria, come se gli fosse dovuto.

«Riguarda per caso Mr Trevor, signore?» Non poté trattenersi dal chiederlo, oramai quel nome gli girava in testa da giorni ed era chiaro, molto più che chiaro, che tutto convergesse in lui. Sherlock, colpito in pieno, si voltò a guardarlo di nuovo, la bocca spalancata e gli occhi aperti.

«Cosa sa di Trevor?» Domandò, la voce bassa e distante.

«Non molto. Anzi, nulla a dirla tutta. Ma credo sia successo qualcosa di importante, qualcosa che deve averla segnata nel profondo» azzardò.

Sherlock lo lasciò in sospeso per due, cinque, otto secondi; mantenne il contatto visivo per tutto il tempo, prima di voltarsi, respirare gravemente e tornare a fissare il cielo, la luna, le stelle, qualsiasi cosa che non fosse lui, John Watson, medico mancato, ex soldato, cameriere per caso e poi suo valletto. «Sa perché ho reagito in quel modo, quella sera, dopo il suo bacio?» John scosse la testa, senza pensare che lui non potesse vederlo; Sherlock, in ogni caso, non aspettava una vera e proprio risposta. «Per spiegarglielo, temo di dover fare un salto nel tempo di ben dodici anni. Ero appena un ragazzo, non molto diverso da adesso se devo essere onesto. Passavo gran parte del tempo nella biblioteca: leggevo e studiavo, analizzavo e prendevo appunti, correggevo enciclopedie (1) e cominciavo a raccogliere minerali, affascinato e curioso, desideroso di imparare cose nuove. E con me c'era Victor, Victor Trevor, il mio migliore amico seppur di una classe sociale inferiore alla mia, il mio primo valletto personale. Quello che provavo per lui, da sempre, era... beh, non ha importanza, adesso. Mi dichiarai una sera di novembre; eravamo giovani e ingenui, convinti di poter cambiare il mondo o almeno di imbrogliarlo. Per cinque mesi siamo rimasi nascosti, cinque mesi, non un giorno di più, ma siamo stati veramente felici. E poi ci scoprirono, Victor fu arrestato ma io la scampai grazie ai miei genitori che riuscirono a convincere i magistrati della mia innocenza. Ovviamente io provai ad impormi, non volevo che Victor fosse l'unico a subire le conseguenze delle nostre azioni, ma i miei genitori fecero di tutto per impedirlo. Lo accusarono di essere omosessuale e di avermi molestato. Non potei testimoniare in suo favore; rimase in prigione per due anni. Cercai di contattarlo più volte, ma non ci riuscii. Poche settimane dopo il suo rilascio venni a scoprire del suo suicidio: aveva perso la testa, in carcere, vittima della vergogna generale. Era depresso già da qualche tempo, così mi dissero, come se potesse servire come spiegazione o come consolazione.»

John non aveva osato emettere un solo fiato, spaventato dall'idea che un singolo rumore o movimento potesse interrompere il racconto di Holmes e farlo chiudere di nuovo in se stesso. Non avrebbe mai potuto immaginare niente del genere, o meglio, aveva capito che questo Trevor, Victor, doveva essersi preso una cotta per il suo padrone, e che magari aveva anche provato ad allungare le mani, ma che Sherlock ricambiasse quell'interesse... che ne fosse preso, innamorato... il fatto era che non aveva mai pensato che a Sherlock potesse interessare qualsiasi tipo di sentimento. E adesso aveva capito anche perché, aveva capito tutto. Victor gli era stato portato via, si era ucciso e lui aveva sofferto. Era comprensibile che avesse poi deciso di chiudersi in quel modo, quello che lo lasciava spiazzato era il lungo periodo di tempo: dodici anni. Non aveva avuto nessun contatto umano per dodici anni.

