Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: MovereCrus    01/08/2018    0 recensioni
Il più grande desiderio di Eren è conoscere il mondo circostante, al di fuori delle mura, in modo di non aver paura della morte incombente e di diventare il nulla ma di aver vissuto appieno, facendosi Uomo.
"Nel corso della sua esistenza non si era mai allontanato da quelle atroci mura, seguendo il sole soltanto con lo sguardo furibondo. Il sole, che misteriosamente si levava e calava ogni giorno. Ma da dove veniva? Che cos'era?
Non avrebbe mai potuto comprenderlo appieno e di conseguenza esso si ostinava a rimanere sconosciuto. Una concezione immensamente dura da sopportare ma che impallidiva di fronte alla questione che dopo gli si presentò: che cosa sarebbe stato lui dopo la morte, quando sarebbe divenuto il nulla? Se la vita dei grandi saggi e filosofi, degli artisti, dei medici così piena, così eccelsa lo sarebbe diventata, a che cosa sarebbe valsa la sua, che ignorava assolutamente tutto ciò?"
[Main Character Death! | Geografia modificata | Lieve Ereri | Dettagli macabri]
Genere: Angst, Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Eren Jaeger, Levi Ackerman
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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NOTE: Ho aggiunto dettagli (cannibalismo tra titani) e luoghi inesistenti nel manga, di cui ho inventato il nome, ma non è un AU. Anche il passato di Levi è diverso, non è stato un criminale ma un ricercatore. Tutto è naturalmente al fine della trama. Buona lettura :)

Il terrore era grande, sotto alle tempeste dei venti. I suoi grandi occhi verdi tremarono mentre l'essere che ancora era sfuggito alla sua furia omicida straziava le carni marrognole di un suo simile dalle dimensioni maggiori. Guardandolo.
I suoi denti giallastri affondavano nelle sue fibre melmose, poco compatte, ricoperte di scuro plasma. Ogni muscolo, ogni tendine veniva voracemente sfracellato, divorato in qualche secondo da quelle fosche e instancabili mascelle, a cui se ne aggiungevano altre, ed altre ancora. Come nugoli di zecche dall'intestino putrescente, rigonfio di sangue altrui, attaccate a una preda inerme, tutti quegli esseri erano radunati su di esso e, con le bocche conficcate nella polpa viva delle sue membra, lo assalivano, pasteggiando con quell’ormai carcassa farfugliante bestiali anatemi, mai sazi, mai esausti.
Il loro ventre si allargava a scatti ad ogni boccone, riversandosi del sangue che scorreva senso e impuro dalle loro fauci spalancate, mescolato a coaguli di bava, saliva salmastre e liquami vischiosi. La creatura che faceva da banchetto esalò un ulteriore soffocante grido e crollò al suolo immota trascinandoli con sé.
Fu allora che lo guardò e ne riconobbe la natura. Nonostante fosse allo stremo delle forze, alle soglie della morte, la viva carcassa cercò di rialzarsi, protendendo le aguzze mandibole verso di lui. La bava le scivolava incontrollata e copiosa sul petto bitorzoluto, mettendo in risalto le storpie vene in rilievo sulla pelle gommosa e irta dell’addome, gli occhi erano dilatati, le narici empie.
Sentì il suo fiato maleodorante e affannoso sul volto, il suo alito pungente, incredibilmente afoso, rauco a cui si univano mandrie dei gutturali gemiti degli altri mostri schiacciati dal suo corpo che si dimenavano guaendo ma senza alcuna intenzione di abbandonare la presa. Il giovane fissò gli occhi ottusi del gigante preparandosi ad attaccarlo. Quello tentò di azzannarlo non appena si mosse e le altre creature sotto di lui barcollarono, strappandogli brandelli di carni marcescenti pur di non venire scagliate via dal suo peso.
Il sangue fuoriuscì nuovamente copioso, rigandogli il costato, rendendolo simile a un Cristo deforme. Urlò di dolore spalancando i suoi enormi globi verso il cielo.
Eren piombò sul suo collo colossale, approfittando della distrazione e affondò, sebbene sapeva bene fosse inutile, la lama della lunga spada sulla trachea bene in vista. Il Titano urlò ancora, torcendo compulsivamente il collo per liberarsi dell’arma conficcata nelle carni.
Eren, aggrappato a un ciocca di peli, impugnò l'altra spada e la spinse in profondità all’altezza dell'attaccatura dei sudici capelli, facendolo di nuovo ululare dal dolore. La estrasse velocemente, si staccò dal corpo che precipitava pericolosamente verso il suolo, a causa del peso dei suoi aguzzini sul ventre, rimbalzò in aria e, con sforzo sovrumano, gli penetrò la nuca. Il gigante esplose in un cavernoso, laido, ultimo grido, stramazzando sconfitto a terra, travolgendoli.
Eren atterrò sull'enorme e repellente testa, tranciatasi dal resto del corpo a causa dell’urto del collo contro uno sperone roccioso, osservando il nemico mutilato deperire lentamente, sfigurato dalla morte, come i tanti altri che aveva visto soccombere. Non era poi così diverso, il suo digrignato cadavere, carne e sangue straziati e riversi in se stessi, a quello di un qualsiasi umano che quel mostro aveva massacrato.
Gli occhi di Eren si inumidirono all’improvviso mentre alle sue spalle ignare, le teste degli altri tre titani, che avevano scaraventato via il morto per potersene cibare liberamente, caddero fragorosamente al suolo.
Il cadavere del gigante era straordinariamente simile a quello di un uomo qualunque. La morte sola era uguale per tutti, niente più distingueva un orrido mostro da qualcuno che ci fu a fianco per tutta la vita, tutto non diventava altro che il nulla, all'ombra di falci invisibili e incomprese, dagli echi sinuosi e inquietanti.
Il calore emanato dalla carogna decapitata rese bollente,soffocante, irrespirabile l’aria, ormai intrisa dell’acido liberato, assumeva un odore insopportabile, accresciuti dal sole della torrida estate.
