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Autore: Alicat_Barbix    30/07/2018    2 recensioni
In un universo alternativo, in cui i cuori di ognuno interagiscono con i loro proprietari, Sherlock Holmes, brillante consulente investigativo, e John Watson, disperato medico militare in congedo dall'Afghanistan, si incontrano e i loro cuori non riusciranno mai più a tacere. Ma a volte, i fatti presenti sono irrimediabilmente influenzati da sentimenti e decisioni passate...
Dal testo:
(...)
“Su questo tavolo c’è una boccetta buona e una cattiva. Il suo scopo, signor Watson, è quello di scegliere una delle due boccette, sperando di non aver preso quella velenosa.”
(...)
“La boccetta cattiva. Voglio sapere qual è.”
(...)
“E’ il suo cuore il problema, non è vero?”
(...)
“La boccetta.”
Con un fluido movimento della mano, spinge avanti una delle due boccette, un sorriso ferino sulle labbra.
(...)
Chiudo gli occhi e mi avvicino alle labbra la morte. Addio vita. Addio mondo. Addio cuore che non ho più.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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IN A HEARTBEAT
 
by Alicat_Barbix

CAPITOLO 1
 
 
Era immobile sul cornicione del tetto. Una stupida folla si era assiepata ai piedi dell’edificio, bramosa di scorgere quell’evento irripetibile. Le loro grida gli giungevano smorzate, qualcuno sembrava incitarlo a buttarsi, altri invece a scendere di lì. Quando le prime teste dei primi professori si fecero largo in quell’intrico di nuche e volti anonimi, quelli che gli urlavano di gettarsi presero invece a pregarlo di ripensarci. Sorrise tra quelle due profonde cicatrici segnate dalle lacrime: bastardi fino in fondo.
Non farlo.
“Sta’ zitto.” ringhiò alla vocina flebile.
Possiamo aggiustare ogni cosa, basta che scendi di lì.
“Non c’è niente da aggiustare! L’unico rotto, qui, sono io! Io, capisci?”
Non puoi dargliela vinta! Abbiamo ancora così tante cose da fare, tanti giorni da vivere, tante emozioni da provare… Scendi, per favore!
Ma lui scansò quel pigolio in un cantuccio oscuro della sua coscienza. Non intendeva più stare al gioco di quell’esserino che gli abitava il petto e che fino ad allora non aveva fatto altro che tormentarlo con i suoi ideali pieni di amore e di pace, così futili e meschini quando sulla sua pelle erano segnate le umiliazioni subite, le percosse accusate.
Un rumore alle sue spalle lo fece voltare di scatto. La porta d’accesso al tetto si aprì cigolando e nonostante il suo desiderio fosse quello di lasciarsi andare prima di incappare in un qualche ostacolo, rimase fermo, ad attendere chissà cosa. Davanti a lui, fece capolino la figura di un ragazzo dai capelli biondi e il volto corrugato in un’espressione pensosa.
“Kate, sei qui?” chiamò quello affacciandosi con tono scocciato e occhi esasperati, ma quando lo sguardo s’incatenò al suo, s’immobilizzò. “Whoa… Ehi, amico, che stai facendo là sopra?”
“Vattene via.”
Il ragazzo mosse un cauto passo verso di lui, le mani protese in avanti come per calmarlo. “Va tutto bene, è tutto okay.”
“Non è okay.”
“No, no, infatti, hai ragione. E’ quello che è, e beh… quel che è sarà sicuramente una merda se ti trovi là sopra. Ascolta, perché non vieni giù un attimo? Potremmo… non so, scendere assieme e prendere un caffè, parlare. Sfogarsi a volte aiuta…”
“Vattene.”
Il ragazzo sospirò e abbandonò le mani lungo i fianchi. Aveva una strana luce negli occhi, calda, forse anche dolce. “No.”
“Non mi conosci neanche…”
“Esatto, per questo non me ne vado. Senti, non voglio costringerti a fare niente che tu non voglia fare.”
“E allora lasciami in pace.”
Il ragazzo scosse piano la testa. “Non posso. Non riesco ad accettare il fatto di… trovarmi davanti al futuro ragazzo sucida senza averlo conosciuto. Se vuoi buttarti, se davvero sei così disperato da non vedere altra via di scampo, non posso certo impedirtelo.”
Era strano, quel tipo. Era la persona più strana che avesse mai conosciuto. Solitamente, tutti al sol vederlo si scansavano, temendo che anche solo parlandogli sarebbero finiti a loro volta nel mirino di Jackson e dei suoi compari, invece quel ragazzo era lì, salito fin sul tetto per cercare una qualche ragazza di nome Kate e trovatosi davanti uno strambo in bilico tra la vita e la morte da provare a riportare a terra. Davvero singolare.