«Mi ha allontanato per... proteggermi?» Si ritrovò a chiedere, a bassa voce. Sherlock si era appena confidato con lui, lo aveva appena fatto partecipe del suo frammento di memoria più doloroso, e non aveva la minima intenzione di rovinare quel momento. Holmes voltò appena la testa, dopo aver sospirato, lo guardò con la coda dell'occhio e annuì lievemente. John gli si avvicinò piano, senza emettere il minimo rumore. Gli poggiò una mano sulla spalla, per fargli capire che non era solo, che poteva non esserlo mai più se decideva di fidarsi di lui. Sherlock trasalì ma non lo scostò. «Non siete più quel ragazzino, signore. Non lo sono neanche io. Sono un soldato, beh, un ex soldato. In guerra ho visto cose che continuano ancora a farmi svegliare nel cuore della notte, sudato e con il cuore in gola. Ho rischiato di morire, per questo sono tornato a casa. Ma sono sopravvissuto, e continuo a farlo» parlò pacatamente, Sherlock non fiatava; per un momento temette che non lo stesse neanche ascoltando, preso com'era nei suoi pensieri. «Quello che sto cercando di dirle è che non ho bisogno di essere protetto. Certo, se lei è ancora deciso a tenermi lontano–»

«No» lo interruppe bruscamente, visibilmente scosso dalla sola idea. Ci aveva provato, evidentemente, in quelle settimane lo aveva evitato con ogni modo, confinandosi nella sua stanza per giorni ed ore intere, ma era risultato impossibile, evidentemente, forse per quanto accaduto con Anderson, o per averlo finalmente visto quella sera, o forse era un pensiero nato già in precedenza, stava di fatto che si era accorto di volerlo di nuovo al suo fianco. E John ne era incredibilmente felice, forse non avrebbe dovuto esserlo, ma gli risultava davvero difficile contenere il sorriso, dopo quella rivelazione.

«Bene» sorrise raggiante, fregandosene di poter essere visto dal riflesso del vetro della finestra «ottimo. Signore.»

«Sherlock» emesse lui, girandosi di colpo e fronteggiandolo. Lo sguardo più rilassato, adesso, il mare in tempesta si era come calmato e la luce della luna riuscì a far brillare i suoi occhi di una luce nuova, quasi incantata. Osservò le sue labbra, sentì lui fare lo stesso e il fiato gli si mozzò. «Chiamami Sherlock, per favore (2). Non voglio che ci siano delle formalità tra noi.»

«V-va bene.»

«Sherlock» ribadì Holmes, sbuffando appena sulle sue labbra, in un miscuglio tra il divertito e lo spazientito. «Sei più lento del solito, questa sera, John. Forse è colpa mia, l'averti allontanato deve averti rimbecillito.»

«Sherlock» esclamò infastidito ed offeso, stupendosi subito della naturalezza con cui aveva pronunciato il suo nome, come se fosse nato per farlo, che tutta la sua vita fosse stata modellata in funzione di quel momento. «Sherlock» ripeté, questa volta con un tono più dolce, quasi divertito dalla piega che stava prendendo quella conversazione, divertito perché era entrato in quella stanza credendo di ricevere una qualsiasi conseguenza alle sue azioni.

«John» gli fece eco il moro, non sorrideva ma i suoi occhi parlavano per lui. John riuscì a leggere tutta la sua ritrovata serenità, riuscì a leggerne quasi la pace, il velo di tristezza che lo aveva accompagnato per tutto quel tempo ormai lontano. Sentiva il suo respiro sulla sua pelle, lo accarezzava piano, piacevolmente; Watson sentiva il fiato corto, voleva accorciare le distanze, voleva tornare a baciarlo una seconda volta, riappropriarsi del suo sapore e di quelle labbra a forma di cuore che sembrava gli appartenessero di diritto. Ma non voleva fare nessuna mossa falsa: Sherlock aveva fatto già un passo importante, quella sera, rendendolo complice di una parte importante della sua vita, non sapeva se fosse pronto ad un secondo bacio, non dopo come era andata la prima volta. Ma, nuovamente, Sherlock parve leggergli la mente e captare le sue intenzioni. «John» sussurrò, il suono si perse nell'aria «baciami, John