Il sole… il sole soltanto pochi giorni, poche ore fa era stato in luoghi che lui nemmeno avrebbe potuto immaginare: terre umide e fredde, foreste, tundre, fino a giungere ai deserti del Sud, ad arcipelaghi sperduti, lambiti dal mare impetuoso, tutti quei luoghi di cui aveva potuto soltanto leggere di nascosto sui libri ingialliti dei loro avi. Nel corso della sua esistenza non si era mai allontanato da quelle atroci mura, seguendo il sole soltanto con lo sguardo furibondo. Il sole, che misteriosamente si levava e calava ogni giorno. Ma da dove veniva? Che cos'era?
Non avrebbe mai potuto comprenderlo appieno e di conseguenza esso si ostinava a rimanere sconosciuto. Una concezione immensamente dura da sopportare ma che impallidiva di fronte alla questione che dopo gli si presentò: che cosa sarebbe stato lui dopo la morte, quando sarebbe divenuto il nulla? Se la vita dei grandi saggi e filosofi, degli artisti, dei medici così piena, così eccelsa lo sarebbe diventata, che cosa sarebbe stata e soprattutto a che cosa sarebbe valsa la sua, che ignorava assolutamente tutto ciò?
Spalancò gli occhi, come riscuotendosi da un vorticoso sogno, e riprese a contemplare mestamente la distesa di cadaveri. Si vide allora così, cadavere sanguinoso, secco, dimenticato, cosparso di polvere, e si rammaricò amaramente di quanto l'esistenza fosse stata ingrata nei suoi confronti. Quando il flusso vitale si sarebbe improvvisamente attestato nelle vene raggelate, niente avrebbe potuto restituirgli ciò che gli era stato tolto. Gli uomini avrebbero continuato a morire, la terra a marcire, il sole ad attraversare l'orizzonte, pigro, sdegnoso, geloso di quel che soltanto egli poteva scorgere.
Dunque, come in quella vita disperata che gli sarebbe presto sfuggita, avrebbe potuto sapere solamente se fosse stato disposto a lottare, perché il mondo non era scritto nella lingua dell'amore bensì in quella del sangue. Chi l'avrebbe lasciato scorrere senza uno scopo dentro di sé, nell'accidia della carne e dell'animo, non avrebbe mai ottenuto e non sarebbe diventato niente, mentre chi avrebbe combattuto per un proposito, sentendo ogni volta il cuore pulsare per una ragione e una libertà, si sarebbe tramutato anch'egli nel nulla, ma così non sarebbe stato il suo gesto. Conoscere, come vivere, era una scelta.
Eren ricaccio indietro le lacrime che gli deturpavano il volto, socchiuse gli occhi chiarissimi ed emanò un breve sospiro quando si accorse di non averne soltanto bisogno. Ne aveva voglia. Voglia di conoscere e di sapere, come l'asceta che va cercando quell'unica risposta, non volgendosi ad essa per necessità, per una giusta richiesta, per un pegno, ma voglia.
Che cosa c'era al di là delle mura roventi? Il suo cuore si sarebbe commosso vedendolo. La sete di ricerca si sarebbe placata e sarebbe stata definitivamente assopita, ma la rugiada che dissetava i germogli schiusi, le grida degli uccelli nella foresta, il mare che trascinava dietro di sé sogni e relitti da una costa all'altra del mondo, i fiordi, le nevi, non avrebbero mai smesso di inebriare la sua anima.
Che cos'era se non l'anima, colei che andava suggerendo questi poco temprati pensieri, imbalsamata nell'involucro del dolore? L'anima. Poche cose conosceva davvero, molte, troppe per nulla ma ciononostante sapeva che l'anima era una delle rare che non devono essere né conosciute, né svelate, né dette.
“Eren”
Qualcuno lo riscosse dal turbinio della sua coscienza e l'anima ancora troppo impregnata di dolore ripiombò nel sonno.
Eren si voltò e vide la minuta figura del caporale fissarlo altera, i vestiti impeccabili,le mani macchiate di sangue strette in un panno poco tempo prima illibato. Gli era stato detto che la bellezza consisteva nell'armonia dei tratti del volto e del colore, tanto queste componenti erano accentuate maggiormente qualcuno poteva essere definito bello. Sulla base di queste rudimentali nozioni, Eren considerava Levi un bell'uomo dai lineamenti simmetrici ed eguali, algidi e incisivi, intinti però di quella sfumatura dell'atteggiamento umano che non sapeva bene descrivere ma che aveva sentito chiamare nobiltà.
Nobili erano i re, i principi, i governatori di quelle terre lontane, eppure gli era stato riferito che anche i guerrieri, i soldati erano uomini nobili, soprattutto se riportavano sfolgoranti vittorie e morivano in onore della loro patria e delle loro genti.
Indeciso su quale definizione tra le due fosse la più adatta, Eren si limitava a considerare in entrambi i modi le virtù di Levi. Essendo il guerriero più forte dell'umanità, doveva senza dubbio avere sangue nobile nelle vene.
“Torniamo indietro, non c'è rimasto più niente da fare qui”
Eren guardò le sue labbra muoversi e quel dolore che aveva appena riscoperto sembrò acutizzarsi. In quel momento avrebbe seguito soltanto chi gli avrebbe fornito risposte. Non importava che esse fossero attendibili, nemmeno esaurienti, dovevano soltanto trasmettergli l'essenza del mondo che ignorava.
“Heichou?” Eren parlò cercando un riparo dallo sguardo penetrante dell'uomo. Egli proveniva da una di quelle terre straniere, era stato altrove, forse avrebbe potuto rispondergli, avrebbe potuto raccontargli qualcosa degli altri continenti. Forse lui possedeva una delle chiavi del mondo.
Levi si fermò, aspettò che il ragazzo continuasse, in silenzio.
“Lei è stato nelle terre orientali, forse ha visto qualcosa di ciò che chiamano deserti, o le tormente di neve, ed è probabile che sia stato in quelle zone estreme completamente circondate dai ghiacci, i...”
