Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: StarCrossedAyu    08/08/2018    0 recensioni
Camminavo per quelle lande desolate da tempo immemore.
Ero vuoto, solo e tremendamente insoddisfatto.
Il mio nome è Levi Ackerman e questa è la storia di come ho ottenuto il potere sullo scorrere del Tempo.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eren Jaeger, Levi Ackerman
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Lo Scorrere del Tempo

Quando vivi attraversando i secoli, il cuore è la prima cosa che si inaridisce: man mano che le lune si susseguono, che gli affetti muoiono, raggrinzisce come una prugna secca al punto tale da renderti insensibile. Non vi è più nulla a cui vale la pena legarsi, perché anch'essa perirà trascinando con sé l'ennesimo pezzo della tua anima immortale.

L'unico essere che non è mai caduto nell'oblio è la Fenice che ho creato: viveva per anni, raggiungendo infine il limite ultimo della propria esistenza, perendo e bruciando per poi nascere nuovamente dalle proprie ceneri. È così che mi ha seguito ovunque io fossi diretto, fedele compagna nel mio lungo ed interminabile viaggio. Non aveva un nome. Darglielo avrebbe significato provare per lei un sentimento.

Non provavo più nulla da tanto ormai.
Solo un'immensa, profonda solitudine.
Disprezzo per tutto ciò che era terreno, perché destinato a svanire per poi essere dimenticato. Non ne sarebbe rimasto che un vago ricordo, sbiadito col trascorrere del tempo.

Tempo.

Tanto a mia disposizione. Troppo.

Se solo avessi potuto ghermirlo.
Se avessi potuto riavvolgerlo.
Se avessi potuto fermarlo.

Nacque nuovamente in me il desiderio di possedere qualcosa e fu così che, grazie ai miei poteri, spalancai le porte dell'infinito.

Dinanzi a me una figura si erse, evanescente e dall'aspetto vagamente umano. I suoi tratti erano indefiniti e l'unico particolare vivido erano i suoi occhi, verdi come smeraldi. In quelle iridi si riflettevano i segreti dell'esistenza, la profondità del cosmo.

Avevano assistito alla nascita del mondo, e probabilmente avrebbero assistito anche alla sua fine.

«Cosa vuoi, Stregone?» La sua voce giunse nitida alle mie orecchie, provenendo da ogni dove.

Strinsi i pugni, urlando attraverso i venti che sferzavano il mio viso.

«Il controllo sul tempo!»

«Sei già immortale.»

«Lo sono, è vero. Destinato a millenni di eterna solitudine. Concedimi il dono di fermare il suo scorrere impietoso, te ne prego, affinché qualcuno stia al mio fianco e possa alleviare il mio tormento.»

Il Tempo mi guardò e sentii la sua essenza attraversarmi, scavando a fondo nella mia anima.

«E sia. Ti concederò il controllo su di esso. Da qui a un anno sarai in grado di poterlo manipolare a tuo piacimento, ad una condizione ed una soltanto.»

Una luce mi avvolse e tra le mie braccia apparve un piccolo fagotto, caldo e morbido. Era un bambino dagli occhi di giada, attraverso i quali potevo scorgere la complessità dell'universo stesso.

«Dovrai prenderti cura di questa creatura. Essa crescerà e con lei il tuo potere, che sarà completo ed assoluto su ogni essere vivente, fino alla vostra separazione a un anno esatto a partire da oggi.»

Un mero istante e fui nuovamente scaraventato nella landa in cui avevo aperto il portale. La Fenice si posò sulla mia spalla, osservando ciò che avevo riportato con me.

Il bambino mi guardava con i suoi grandi occhi color smeraldo, sorridendomi e mostrandomi le sue gengive rosse.

Un anno con lui ed avrei avuto il pieno controllo sullo scorrere del tempo. Avrei dovuto dargli un nome...?


"Eren"

"Eren"

"Eren"


"Eren"

"Eren"

Milioni di voci, eppure una sola, sussurrarono al mio cuore.

«Benvenuto al mondo, Eren. Io sono Levi, e sarò il tuo maestro.»