Watson deglutì, si lasciò disegnare un sorriso sulla bocca e, certo, non se lo fece ripetere due volte. Si alzò appena sulle punte per raggiungere quelle labbra che parevano scolpite da un essere ultraterreno, Sherlock gli venne in aiuto abbassando appena il capo, chinandolo leggermente da una parte. Bocca contro bocca, John percepì il mormorio di Sherlock contro le sue labbra, lo avvertì poi schiudere le sue, pronto ad accoglierlo, ad approfondire quel contatto che entrambi avevano bramato da troppo tempo. Si sentì come tornato al mondo, eppure con quella singola azione non stava facendo altro che sfidarlo. Le lingue si toccavano lente, sembravano non avere nessuna fretta. Sherlock si ritrovò con le spalle contro il vetro della finestra, si portò dietro John, avvicinandolo e premendolo contro il suo petto, mentre con entrambi le mani cominciava ad accarezzargli la schiena. John gli mise una mano dietro al collo, e l'altra sul fianco, intenzionato a non lasciarlo andare mai più. Percepì il sorriso di Sherlock contro la sua bocca e sentì come un pugno nello stomaco: non poteva desiderare niente di più dalla vita.

Il bacio stava diventando sempre più umido, ed andava avanti ormai da troppo tempo. Con un gemito, John fu costretto ad allontanarsi, Sherlock non rinunciò all'occasione di stampargli un bacio veloce sulle labbra, prima di poggiare la fronte sulla sua, gli occhi ancora chiusi e il respiro irregolare. «Siamo due pazzi» esclamò John, eccitato, divertito, forse appena spaventato, ma sicuramente appagato e radioso. «Due pazzi.»

«Ed è un problema?» Domandò Holmes, timoroso di una risposta.

John alzò lo sguardo, rivolgendogli uno sguardo raggiante. «Assolutamente no» affermò con decisione. «Ma devo farti notare come tutto questo sia malvisto dalla società, e dalla Chiesa, soprattutto.»

Holmes mugugnò un suono incomprensibile dalla gola, con faccia disgustata. «Non sono mai stato un uomo religioso, John, non ho paura di sentirmi dire come Dio condanni qualsiasi sentimento tra due uomini. Quanto al giudizio del mondo, me ne lavo le mani. Francamente.»

Watson non si aspettava una risposta diversa. «Stiamo sfidando tutti» mormorò, con un sorriso complice.

«Stiamo sfidando tutti» (3) gli fece eco Sherlock, ricambiando il sorriso. John si morse appena il labbro inferiore, fece per avvicinarsi nuovamente alla sua bocca, ma il moro lo fermò. «Ho composto una musica per te» confessò, lasciandolo senza parole.

«Cosa?!»

«Beh, non proprio a te personalmente. Come ti ho già detto, comporre mi aiuta a pensare, e puoi ben immaginare che tipo di pensieri ho avuto per la testa in queste settimane» John abbassò lo sguardo, quasi colpevole eppure lusingato. «Vuoi... vuoi ascoltarla?» Gli chiese, infine, dubbioso; John tornò ad alzare il capo e a fissarlo smarrito.

«Certo, certo che voglio ascoltare!»

Sherlock lasciò andare l'aria che stava trattenendo, gli indicò di andare a sedersi sul suo letto (la sedia della scrivania era occupata da sei, o sette pesanti volumi), si levò la giacca per restare più comodo, dopodiché prese il suo violino e se lo portò sulla spalla. Gli lanciò un ultimo sguardo penetrante, prima di cominciare a suonare.