Sospirò e si voltò di nuovo verso il vuoto, dove i suoi carnefici stavano attendendo impazientemente, con sicuramente un mezzo ghigno in faccia. Perché deluderli?
Per l’amor del cielo, non farlo!
Ma ormai non c’era nulla da non fare. Si sentiva già morto, il suo corpo scomposto a terra, il suo sangue che imbrattava il vialetto per accedere ai dormitori, la sua vita che sciamava via nella durata interminabile di un battito di ciglio.
Prese un respiro profondo. Era pronto. Pronto a farlo. Pronto a lasciarsi alle spalle ogni cosa. Ma c’era qualcosa di scomodo, qualcosa che gli pungeva la schiena e la nuca. Erano gli occhi di quel ragazzo comparso dal nulla e che ancora se ne stava immobile e non aveva provato a sorprenderlo da dietro e a tirarlo via o – al contrario – a spingerlo di sotto.
“Al gelato.”
Si girò appena, confuso. “G-gelato?”
“Io penserei al gelato prima di morire. Adoro il gelato, e nella mia limitata esperienza non conosco amore più vero se non quello che io provo per il gelato e che il gelato prova per me.”
Ridacchiò a quelle parole. Gelato… Poteva essere un’idea.
“A cos’è che invece pensi tu?”
“A niente.”
“Bugia.”
“Vuoi lasciarmi in pace?”
“Ero solo curioso.”
Il ragazzo prese a camminare lentamente verso di lui, con aria quasi rasserenata, scrutando un cielo stranamente limpido e pulito. Si ficcò le mani in tasca e tacque, gli occhi fissi sull’asfalto che ospitava una folla tumultuosa e caotica.
“Brahms.”
“Eh?”
“Penso a Brahms. Horn Trio per pianoforte, violino e corno. Ho sempre sognato di eseguirlo, ma non ho mai trovato un cornista.”
Il ragazzo ridacchiò e alzò timidamente una mano. “Ho fatto due anni di clarinetto, se ti serve. Poi la mia insegnante mi ha cacciato perché mi considerava l’assassino dei suoi timpani e del suo amore per la musica.”
“Dovevi essere davvero terribile.”
Sorrise nell’immaginarsi quel biondino alle prese con un clarinetto e una vecchia megera lì, a premersi le mani sulle orecchie e a chiedere pietà.
“Quando poi mi ha chiesto se sapevo almeno qual era lo strumento che stavo suonando e io le ho risposto il piffero non ci ha visto più e mi ha mando via a calci in culo.”
Risero entrambi. Una risata amara, forse un po’ stonata.
Puoi ancora trovarlo un cornista. Se ti butti, non potrai fare mai più il Trio che tanto adori.
Ed era vero. Quante cose si stava lasciando indietro, oltre alla sofferenza? Sogni, speranze, cose che lui riteneva trasporto ma che in realtà racchiudevano l’essenza di una vita vissuta appieno, il sapore di un frutto gustato fino al nocciolo. E si stava privando di tutto questo. Ma faceva male. Così male da essere disposto anche a rinunciare alle cose belle pur di non dover più lottare contro le cose brutte.
“La tua morte è qualcosa che capita a qualcun altro. La tua vita non ti appartiene. Toglile le mani di dosso.” Si voltò, gli occhi sgranati. Il ragazzo sorrideva e gli porgeva serenamente una mano. “Scendi, avanti, così andiamo a berci questo caffè. Sono anche stato lasciato dalla mia ragazza! Ho bisogno di caffeina, di una bella fetta di torta e di qualcuno con cui lamentarmi su quanto la vita faccia schifo.”
Sorrise. “Qualcuno in mente?”
“No, non ancora, almeno. Ti stai proponendo?”
Quella mano così viva, così vicina, così invitante… Probabilmente, quel ragazzo era solo un idiota qualunque che dopo averlo tirato giù gli avrebbe riso in faccia e se ne sarebbe andato per i fatti suoi o con i suoi amici a prendersi il suo caffè, e lui sarebbe rimasto solo e rotto, come sempre.
E’ un segno! Ci sarà un m0tivo se questo ragazzo è arrivato nel posto giusto, al momento giusto! Prendi quella mano e vivi! Fagliela vedere a quei bastardi!
Sospirò e la sua mano si allacciò a quella del ragazzo, il cui sorriso si allargò ancora di più mentre lo accompagnava gentilmente a terra con un mezzo inchino quasi galante. Ai piedi dell’edificio, la folla di studenti e professori scoppiò in urla di giubilo, forse anche false, ma ormai non contava.
All’improvviso, il braccio del ragazzo gli circondò il collo e lo tirò vicino in una stretta amichevole. “Giornatina facile, insomma. Nella foga del momento non credo che ci siamo presentati. Io sono John.”
“Sherlock.”