“Poli. Perché mi chiedi questo?”
Eren inspirò. Sarebbe stato più prudente non aver detto nulla, probabilmente l'avrebbe considerato solo una perdita di tempo, nient'altro. Ma per lui era una richiesta disperata che da solo non avrebbe mai potuto colmare. Non voleva tacere, non voleva ignorarsi.
“Lei ha viaggiato molto dicono, è stato in luoghi che io non vedrò mai. Se le qualità che contraddistinguono l'uomo sono la razionalità e la conoscenza, non voglio morire essendo stato soltanto pari a una bestia, ignorante di tutto ciò che lo circonda, come le creature contro cui lottiamo e per cui perdiamo la vita. Io non voglio rinunciare alla mia vita così facilmente, in alcun senso. Perciò la invito a descrivermi il mondo oltre Paradis Island, tutto ciò che altrimenti per me esisterebbe solo nei libri.”
Eren ora tacque, abbassando lo sguardo. Si aspettò un secco rifiuto, nonostante avesse ponderato ogni parola, ogni vibrazione della sua voce carica di dolore, nei toni densi e sobri della sola ricerca. Non ci era riuscito.
Levi lo guardò senza nascondere una punta di sufficienza nei suoi confronti, quanto bastava per celare la sua sorpresa di fronte a una tale domanda, e il suo rammarico nel sentirsi poco adeguato a rispondervi.
“La tua motivazione è giusta” disse tuttavia “quindi ti accontenterò”

Seguì una pausa, poi iniziò con apparente calma:
“ All'infuori di queste mura ci sono luoghi completamente diversi fra loro, di cui avrei dubitato l'esistenza se qualcuno non me ne avesse parlato. Prima di diventare membro della Legione Esplorativa, vivevo in Allegaon, una grande isola a nord delle maggiori terre orientali, Obliviscaris, Teoden e Meyeli. Il clima è il paesaggio variano a seconda della posizione della Luna Minore, Erymede, e dello spostamento delle grandi nubi che circondano quei luoghi. Gran parte dell'isola è ricoperta dal mare, che è praticamente immobile. Capita raramente che le parti sommerse riemergano, circa una volta ogni 7-9 anni per tre giorni,Quando avviene esse vengono isolate e gruppi di studiosi si radunano su quelle coste per studiare i fondali emersi, soltanto in pochi autorizzati possono sbarcarvi. Prima di entrare nell'esercito, ho compiuto per un breve periodo delle ricerche per il governo di Allegaon, quindi ho avuto la possibilità di vedere tutto con i miei occhi”
Sentire il caporale così loquace stupì Eren, che giurò aver visto i suoi occhi schiudersi piacevolmente.
“Le spiagge sono larghe e sabbiose, a tratti totalmente erose dalle continue maree, gli scogli che affiorano normalmente dall' acque assumono una particolare sfumatura rossastra, e gli organismi che vivono su di essi misteriosamente muoiono, fatta eccezione per una particolare specie di corallo, estremamente fragile al tatto, dalla colorazione indefinita tra il giallo acceso, l'ocra e il cremisi, rarissimo, ambito dal mercato nero. Ci eravamo stabiliti per circa quattro giorni, interrompendo i contatti con la capitale per non venire interrotti dato il poco tempo disponibile. Quand'era l'alba il sole illuminava le distese di corallo, tra le pozze d'acqua scure e la sabbia, rinsecchite dalla lontananza dal mare. La superficie delle varie conchiglie, sebbene estremamente resistente, si frantumava appena veniva raggiunta dalla luce. La stessa cosa accadeva a rocce verdastre e a minerali grigiastri disseminati lì attorno. Non abbiamo ancora scoperto il motivo, che è però collegato all'estinzione della fauna.”
Non appena Levi terminò la frase, Eren, dimenticandosi del proprio imbarazzo, lo invitò a continuare. Le parole di Levi erano state fredde, scarne, impersonali. Le sue descrizioni erano tali al rapporto di un soldato, non c'era spazio per lo stupore, la bellezza, la poesia. Tuttavia Eren aveva ascoltato con trasporto, rapito da ogni sillaba che usciva dalla fine bocca dell'uomo.
Aveva immaginato, a modo suo e totalmente irrealistico, i fondali riapparire dalle acque illuminati dal sole nascente e poi dalla Luna Minore calante, le distese di sabbia completamente deserte, il gorgoglio della riva nel silenzio, rotto all'improvviso dai gusci e dalle conchiglie che scricchiolavano e si frantumavano uno dopo l'altro in un'incessante percussione.
Non aveva paura di nascondere i suoi occhi brillare, colmi di quelle evanescenti illusioni ai suoi, metallici, aridi e vacui, quelle illusioni che non erano più tali nella sua anima. In ogni libro che Armin aveva potuto ottenere non esisteva nulla del genere: i testi erano fuorvianti e ampollosi, le immagini nella loro sintesi, rigorosamente tecniche, semplificate al massimo, la maggioranza dei termini e dei riferimenti sconosciuti.
La sua immaginazione veniva ostacolata da tutto questo e si chiudeva in se stessa, ogni testo si rifaceva a qualcosa di ignoto per lui, ma che probabilmente in molti al di fuori di quelle maledette mura conoscevano.
Com'era una mangrovia? Un basilisco? Un camaleonte? Gli unici testi su cui scorse gli occhi furono trattati speculativi per medici e sapienti, persone che ormai conoscevano tutto e avevano bisogno di dimenticarlo, per poi in seguito riscoprire nozioni che giacevano inutilmente nel loro cervello, con falso stupore, per ingannare il tempo.
Il tempo… non necessitava di qualcosa che occupasse immobile l'ampio spazio vuoto della clessidra, ma qualcosa che rendesse i granelli prossimi a cadere non più insostenibili macigni bensì frammenti di pianeti, di terre, polvere di stelle. Le parole di Levi erano il solo strumento con il quale avrebbe potuto ottenere questo. In cambio avrebbe dato la sua forza, uno squarcio nell'immagine di sé che si era faticosamente costruito ma non importava: ne sarebbe valsa la pena. Forse. Probabilmente.