Cominciò a pizzicare appena le corde del violino aiutato dall'archetto, così da emettere piccoli suoni che rimarcavano una sorta di frustrazione e rabbia e disagio. Cominciò poi a suonare una musica lenta, delicata, raffinata, ma incredibilmente triste e malinconica, sembrava un lamento, una richiesta di aiuto. La melodia prendeva a crescere, il suono diventava sempre più alto e poi tornava ad abbassarsi, elegante. Si fermò per meno di un secondo, e poi ripeté a suonare le stesse note di prima, con più decisione, adesso, più forza, più spirito e più amarezza. John, osservandolo, si sentì come trasportato in un'altra dimensione, completamente allontanato dal mondo intero, allontanato da Sherlock stesso. Si sentì solo, abbandonato alla deriva delle sue emozioni, smarrito. Gli venne voglia di chiedere aiuto, ma si trattenne, perché sarebbe suonato stupido e perché era consapevole che non avrebbe risposto nessuno, che sarebbe rimasto solo per tutta la vita. La musica si fermò, pochi secondi, il tempo necessario per enfatizzare il senso di abbandono, forse; quando ricominciò a suonare, la melodia era cambiata, diversa e più dura. Era rabbiosa, voleva urlare indignazione, voleva spargere veleno e condizionare tutti con la sua ira. Suonava quasi come un ringhio, un potente e rumoroso ringhio capace di far accapponare la pelle. Un urlo gridato nel vuoto, nel nulla, un urlo che riecheggiava nella sua testa, mentre immagini di solitudine cominciavano ad affollarglisi nella mente. Vedeva Sherlock abbandonarlo sull'orlo di un precipizio, assaporava la solitudine di una casa vuota, una poltrona abbandonata e solitaria posta al centro di una stanza. Le corde pizzicate emettevano suoni spezzati, sentì il suo cuore distruggersi all'incirca cinque volte, e cominciò a chiedersi perché, perché era nato in quel modo, perché gli sembrava non avere il minimo diritto a lasciarsi andare e ad amare un'altra persona. La musica tornò sugli stessi toni dell'inizio, la melodia delicata e sofferta riecheggiò nella stanza, gli occhi erano ormai lucidi, aveva smesso di respirare già da un po' di tempo, quelle note lo tenevano come appeso. Ed aspettava, aspettava che tutto si calmasse, aspettava una sorta di lieto fine. Ma la melodia, il suono, si alzava, e alla depressione si univa l'angoscia e poi la furia. E poi tornò il silenzio, con un'ultima corda pizzicata con decisione, con troppa forza, come se tutte le pene fossero scaturite da quel singolo oggetto.

Sherlock rimase per qualche istante con gli occhi chiusi; quando li riaprì lo scrutò agitato, in attesa del suo giudizio.

«È triste» fu la sola risposta che riuscì a trovare, John, l'unico pensiero che riuscì ad estrapolare da quella valanga di sensazioni ed emozioni che lo avevano travolto nel giro di neanche cinque minuti. Si sentiva spossato, gli ci vollero anche a lui pochi secondi per tornare alla realtà.

«Non ti piace» mormorò Sherlock, deluso, forse, ma non da lui, non da John, quanto da se stesso.

«No, è bella» si corresse allora l'uomo, in ansia per averlo ferito. Sherlock lo osservò con attenzione per capire se stesse dicendo la verità. «È veramente molto bella. E toccante. Ma è... triste» lo guardò con occhi addolorati, capendo in quel momento tutta la pena che doveva aver provato, il suo padrone, per quelle poche settimane di lontananza, o forse per tutta la sua vita. Sherlock abbassò lo sguardo, odiava essere compatito e John intercettò subito l'espressione infastidita, per questo si sbrigò a portare l'argomento da qualunque altra parte. «Come si intitola?»