John’s POV. “Sherlock…”
Sento le mie stesse labbra allargarsi in un dolce sorriso. Sherlock… Sherlock… Sherlock… Urlo questo nome ancora e ancora, un nome che nel mio petto vuoto rimbalza, rimbomba, riecheggia. Ed è strano, perché voglio piangere per la prima volto dopo tanto, tanto tempo.
Lui mi fissa, gli occhi grandi di meraviglia e le labbra semiaperte. Non è cambiato. Non è cambiato per nulla. Ha sempre gli stessi ricci scuri, lo stesso viso pallido, gli stessi zigomi pronunciati, le stesse iridi dal colore indefinibile.
“John?”
Avevo dimenticato la bellezza del mio nome pronunciato dalle sue labbra. Avevo dimenticato il senso di pudore scatenato da quello sguardo indagatore. Avevo dimenticato Sherlock Holmes. Il mio sorriso sfuma appena nel momento in cui muovo un timido passo verso di lui, una sensazione di sollievo che mi lenisce i muscoli, ma improvvisamente, qualcosa mi tira indietro con brutalità e mi ritrovo premuto contro il corpo del tassista.
“Mi perdoni, dottor Watson, ma ogni omicidio per me è importante, in qualunque modo venga effettuato.”
Con la coda dell’occhio intravedo il luccichio della lama di un coltellino svizzero sfilare a pochi passi dal mio viso. Lo sento tagliarmi la guancia e un fastidioso formicolio mi invade mentre una goccia di sangue fuoriesce dalla ferita.
Improvvisamente, ho paura. Paura di morire. Non voglio morire. Perché? Perché i miei occhi incontrano quelli allarmati di Sherlock, perché in me si sta risvegliando qualcosa che credevo sopito da tanto tempo, perché ora capisco che devo fare ancora tante cose… E Sherlock, Sherlock mi fissa pallido come un lenzuolo.
“Non faccia pazzie!” urla l’uomo accanto a Sherlock, dai corti capelli brizzolati e avvolto in un trench grigio. “Metta giù il coltello!”
“Addio, dottor…”
La frase gli muore sulle labbra nel momento in cui gli torco il braccio armato e mi divincolo violentemente, riuscendo a sbatterlo a terra e a puntargli un gomito sul torace in modo da immobilizzarlo. Il mio corpo intero vibra di adrenalina e, al centro del petto, il cuore batte forsennatamente, mai stato così vivo.
Ciao, John.
Una vocina mi echeggia in testa e d’istinto alzo lo sguardo in direzione di Sherlock che però è sparito. Mi guardo intorno mentre un paio di poliziotti ammanettano il tassista e lo trascinano via. Corro fuori dall’edificio e lo intravedo balzare sul primo taxi disponibile, il fisico magro abbracciato da un lungo cappotto scuro che risalta ancora di più la sua altezza. Mi scopro a fissarlo con nostalgia e… rimpianto?
Prendo a correre verso il taxi che ora si sta mettendo in moto, urlando il nome di Sherlock, ma lui tiene gli occhi dritti di fronte a sé. Non può andarsene… Non ora che l’ho ritrovato… Non ora che ho la possibilità, dopo anni e anni, di potergli parlare e spigarmi…
Ma l’auto sfreccia via, lasciandomi come un idiota sul ciglio della strada, a fissare quella nuca riccioluta fare capolino dal finestrino posteriore. Prego con tutto me stesso che si volti nella mia direzione e mi guardi… Prego con tutto me stesso che un miracolo piova inspiegabilmente dal cielo… Ma tutto è silenzio e piattume. Sherlock è sparito. Di nuovo.
L’uomo dai capelli brizzolati mi si avvicina, si presenta come l’ispettore Greg Lestrade, di Scotland Yard, e mi invita cortesemente a seguirlo in centrale per le solite domande da procedura. Io annuisco, ma i miei occhi restano fissi nel punto in cui l’auto è svanita con Sherlock.
Non arrenderti.
La vocina di poco fa pigola nuovamente e io mi trovo con gli occhi puntati sul mio petto.
Sei tu?
Certo che sono io.
Sorrido appena, mentre la mano destra mi si poggia delicatamente sul punto in cui ora, ne sono certo, un cuore sta battendo, e solo adesso mi rendo conto di non avere con me il bastone. Nella foga degli eventi, devo averlo lasciato dentro al college… Guardo nuovamente la strada. Sherlock Holmes. Sherlock Holmes mi ha ridato la vita…