“Non si fermi, Heichou! È una perdita di tempo, avrà modo poi di punirmi per la mia insolenza. Lo può fare anche subito, ma continui a parlare!”
Eren cercò di giustificarsi sebbene trovasse il suo desiderio legittimo. Gli occhi di Levi ebbero un freddo bagliore, gli si avvicinò.
“ Se parti già con il presupposto che sia una perdita di tempo cosa speri di ottenere, moccioso?! Parla!”
Così dicendo gli assestò un pugno in pieno volto e Eren subì in silenzio. Un rivolo di sangue gli cadde dalle narici tingendo le labbra di scuro. Si portò le mani al volto per sopprimere il dolore mentre il suo orecchio si tendeva umiliandosi, speranzoso di ricevere qualche altra sillaba.
“Ti ho detto di parlare!”
La sua anima crollò. Un altro pugno ancora più forte sul mento, un altro in fronte. I suoi occhi verdi tremavano nervosi. Levi aveva voluto risparmiargli solo quelli, che ora indagavano il vuoto pieni di vergogna, annegando loro stessi. Non avrebbe mai dovuto rinnegarsi.
L'ombra del caporale si stagliò sulla sua figura china. La sua pallida mano lo afferrò per i capelli e gli sollevò la testa.
“Dì la verità.”
Rialzò lo sguardo. Non avrebbe mai dovuto arrendersi al timore verso la sua autorità in quel modo così rivoltante. Il mondo era scritto nella lingua del sangue, non in quella dell'amore, lo stesso sangue che gli ricopriva la pelle, del tutto sprecato in quel modo, come la sua vita, se non avesse fatto nulla, invece di scorrere fino all'ultimo giorno.
Le sue iridi vivaci e aggressive incontrarono quelle imperturbabili di Levi che lo scrutavano attendendo una risposta. Non volle liberarsene.
“Io voglio conoscere” disse “ perché io voglio vivere. Esigo da lei quel che cerco perché lei è il solo in grado di darmelo. Pretendo le sue parole, subito. Pagherò con il sangue, con il sonno, con le membra ma lo pretendo. Altrimenti sarà lei ad uccidermi.”
La sua mano abbandonò la presa, i suoi occhi sorrisero impetuosi.
'Chiedimi ciò che ancora vuoi sapere”
L'uomo attese che il giovane proferisse parola, senza aggiungere altro. Il ragazzo lo fece, nascondendo un sorriso soddisfatto tra le mani.
“ Armin ha letto delle foreste del Daendron, sono molto lontane da qui? Dove si trovano?”
“ A Obliviscaris, circa a nord est nella contea di Liocott”
Levi riconobbe l'espressione confusa di Eren.
“Devi procurarti una cartina, è inutile che io parli di quegli stati se non sai nemmeno collocarli.”
Scrutò nuovamente il ragazzo che annuì, fulminato dalle sue gelide pupille. Il suo volto era ancora insanguinato e Levi ne fu disgustato. Le mani tremavano ancora sotto gli occhi offuscati per un istante.
“Forza, andiamocene, alzati.”
“Ma… io le avevo domandato delle foreste del Daendron! Non può interrompersi così!” esclamò Eren in collera.
“Ne parleremo lì, idiota. C'è una cartina nel mio studio. E delle fotografie. Riuscirai a seguirmi e soprattutto potrai pulirti quella faccia.”

Lo studio era stretto, austero, minuziosamente pulito e ordinato. Eren si guardò intorno impaziente di ascoltare il seguito del racconto del caporale, che si sedette accavallando le gambe senza dire più nulla.
Il suo sguardo micidiale soffermandosi su di lui lo fece sobbalzare. Si chiedeva che cosa stesse facendo di sbagliato per meritare tale sgradevole attenzione. No voleva altro che Levi proseguisse senza badare troppo alla sua persona, come aveva sempre fatto. Ora dubitava delle sue conoscenze, perché si ostinava a rimanere in silenzio? L'aveva colto impreparato o lo aveva offeso con quella risposta così ardita?
“Si può sapere che stai aspettando?”
Eren sollevò lo sguardo confuso verso le sue labbra che si muovevano taglienti. Che cosa intendeva adesso. Come avrebbe dovuto comportarsi?
“Eren”
“Sì?!” esclamò sussultando.
“ Va’ subito a lavarti quella faccia.”
All'improvviso si ricordò di avere il volti cosparso di rivoli rappresi. Obbedì immediatamente, imbarazzato dalla sua noncuranza, pentendosi di aver messo in dubbio l'uomo, la cui estrema ossessione per il pulito lo fece ridacchiare al tempo stesso.
Tornò pochi minuti dopo, tenendosi chino per non incontrare di nuovo quelle pupille letali. Non fece in tempo a scusarsi che Levi iniziò:
“ La foresta del Daendron è qui” disse lui, che nel frattempo aveva steso una logora cartina sulla scrivania, indicando un punto a destra di una penisola enorme e frastagliata” Si dice che gli animali che vi vivano abbiano lo stesso sguardo degli uomini”
“ Il clima è freddo e inospitale, vengono percepite solo due delle cinque stagioni esistenti. Quando il sole splende su queste terre, vengono celebrate omelie e riti propiziatori: è considerato un evento rarissimo, pari a un eclissi della Luna Sidron o all'apparizione della costellazione dell’Amicla. Qui non sono mai stato di persona ma durante una conferenza tra ricercatori di tutto il continente è stata discussa un'eventuale spedizione quindi mi sono dovuto informare ulteriormente.”
Levi si fermò per un istante, poi si alzò e estrasse dalla nutrita libreria uno spesso volume amaranto, dalla copertina consumata. Lo aprì e prese tra le dita una foto che si trovava all'interno dell'indice, poi la porse ad Eren che la rimirò stupefatto.