-

Eren crebbe velocemente, con mio grande stupore. Pochi furono i giorni in cui ebbe bisogno di essere cambiato ed accudito con costanza, imparando ben presto a camminare ed essere più autonomo. Da una notte all'altra spuntarono tutti i dentini da latte, consentendomi di nutrirlo con cibi diversi dal solo latte vaccino.

Non ero mai stato un tipo di molte parole e, trascorrendo le mie giornate in solitudine con la sola compagnia della Fenice, all'inizio mi è stato molto difficile trovare argomenti di conversazione. Non che servissero ad instaurare un dialogo, ma per destare la sua mente in via di sviluppo.

Stimolavo la sua vista con piccoli giochi di colori, bolle luminose che il pargolo si divertiva a far scoppiare con le sue dita paffute. Intarsiavo piccoli oggetti di legno per il tatto perché, nonostante potessi crearne di perfetti a mio piacimento, farlo manualmente avrebbe dato alla miniatura quelle irregolarità che i suoi sensi necessitavano per progredire. Per l'udito e l'immaginazione gli raccontavo delle origini del mondo, di come le entità che lo governavano avevano plasmato terre e cieli, consentendo a uomini ed animali la vita.

Nonostante l'unica occasione in cui l'avessi pronunciata fosse stata durante il nostro primo incontro, la prima parola che le labbra di Eren scandirono fu per me totalmente inaspettata.

«Li-vaaaai!», cantilenò, correndomi incontro con la sua andatura barcollante per poi aggrapparsi alla mia gamba, guardandomi coi suoi occhioni pieni di meraviglia. Sono certo di non averlo dato a vedere e che la mia espressione stoica sia rimasta invariata, ma sentii un lieve tepore all'altezza del petto che mi lasciò basito.

In poche settimane, Eren acquisì l'aspetto e le caratteristiche di un bambino di un paio d'anni. Il mio stile di vita isolato mal si addiceva ad una creatura di quell'età.

Aveva bisogno di interagire con i propri simili, giocare ed apprendere le basi sociali, per cui abbandonammo la mia dimora per dirigerci al centro abitato più vicino.

Creai, poco al di fuori del villaggio, una struttura simile a quelle dei paesani. Lontani abbastanza da non dare nell'occhio, vicini a sufficienza per permettere al moccioso di creare dei legami con altre persone.

Al mattino, mano nella mano, ci recavamo in paese per acquistare beni di prima necessità, un modo come un altro affinché entrasse in contatto con il prossimo.

Camuffavo il mio aspetto con un incantesimo di volta in volta perché, con la crescita veloce e costante di Eren, sarebbe parso strano agli occhi dei locali vedere lo stesso uomo con un bambino "diverso" ogni giorno. Così assumevo le fattezze di un anziano signore, una massaia o un giovane garzone a seconda delle commissioni da svolgere.

Eren giocava con i coetanei man mano che cresceva, ed io provvedevo alla sua istruzione tra le mura domestiche: la sua straordinaria voglia di conoscenza e velocità di apprendimento erano fuori dal comune, regalandomi immensa soddisfazione. Nonostante le sue origini mistiche, eccezion fatta per il suo rapido sviluppo psico-fisico, non possedeva alcuna dote magica o potere particolare.

Persino le piccole ferite ed escoriazioni che si procurava guarivano nei tempi di un comune mortale qual era.

Ci concentravamo sulla lettura, scrittura, brevi nozioni storiche e piccoli esperimenti alchemici nei quali, ahimè, non eccelleva: non erano rare le occasioni in cui il composto esplodeva, sporcandogli viso e indumenti, costringendomi a lavarlo da capo a piedi sotto lo sguardo attento della Fenice che non lo perdeva d'occhio neanche un attimo. L'animale si era legato al bambino, intrattenendolo in riva al fiume o facendosi rincorrere lungo i campi di grano che circondavano la nostra casa. Le risa di Eren riempivano i silenzi, deliziando le sue orecchie ed anche le mie.

Un giorno, mentre ne accarezzava le piume scarlatte, Eren mi pose una domanda.

«Perché non ha un nome, Signor Levi?»