Ascolto e rispondo distrattamente alle domande dell’ispettore Lestrade. Un tipo gentile e accomodante, devo ammetterlo. Per altro, molto alla mano: entrati nel suo ufficio mi ha offerto uno dei disgustosi – come li ha definiti lui – caffè delle macchinette e si è accomodato sulla sua poltrona incrociando i piedi sulla scrivania. Tra una domanda e l’altra, l’attenzione si sposta su altri argomenti per nulla inerenti al caso, in particolare riguardo al football, sport di cui – abbiamo scoperto – siamo entrambi appassionati.
Ma la mia mente è completamente assente. L’unica cosa a cui riesco a pensare è… Sospiro e mi strofino le palpebre con pollice e indice.
“John? John, se la sente di continuare? Se vuole possiamo anche smettere, tanto il colpevole è stato preso e queste domande sono solo una formalità.”
Scuoto appena la testa e lo esorto a procedere, ma di nuovo mi trovo a ricordare il modo in cui Sherlock ha pronunciato il mio nome, quello in cui mi guardava quando il tassista mi ha afferrato da dietro con il coltello in mano, e quello in cui è sparito, lasciandomi solo con mille domande e mille parole da pronunciare.
“Bene!” esclama dopo un po’ l’ispettore battendo con soddisfazione le mani e scattando in piedi. “Direi che qui abbiamo finito.”
Annuisco e mi alzo a mia volta, stringendogli la mano.
“E’ stato un piacere.”
“Anche per me.” rispondo sorridendo. Faccio per voltarmi e uscire quando una vocetta nella mia testa – o nel mio petto, non so più distinguere – bisbiglia:
Chiediglielo. Potrebbe essere l’unica possibilità di rivederlo.
Ammetto che devo riprendere confidenza con… l’avere attivo un cuore ventiquattr’ore su ventiquattro, ma è estremamente piacevole: è come se non fossi mai da solo. E dire che un tempo non facevo altro che spingerlo in un meandro del mio essere e costringerlo in modalità muta.
“Mi scusi, ispettore, ma volevo chiederle… quell’uomo che era con lei…”
“Sherlock?”
“Sherlock, esatto, sa per caso dove potrei trovarlo?”
Lui mi studia di sottecchi, come se cercasse di dedurre qualcosa. “Lo conosce, vero?”
“E’ solo un vecchio amico che non vedo da…”
“Amico?” esplode Lestrade ingigantendo gli occhi per lo stupore. “Intende amico nel vero senso della parola?”
Sotto quello sguardo inquisitore e incredulo mi faccio piccolo piccolo e mi limito ad annuire, a disagio. “Amico, sì… Andavamo al college insieme, poi per una ragione o per un’altra ci siamo divisi e non l’ho più visto…”
Per una ragione o per un’altra… Complimenti, John, sei davvero un ottimo bugiardo.
“Capisco… Beh, il suo indirizzo attuale è il 221B di Baker Street. Può trovarlo lì.”
Mi appunto l’indirizzo su un foglietto di carta, come se davvero servisse… Dopo averlo salutato con una seconda stretta di mano, sfreccio fuori e mi fiondo sul primo taxi disponibile.
“Baker Street.” comunico col fiato corto sporgendomi verso l’autista anche per controllare che, da qualche parte, non abbia nascosto un coltello, una pistola o una fottuta pillola. “221B Baker Street.”

SPAZIO AUTRICE
Okay, questo capitolo è abbastanza breve, mi dispiace tantoooo. A causa dei flashback che, ve lo dico da subito, saranno presenti all'inizio di ogni capitolo, non posso accorpare più capitoli insieme, quindi potrebbero venire corti. Se terminerò presto la storia, visto che sono in dirittura di arrivo, potrei cominciare a pubblicare anche più spesso, addirittura tutto insieme, non so. Mi spiace anche per l'ora, ma, ad essere sincera, mi ero completamente scordata, poi ho guardato il calendario e mi sono detta "merda, è lunedì" e ho cercato di spicciarmi. Scusate ancora. Ad ogni modo, spero che il capitolo, per quanto breve, vi sia piaciuto e che seguirete attivamente la storia, anche con qualche piccola recensione se volete. Vi auguro una buona serata e un buon proseguimento della serata. 
*kiss* 
Alicat_Barbix
   
 
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