Rappresentava una creatura abissale intenta a nutrirsi nelle torbide acque di un lago delimitato da rocce diafane.
L'immagine era piuttosto sfocata ma alcuni particolari risultavano spaventosamente nitidi alla sua pupilla, come la confusa struttura della corazza a scaglie, la parvenza delle minute zampe e soprattutto l'etere nudo e sgualcito che fuoriusciva dalla cavità degli occhi.
Non potevano essere quelli di una a bestia. C'era un'ombra fugace i quegli occhi, uno squarcio impercettibile, in contrasto così forte con la restante corporatura che suggerivano all'immaginario individuale e collettivo il sospetto che vi fosse una tenue presenza di essi in coloro che li guardavano. Quelle spaccature sconvolte erano sorprendentemente simili a quelli di un bambino in procinto di piangere o di un vecchio che stava rivivendo una scena passata ma molto più vaghe, cave, vuote, invisibilmente emorragiche.
Eren fissò l'animale esterrefatto. Non ne aveva timore, come non si teme un istrionico incubo. Percepì solamente gli occhi dell'essere entrare nei suoi, in un prolungato attimo, che lo privarono temporaneamente di ogni criterio di giudizio, abbandonandolo alla più trepidante contemplazione. Il fascino, si sa, non è qualcosa di meramente reale ma di reale nella perfetta corrispondenza con la sua essenza, cioè vigente solo nel presente. Non si può ricreare una condizione che ci ha affascinato nel futuro e nemmeno si può anticipare nel passato.
Levi esercitò su di lui lo stesso effetto quando con un elegante gesto gli porse un biglietto scritto a caratteri minuscoli. La sete di conoscenza di Eren, alimentata dal cupo fascino, era pressoché totale.
“È la prima volta che riusciamo a riprenderlo, non speravamo in così tanto. Ammiratelo perché non abbiamo null'altro da comunicarvi, tutto sarebbe superfluo. Ma abbiate cautela con quello sguardo.”
Il ragazzo lo girò subito, resosi conto di essere contravvenuto al consiglio riportato. Ormai era tardi: quegli occhi gli balenarono nuovamente nel pensiero, viscidi e spaziosi. Sentiva il suo cuore riempirsi, sebbene frastornato dal brivido, riscoprirsi, bearsi di uno strano piacere, simile ma in realtà opposto a una sincera preghiera, al torpore di un sogno.
La voce del soldato ruppe quella sospensione ma ad Eren non dispiacque.
“Cosa ne pensi?”
Eren si voltò titubante. Gli occhi dell'animale scomparvero gradualmente dai suoi pensieri che erano stati ormai riassorbiti dalla ragione. Ma proprio questa gli fece poi dedurre quanto la sua razionalità forse misera e riduttivo a di fronte all'ignoto rappresentato da quella specie. Frastornata, agì in funzione di esso: quante probabilità c'erano di trovare altri esseri del genere sul pianeta? Quanti erano? Com'erano? Dove vivevano? Il fatto che non avrebbe mai potuto raggiungerli non lo infastidiva più. Ora era la sola parvenza di prove concrete dell'esistenza dell'ignoto che lo soggiogava.
“Potrò sembrare un folle, ma… è meraviglioso” disse “fino ad ora ero certo che non ci potessero essere altro che giganti assassini. Questa creatura al contrario stranamente non mi spaventa. Qualcosa mi dice che, come noi, è spinta a fare del male raramente, a causa di minacce esterne. E lo apprezzo. Una creatura inoffensiva, del tutto passiva, non sarebbe degna di meritare la vita in questo mondo, come un uomo d'altronde.”
Le labbra di Eren si richiusero in un sospiro. Non esaltava il comportamento di un uomo rispetto a quello di una bestia, non c'era bisogno di farlo. Ogni forma di vita meritava il rispetto dovuto. O il disprezzo necessario. Dalla più piccola pianta di Paradis Island al prossimo erede al trono.
Levi condivideva il suo ragionamento, seppur non così intensamente. Il suo criterio di giudizio era molto più cinico e riduttivo: se qualcuno o qualcosa iniziava per primo ad uccidere, doveva essere eliminato. Non poteva negare che, anche se lo avesse attaccato, quella creatura avrebbe esercitato su di lui in fascino pericoloso, sebbene intriso di ribrezzo, e che la avrebbe fissata lungamente nella morte. Era naturale che uno spirito infantile come quello che gli sedeva di fronte ne fosse assuefatto.
“Conosce altre specie del genere, Caporale?”
L'uomo alzò un sopracciglio, stupendosi del tremolante riflesso di quelle verdi gemme.
“Chiamami Levi, odio i convenevoli. E odio anche i codardi, come ti ho dimostrato prima. Non fingere più di esserne uno.”
Eren indugiò prima di replicare, Levi distolse vagamente gli occhi.
“Come vuole: Levi. Ora prosegua.”
E così fece, finché non giunse la sera. La notte li sorprese chini sulla scrivania, circondati da documenti, foto, reperti, pezzi di carta di trascurabile importanza, a parlare di remoti villaggi, paesaggi, cascate, creature platoniche. Eren non si stancava mai di chiedere e di conseguenza Levi non poteva rifiutarsi di rispondere.
Il tono di Levi si era riscaldato, ma non accennava mai a parlare più dettagliatamente del suo passato. Ogni timore venne meno, ogni parola accresceva il rispetto, la dignità e lo stupore reciproco, eppure nessuno dei due ebbe l'ardire di distaccarsi dalla realtà del mondo per concentrarsi su quella del loro essere, che si stava sottraendo all'imposizione della guerra e si stava manifestando sinceramente.