Sollevai lo sguardo dal libro che tenevo in grembo.

«Non ho mai voluto dargliene uno.»

«Perché?»

«Si da un nome alle cose a cui ci si affeziona, Eren.»

«Vuol dire che, se dovesse volare via, non ne sentireste la mancanza?»

Tacqui, non sapendo cosa effettivamente rispondere. Per quanto mi considerassi insensibile non ero comunque un bugiardo, ed avrei palesemente mentito affermando che, al verificarsi di una simile eventualità, non ne sarei rimasto dispiaciuto. La Fenice, quasi intuendo i miei pensieri, si posò sul mio braccio, strofinando il capo piumato sul mio viso.

«Io le sono affezionato. Posso darle un nome, Signor Levi?»

Mi concessi qualche istante per riflettere, prima di annuire. Eren sorrise, luminoso come non mai, saltandomi in braccio e raggiungendoci.

«Da oggi ti chiamerai Isabel!»

L'animale fremette, entusiasta, emettendo un verso acuto per poi librarsi in volo, lasciando scie infuocate al suo passaggio.

«Signor Levi, voi avete scelto per me un nome. Vuol dire che mi siete affezionato?», chiese Eren emozionato, dondolandosi avanti e indietro incapace di star fermo.

Con naturalezza, senza rendermene conto, le mie dita trovarono i suoi capelli castani in eterno disordine, carezzandoli piano.

«Può darsi», fu tutto ciò che riuscii a dire.

-

I dentini da latte vennero sostituiti da quelli permanenti nell'arco di una settimana. Accompagnato da Isabel, celata sotto l'aspetto di un cane per il pascolo, Eren aveva iniziato a recarsi in paese senza di me.

Avevo acquisito il controllo del tempo per ciò che concerneva la flora: facevo fruttificare gli alberi a mio piacimento, germogliare le piante, sbocciare i fiori. Potevo tramutarli nuovamente in semi, oppure farli appassire trasformandoli in concime, restituendoli alla terra da cui erano nati.

Mi stavo dedicando a padroneggiare quella nuova abilità quando vidi Eren, sporco e con le vesti strappate in più punti, correre in casa.

Ora aveva l'aspetto di un bambino di circa otto anni. Si strofinava rabbiosamente il viso, mentre mi superava sfuggendo al mio sguardo indagatore. La Fenice, sciolto l'artificio, si appoggiò sulla mia spalla, triste ed affranta. Seguii il moccioso all'interno dell'abitazione, dirigendomi immediatamente verso la sua stanza chiusa a chiave.

«Eren. Apri la porta.»

«Non voglio che mi vediate così...!»

«Così come, sporco?»

«... Sconfitto.»

Restai perplesso nell'udire quell'affermazione.

«Hai fatto a pugni?»

«I-io...! Non volevo, ma loro non la smettevano di prendermi in giro!»

«Perché?»

«Mi chiamavano 'stupido orfano' per via del fatto che non ho la mamma né il papà. Dicevano che sono un povero disgraziato, per questo mi hanno abbandonato alla nascita. Non mi volevano.»

Cercai le parole più adatte per rincuorarlo, incerto su cosa fare. Per Eren era normale il fatto che io praticassi la magia, che il suo corpo si sviluppasse così velocemente e che avessi una Fenice come animale da compagnia, ma nulla di tutto ciò era comune in realtà. Gli Stregoni erano temuti, odiati, scacciati dalla società.

Se gli avessi detto che era una creatura nata per soddisfare un mio egoistico capriccio, avrebbe capito?

Restai lì impalato, quando la porta si aprì ed un fulmine coperto di polvere e terriccio si fiondò tra le mie braccia, sorprendendomi.

«A me non importa se sono stato abbandonato. Mi avete preso con voi, e siete molto meglio di qualunque genitore potessi mai desiderare», mormorò col viso nascosto sul mio addome, stringendomi forte. «Vi voglio bene, Signor Levi.»

Restammo così, immobili, e mi sentii un vero e proprio fallimento: alla fine con poche, semplici parole, era stato Eren a consolare me.