Holmes parve preso alla sprovvista, aprì la bocca, la richiuse, poi la riaprì di nuovo ma non emesse un solo suono. Era chiaro che non avesse mai pensato di dare un nome a quell'oceano di emozioni. «Suppongo che possa chiamarsi... John. Semplicemente John

Watson parve commosso, ma cercò di non darlo a vedere, piuttosto gli rivolse un sorriso sentito. «John. Non sei molto portato per queste cose, anzi, se posso permettermi, sei davvero negato nel trovare dei titoli.»

Holmes si premurò di farsi vedere indignato, quanto in verità era piuttosto divertito. «Credo che dovremmo ridiscutere della faccenda della confidenza. Presumo sia meglio porre dei limiti» affermò, facendo ridere l'altro che si nascose la bocca dietro le mani. Proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta, Holmes mormorò un singolo, freddo “Avanti” e subito dopo la faccia perentoria di Mycroft li fronteggiò entrambi. John scattò subito in piedi, quasi sull'attenti, mentre Sherlock andava a posare il suo violino. «Entra Mycroft, stavo giusto facendo sentire al Signor Watson l'ultimo pezzo che ho scritto.»

«Già, ho avuto modo di sentirlo» mormorò quello, i suoi piccoli occhi indugiarono sul valletto, parevano giudicarlo e studiarlo, quasi ammonirlo. John si sentì in preda al panico, ma arrivò lo sguardo tranquillo di Sherlock a calmarlo.

«Può andare, Watson, riprenderemo il discorso domattina.»

John uscì così dalla stanza, in fretta e furia, desideroso di allontanarsi il prima possibile dallo sguardo severo del maggiore degli Holmes, che sembrava aver intuito tutto, o perlomeno qualcosa, e questo non lo rendeva affatto tranquillo.



  1. Piccolo accenno a Parade's End, miniserie della BBC con protagonista Benedict. (Guardatela, è bellissima, ve la consiglio!) Christopher (aka Ben) era solito correggere l'enciclopedia britannica, preso dalla noia, e questa cosa mi sa troppo di Sherlock

  2. Il primo pensiero è stato quello di far notare il cambio dal lei al tu, però poi ho pensato all'inglese dove questa distinzione non esiste, e mi sono limitata solamente all'uso del nome, anziché del cognome. Quel per favore altro non dovrebbe se non richiamare alla scena del pilot/asip, appena arrivati al 221 B

  3. So che il Creatore condanna ciò che faccio. Quanto al giudizio del mondo: me ne lavo le mani. Quanto all'opinione dell'uomo: la sfido.” Mr. Rochester, da Jane Eyre. Mi sono ritrovata a scrivere questa storia e leggere contemporaneamente questo libro, ho sentito il bisogno di inserire questa citazione, seppur modificandola un po' per non ricopiarla in tutto e per tutto



Angolo dell'autrice: Eccomi con il secondo capitolo! Abbiamo assistito ad uno John in crisi (mi spiace dirlo, non sarà l'ultima volta), abbiamo scoperto un pezzo importantissimo del passato di Sherlock (non ce l'ho fatta ad escludere Victor da questa storia) ed abbiamo assaporato la riappacificazione tra i due (nata soprattutto da fraintendimenti – voce di Mary in sottofondo che esclama TALK). L'ultima scena è una delle mie preferite di questa ff, mi sono divertita a descrivere il brano (ho preso spunto da una delle mie musiche preferite di Doctor Who, devo confessarlo) e spero di non aver fatto un casino totale, non essendo esperta.
Il prossimo è, forse, il mio capitolo preferito, non vedo l'ora di postarlo!
Grazie a tutti quelli che hanno letto questo e lo scorso capitolo, grazie a chi ha messo nei preferiti e nelle seguite, grazie a chi la sta apprezzando anche se in silenzio! Vi invito a lasciarmi una piccola recensione, ho lavorato molto a questa storia, mi farebbe immensamente piacere leggere cosa ne pensate!
A lunedì prossimo, un bacio :)

  
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