Ebbro dei racconti, delle vicissitudini, del per lui suggestive descrizioni del soldato, Eren non si domandava il motivo di tanta disponibilità e interesse, che non aveva mai osservato in lui, limitandosi ad apprezzare l'inusuale loquacità. Non aveva mai prestato attenzione a svelare ragioni latenti del comportamento umano, ed egli da solo ne avrebbe difficilmente padroneggiato la capacità. Era destinato allora a rimanere un completo ignorante, anche se fosse stato finalmente cosciente dell'intero universo, se non avesse intuito la complessa natura dell'uomo che, nonostante non potesse appieno dimostrare e interiorizzare, era.
Sarebbe stato dunque compito di Levi iniziare a colmare quella lacuna, ma non lo fece. Perché?
È necessario un tocco lievissimo per far risuonare la corda più remota.
“Quali parti del corpo abbiamo più paura di sfiorare?” si chiese, per dare spiegazioni alla sua nulla reazione, nonostante il vivo interesse e l'assidua premura che aveva dimostrato parlando di scienza
“Quelle che potrebbero farci male”
“ Quali oggetti abbiamo più paura di maneggiare?” “Quelli più fragili e preziosi”
“E quali fiori rimpiangiamo aver raccolto?”
“Quelli più belli”.
Ecco spiegato il motivo della sua apparente freddezza. Aveva paura, sebbene non lo ammise distintamente. Aveva paura di cambiarlo, contaminare quella sua purezza impulsiva e acerba, a cui si era affezionato, sebbene si fosse ripromesso di non farlo e poi perderlo per sempre, come era successo con gli altri. Per la prima volta durante quell'incontro, socchiuse le palpebre umide e fu tutto.

L'indomani il sole splendeva furioso sulle terre arse, come faceva sempre. Uscendo dal basamento, Eren lo fissò con la stessa insolenza del giorno prima ma con più testarda convinzione.
Il sole non era l'unico a sorvolare simili creature sull'acqua, fiere muliebri, strane isole che ne rifuggivano la luce, non era il solo a ridere della forma di certi animali di Meyeli, a constatare la lentezza dei corsi d'acqua dell'Ovest, a commuoversi per la bellezza degli Istrion, i fiori dell'estremo Oriente.
Adesso anche lui ne conosceva la celere forma. Non era mai stato in quei luoghi non vi sarebbe mai stato, mai, ma aveva comunque modo di rivendicare la brace della sua repentina fiamma, la fiamma della conoscenza. La verità era che Eren era soltanto un po’ meno ignorante del giorno precedente, tuttavia si sentiva in possesso di un tesoro inestimabile.
Disperse i suoi occhi luminosi nel cielo e vide l'amato volto della madre. Sapeva che non era altro che l'illusione prodotta dal suo vulnerabile animo, ma le attribuì un significato assoluto. Rivolse ancora gli occhi tra le nubi, il cuore si inumidì. La morte lo aspettava. Ma il sangue non aveva mai dormito mai, l'ardore era estremo e andava confondendosi in speranza.
Per la prima volta si sentiva amato da quel mondo che non riusciva ad accettare, per la prima volta dopo tempo immemore permise alle sue labbra di dischiudersi in un immotivato sorriso. Era soltanto necessario distruggere il male per riappropriarsi di quello scrigno di meraviglie che era il mondo. E allora il linguaggio del sangue sarebbe stato pronunciato come quello dell'amore e viceversa. Perché tutto al di fuori di quella stirpe maledetta era necessario. E bellissimo.
Un boato frantumò i suoi pensieri. Un tonfo, un secco crepitio nelle mura lontane si impossessò dei suoi sensi e li imputridì. Un nuovo gruppo di creature era penetrato all'interno di esse e procedeva spedito tra le vie della città fortificata, calpestando e divorando qualsiasi cosa ostruisse loro il passaggio.
Immediatamente Eren si precipitò dagli altri soldati, che già organizzavano l'offensiva.
Nell’andarsene però, non dimenticò di offrire un'altra arrogante occhiata al sole che si affrettava a raggiungere il culmine dello splendore. Mezzogiorno. La morte beffarda accresceva il suo orgoglio:
Tu, sole, non conoscerai mai la morte, mentre io già sento in bocca il suo sapore. E in questo ultimo dignitoso passo, che tu non sai compiere, ogni più insignificante creatura di questa terra è più degna di te.
Ovviamente ignorava che il sole era una stella e che, in quanto tale, era destinato, sebbene in tempo infinitamente più lungo, ad estinguersi.
Anche Levi si accorse repentinamente dell'attacco. Predispose velocemente ogni dettaglio,nel caso non avesse fatto ritorno, come d'abitudine. Avrebbe voluto scrivere qualche riga per i suoi superiori e per Eren, se gli fosse sopravvissuto, ma si ritrovò a fissare amaramente la boccetta vuota dell'inchiostro.
Si limitò ad appilare le foto che avevano visto la sera prima, mettendole in bella vista sulla scrivania.
Quando raggiunse gli altri, Erwin stava già dando gli ordini e disponendo gli schieramenti. Il suo primo impulso fu quello di scorgere Eren tra il gruppo, lo fece e rasserenandosi si inquietò.
"Mi ha chiesto di fargli conoscere tutto, tranne se stesso."

Eren rispose con un cenno al suo sguardo. Levi vi lesse morte certa, da entrambe le parti, l'ingenuità imbevuta di sicurezza assieme all'aggressività intrisa di speranza erano le armi più forti che avesse.
Immediatamente i soldati partirono, i due si divisero, si unirono ai rispettivi gruppi, secondo le direttive. Eren ringraziò Levi, già scomparso in silenzio. Morire aveva finalmente un senso. Poi si unì ad Armin, Jean e Mikasa, le cui ombre si stagliavano su ciò che presto non sarebbe stato altro che rovine.

Le creature già all'interno non erano più di cinque ma altre erano già pericolosamente vicine alle mura. Tre di quelle già oltre Il Wall Maria erano già state abbattute dagli uomini guidati da Levi, ma altrettanti furono voracemente eliminati e giacevano ormai morti accanto ai cadaveri dei loro assassini.
Nessuno osò fermarsi: Levi ordinò loro di seguirle ai lati, e di non dividersi.