-

Nei giorni seguenti, decisi di insegnargli le tecniche basilari di caccia. Il cibo certo non ci mancava, considerando il fatto che potevo manipolare il ciclo vitale di intere piantagioni, tantomeno il denaro, grazie all'alchimia che mi permetteva di tramutare pietre in oro.

Sentivo comunque la necessità di renderlo indipendente come un qualunque essere umano, nonostante le sue origini. Magari, di lì a un anno, avrebbe proseguito lungo il sentiero su cui lo avevo indirizzato e volevo far sì che padroneggiasse tutto ciò che poteva essergli utile.

Le nostre strade si sarebbero divise, ma non lo avrei lasciato inerme di fronte le crudeltà della vita.

Ci dirigemmo nel bosco più vicino e gli insegnai a distinguere le impronte degli animali, il cinguettìo degli uccelli, quali fossero le bacche commestibili e quali invece fossero velenose.

Su questo Eren mostrò grande talento e predisposizione, assorbendo ogni nozione con avidità e sfruttandole in maniera saggia e intelligente.

Pochi giorni e catturava conigli con la stessa facilità con cui correva. Una settimana dopo scoccava frecce con precisione disarmante, centrando sempre il bersaglio designato.

Era un cacciatore nato.

«Signor Levi, voi lo avete un cognome?», mi chiese, seduto su di una roccia mentre masticava un rametto di liquirizia. Mostrava all'incirca dieci anni, il suo corpo si allungava e i suoi tratti perdevano lentamente le caratteristiche della prima infanzia, assumendo quelli di un giovane adolescente.

«Sì. Ackerman.»

«Chi ve lo ha dato?»

«Mio padre.»

«Erediterò il vostro, allora?»

Lo guardai a lungo, riflettendo se quella fosse una scelta saggia.

«Non sono tuo padre, Eren.»

«Allora non avrò mai un cognome...», rispose mogio.

«Non è detto. Posso dartene uno, anche se non è il mio.»

«Davvero?» Saltò giù dal masso in preda all'entusiasmo.

Ponderai con cura la parola che avrebbe potuto tramandare ai propri figli, e scelsi. Una lingua arcaica, ruvida, poco usata in quelle terre.

«Jäger. Vuol dire 'cacciatore'.»

Eren mi sorrise e, come spesso mi capitava nell'ultimo periodo, mi persi ad osservare le sue magnifiche iridi che custodivano il cuore delle stelle.

«È perfetto! Grazie!», disse, stringendo al petto il proprio arco come fosse un tesoro.

-

Erano trascorsi poco più di cinque mesi, dal giorno in cui avevo varcato il portale delle Dimensioni. Dal giorno in cui Eren era stato affidato alle mie cure.

Mai una volta si era ribellato a me.

I suoi occhi però, quel giorno, parlavano di rabbia. Di tradimento.

Aveva trovato, tra i tomi che custodivo nella mia libreria, un diario in cui annotavo i suoi progressi: le sue abilità e la sua sorprendente crescita, la quale era parallela all'aumento del mio controllo sullo scorrere del tempo.

Più Eren si avvicinava all'età adulta, più il potere aumentava.

Non ero ancora pienamente consapevole di cosa avrebbe significato, ma quegli appunti furono più che sufficienti a svelargli le sue vere origini.

«Mi hai mentito!»

Eren mostrava tredici anni e per la prima volta si rivolgeva a me con modi sgarbati. La sua devozione nei miei confronti era svanita, sostituita dal disprezzo.

«Non l'ho fatto. Semplicemente, ti ho celato la verità.»

«Hai detto che mi avevano abbandonato!», urlò, gettando all'aria tutte le pergamene sulla mia scrivania.

«Sei stato tu a trarre questa conclusione. Il mio compito è quello di prendermi cura di te.»

«Come...? Riempiendomi di menzogne? Cosa sono io, in realtà? Un mostro...?»

Non ebbi il tempo di rispondergli. Come un fulmine spalancò la porta, correndo lontano da casa. Lontano da me.

Dopo secoli, sentii una fitta di dolore squarciarmi il petto.