La morte aveva forgiato a tal punto quelle anime da regolare perfino le loro lacrime, che sarebbero silenziosamente colare la sera stessa, esattamente un'ora dopo il tramonto durante il censimento delle vittime e l'allestimento della pira funebre.
Il secondo esercitò fu inviato presso le mura ad arginare gli attacchi continui e a eliminare gli esseri rimanenti. Data la dimensione minore e il numero limitato, erano soltanto in tre ad assediare la città, fu pianificato di attirare il ristretto gruppo in un unico punto, in modo da limitarne i movimenti ed abbatterle nel più breve tempo possibile. Quattro uomini si posizionarono sulle rovine del ponte di accesso alla città, ormai totalmente disintegrato dall’avanzata dei mostri, i rimanenti si appostarono alle loro spalle, poco più in là delle mura.
Fra i primi quattro incaricati di attirare quegli esseri vi era Eren. Il suo volto era impregnato di collera, non tanto verso le creature assassine bensì verso i compagni stessi, che ritennero utile di schierarlo davanti, per un eventuale corpo a corpo in forma di titano con i suoi momentanei simili.
Se non fosse riuscito a trasformarsi in tempo, gli altri uomini avrebbero attaccato da dietro, in modo da proteggerlo, come di consueto.
Eren non voleva godere ancora una volta di una posizione privilegiata, non voleva sembrare ancora una volta vittima, non voleva causare altre morti con le sue scelte tra infinite possibilità. Voleva uccidere freddamente, massacrare di colpi quelle nuche infernali, vederle ignare di chi le circondava da dietro.
Così rimuginando e imprecando tra sé, eseguì l'ordine, guardando con insensata invidia Mikasa e gli altri ancora posizionati sulle mura, che presto avrebbe visto sgozzare i colossi, vendicando, come lui avrebbe voluto fare, la morte di coloro che ebbero amato. Le creature non tardarono a individuarli, subito si scagliarono verso i quattro, che sfrecciavano ancora attraverso i ruderi dell’antica periferia, seguiti dagli altri.
Il piano stabiliva che i primi avrebbero dovuto raggiungere i resti del santuario di Aden, una volta confine tra la periferia e la foresta. Così fecero: Eren si trovò davanti metro dopo metro una colossale cupola di marmo nero, che portava tristemente su di sé i morsi del tempo, la foga animalesca dei titani e delle macerie.
Un tempo all'estremità di essa campeggiava lo stendardo di Paradis Island, ora un pallido vessillo ondeggiava pietoso davanti ai suoi occhi. Sopraffatto dalla furia cieca, lo paragonò a una prostituta, che per vendersi ostentava debolmente le sue grazie.
Quello era il simbolo della sconfitta, Eren vi accanì il suo sguardo e le silenti parole, come mai aveva fatto prima. Per un attimo le speranze e le promesse di un futuro migliore vennero sgualcite dalla sete di sangue che lo animava.
Ma l'alito greve e pungente di un titano lo distolse dai suoi roventi ideali. Per la seconda volta nel giro di tre giorni Eren si trovò faccia a faccia con una di quelle creature. Stessa ottusità negli occhi smorti, stessa caduca avidità di sangue nel suo respiro. Stesso muso, stesse labbra, stessa pelle ruvida e gommosa, stessa carne avvolta da pelle screziata da grosse vene.
Eren vide la causa e la fonte del suo disprezzo per il mondo. Fu tentato dallo sputare nel globo cavernoso del titano, incoscientemente, ispirato soltanto dal rancore. Non lo fece e seguitò a percorrere la superficie della cupola assieme agli altri uomini, come previsto. La rabbia ruggiva furiosa nel suo cuore ma se le avesse dato ascolto non sarebbe più stato capace di ergersi sulle sue stesse gambe. Un fischio squarciò l'aria, era il segnale di attacco. I soldati della retroguardia piombarono addosso ai titani attirati da Eren e gli altri e ne ferirono mortalmente due. Gli altri due si accorsero della loro presenza e retrocedettero per ucciderli.
Eren vedendo la scena non poté più resistere, spiccò un balzo dal vertice della cupola e fece stridere la spada sulla spalla del titano più basso. Questi mosse bruscamente l'arto e lo scaraventò via, ma il ragazzo fece in tempo ad aggrapparsi e a risalirne la curva, sotto lo sguardo atterrito degli amici.
Alcuni lo abbassarono, altri erano tentati dal coprirsi il volto. Erwin impugnò nervosamente l'arma, già convinto che il fuoco avrebbe avuto due corpi in più su cui divampare la propria ira.
Eren ignorò tutto ciò, anche il suo nome gridato dalla dolce voce di Mikasa, e prosegui testardo il suo assedio. Si lanciò nuovamente in aria e si scagliò contro l'orecchio camuso, fendendolo. La creatura provò un dolore acutissimo e iniziò a dimenarsi indemoniata, per poi cadere senza testa sotto la lama ferma di Erwin. Fu tutto vano. Il secondo gigante si era liberato dall’offensiva dei soldati e con curiosità omicida aveva afferrato Eren e, stringendolo nel suo artiglio, se lo era portato alla bocca.
Inaspettatamente indugiò, decise di non inghiottirlo subito e, tormentato dalla macchia di terrore che aveva in volto, lo avvicinò ai suoi occhi, studiandone con inusuale interesse la struttura e i tratti del suo corpo.
Era un titano bizzarro, un titano che voleva osservarlo, conoscerlo, una vera e propria beffa per Eren, che era sul punto di impazzire, non di terrore ma di impazienza.
Le sue iridi verdi ribollivano isteriche, riflettendosi negli opachi globi del gigante, mentre digrignava le mascelle, fatalmente vicine alle molli carni del mostro. Non poteva sopportare di essere diventato il giocattolo di quella feccia.
Capì di essere giunto alla fine. Non era la morte che lo terrorizzava, bensì il fatto che la creatura avrebbe continuato a vivere, come gli affascinanti falchi di Daendron, i camaleontici anfibi dell’Alleagaon, i vistosi boccioli degli alberi sempre in fiore del Nord.
Non aveva diritto e non aveva ragione di farlo, perché nessun tipo di conoscenza avrebbe potuto trapassargli le viscere, nessun ideale, nessuna forza, nessun sentimento avrebbe mai dimorato in quella mente idiota, quando uomini, donne e non solo, sterminati dalla sua disgustosa furia avevano racimolato istanti di vita per crescere, per conoscere e per amare.
No, non vi era maturazione né memoria, né coscienza in quella turpe specie. Non vi era nessuna traccia di Vita, sebbene centinaia morendo facessero dono della propria.
Quella feccia doveva crepare agonizzante, provando il maggior dolore possibile, uno dopo l'altro, senza pietà, sterminata dall'essere umano che, attraverso il sangue, decifrava il mondo ancora ingiustamente a molti sconosciuto.
E per ottenerlo egli doveva morire. Morire insieme a quella bestia schifosa, maledetta, allo stesso modo, senza riguardi da parte di nessuno, nemmeno da se stesso. Morire per il bene dei prossimi a venire,per evitare che provassero la sua stessa pena, per il loro sangue, per il loro amore.
Amore. Era quasi un'offesa pronunciare quale termine in quel momento. Ma non importava, non era in grado di percepire l'esatta valenza finché la morte lo avrebbe vincolato a quell'attimo. Era una parola vaga, quasi indicibile, sacra per Eren, ma egli la glorificava e già si immolava per i suoi fondamenti. Sì, ne sarebbe valsa davvero la pena.
“Attaccate!” urlò, spezzando la breve e lugubre quiete “Forza! Non pensate a me! Sono stato io l’artefice di questo, è colpa mia e ne sono fiero! Sono fiero di morire! Ricordatelo! Ricordando anche me… aggiunse sottovoce. Amoroso sangue, sanguinoso amore.
Mikasa, Armin, Connie, Jean non fecero in tempo a muoversi che i movimenti e le grida di Eren riscossero il gigante che lo vide nuovamente come una preda e lo ingoiò. Gli occhi di giada di Eren non videro più la luce.
La saliva salmastra lo ricoprì velocemente, gli ustionò le membra, i possenti canini gli lacerarono la pelle. Il dolore era insopportabile ed era cosciente che l’agonia sarebbe stata lunga quanto quella del suo carnefice, così, con il volto ricoperto di pianto bruciante ripercorse nella sua mente, i ricordi e le immagini più belle.
Parte di essi non erano nient'altro che fotografie vedute per un attimo, sotto lo sguardo severo di Levi, ma che aveva conservato intatte come preziosi relitti. Ecco che rivedeva allora, dopo le persone amate, la creatura poggiata sulle rocce bianche, lambite dall'acqua, e dietro di lei, le conifere, le pinete, i pesci variopinti delle isole australi, i coralli, le lagune, gli abissi e i flutti, i monti, i colli impazziti di luce, gli uccelli che gridavano follemente, dolcemente.
E infine i freddi occhi grigi di Levi che gli mentivano allontanandosi in una fugace smorfia.

La testa del gigante cadde con un boato sotto la lama di Mikasa, e, appena la decomposizione lo rese possibile, gli furono spalancate le mascelle: sulla lingua ormai secca, dall'odore ormai acre, giaceva squartato il corpo di Eren, con gli occhi ancora orribilmente dilatati, in attesa di ciò che non vide mai.
Udendo un pianto quasi unanime, sovrastato dai singhiozzi della ragazza, i membri del gruppo sollevarono, adagiarono e avvolsero la spoglia in un telo, tornando verso la città.
Era calata la sera. Come quasi ogni giorno, un'ora dopo il tramonto, i corpi delle vittime furono esposti nella piazza dai mosaici ormai sbiaditi, dove lentamente veniva alzata una grande pira funebre.
Arrivato sul posto, Levi si preoccupò di esaminare le vittime, in modo da effettuare il più rapidamente possibile il riconoscimento con i familiari. La pira era ormai ultimata quando giunse al nono cadavere. Si guardò dietro di sé e scorse Mikasa, Armin, disperati, ed altre persone che conosceva fin troppo bene.
Allora si chinò e scostò con delicatezza il telo che ne copriva il volto. Le sue palpebre si serrarono. Una lacrima scivolò lentamente sulla gota marmorea mentre chiuse per sempre i grandi occhi verdi di Eren.
Sotto lo sguardo di Erwin, i soldati delegati iniziarono a deporre i cadaveri uno dopo l'altro sulla pira, l'aria fu presto arsa dal fuoco. Rapidamente fu il turno della nona vittima ma furono fermati bruscamente, allora si proseguì con gli altri mente quest'ultima fu allontanata.
Attese in un angolo che tutti, a sua eccezione, ebbero pianto e congedato per sempre il giovane, fissando l'orizzonte irritato, a braccia conserte.

Qualche ora prima della mezzanotte, quando tutte le altre spoglie furono bruciate, i rari passanti poterono vedere un uomo di bassa statura, dal portamento elegante ma dalla dignità spezzata, benché nascosto dalla notte, che sollevava un giovane corpo da terra e lo deponeva su un cumulo di frasche, dandogli lentamente fuoco. Altre figure piangenti si stagliavano alle sue spalle.
Le uniche due donne che passarono notarono con stupore l'impercettibile premura che l'uomo aveva nel maneggiare quel cadavere e,un poco commosse, vi si riconobbero, poiché era simile a quella che avevano avuto nell'abbandonare i propri figli alle stesse fiamme.
Alcuni studiosi che si diressero casualmente nella piazza notarono uno strano odore e dei fogli scuri che crepitavano ancora attorno al focolare spento. Erano fotografie.
Presto furono allontanati dallo stesso uomo, semplicemente con lo sguardo. Così proseguirono imperterriti il loro cammino mente questi si chinava per raccogliere le calde ceneri da terra.

   
 
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