Isabel pigolò, un verso straziante, sbattendo furiosamente le ali mentre la figura del ragazzino spariva oltre la collina.

Eren era fuggito via, scosso e ferito, e qualunque cosa gli avessi detto non sarebbe bastata a giustificare la sua venuta al mondo.

Il Sole era calato. Nubi scure si erano addensate lasciando presagire un brutto temporale, e di Eren ancora nessuna traccia.

Camminavo per la stanza, indeciso se avventurarmi fuori correndo il rischio che tornasse e non fossi lì ad accoglierlo. A spiegargli il perché fosse nato, e a quale scopo.

Quando i primi fulmini squarciarono il cielo, afferrai il mantello e mi precipitai nella stalla. Sellai il mio cavallo - Farlan, lo aveva chiamato - e con Isabel a illuminarmi la strada mi lanciai al galoppo verso il bosco.

La pioggia non si fece attendere, e con essa la nebbia. Non fosse stato per la Fenice, che sfruttava al massimo la propria magia, non avrei visto a un palmo dal naso.

«Eren! Eren!»

Gridavo tentando di farmi udire attraverso la tempesta, ma non ottenni risposta. Più mi addentravo tra gli alberi, più le mie speranze di trovarlo si affievolivano.

«Eren! Er-»

Con un nitrito Farlan cadde rovinosamente in un burrone, il terreno che cedeva sotto i suoi zoccoli.

Quando riaprii gli occhi la povera bestia era sofferente al mio fianco, infreddolita. Respirava a fatica, la zampa spezzata.

Non sprecai tempo nel controllare in che condizioni io fossi: ero immortale, non sarei morto in ogni caso, e qualunque ferita avessi riportato poteva aspettare. Concentrai le mie energie sull'arto dell'animale, tentando di riavvolgere il flusso del tempo e riportarlo al momento in cui era in perfetta salute.

Un tenue bagliore, il suono dell'osso che tornava al proprio posto, ed il cavallo si rimise velocemente in posizione eretta passandomi il muso tra i capelli bagnati.

Di Isabel nessuna traccia. Camminai alla cieca tenendo Farlan per le briglie, scorgendo finalmente la fiamma della creatura in lontananza. Non volava, sembrava poggiata su qualcosa.

Qualcuno.

Corsi, il terrore che si impossessava prepotentemente del mio essere, e mi lasciai cadere al suo fianco con le ginocchia nel fango.

Distesa, con le ali spiegate e la lunga coda a proteggerlo, tentava di scaldare Eren col proprio calore.

Il ragazzo era pallido e col viso graffiato, gli abiti pregni d'acqua e strappati in più punti. Tremante, presi la sua mano tra le mie: era gelata, ma respirava ancora.

«Eren! Rispondimi Eren!»

Provai a manipolare il tempo ancora una volta, senza successo: probabilmente non ero potente abbastanza, non quanto bastava da influenzare quello concesso agli uomini.

Mi sfilai il mantello, avvolgendovi il ragazzo e sollevandolo tra le mie braccia. La pioggia mi sferzava il viso, ma non aveva importanza: la vita di Eren era in pericolo e non potevo perdere un solo istante. Lo caricai sul dorso della mia cavalcatura cercando di essere il più delicato possibile, montando poi in sella.

Corremmo veloci più del vento, risalendo la scarpata, tentando di ritrovare il sentiero iniziale con Isabel che ci guidava.

Coi talloni spronavo Farlan urlandogli di aumentare l'andatura, e lo stallone esaudì la mia richiesta. Giungemmo a casa che ancora diluviava e mi precipitai all'interno con Eren esanime.

Lo privai dei vestiti fradici a causa del maltempo, controllando che non avesse nulla di rotto. Era pieno di tagli, vari ematomi probabilmente provocati da una caduta simile alla nostra, ma a parte quello sembrava fosse intero.

Lo ripulii dallo sporco, evitando che qualche ferita si infettasse applicando un medicamento curativo.

Le sue membra erano ghiacciate tanto quanto bollente era il suo corpo. La febbre era altissima, rischiando di consumarlo dall'interno ed ucciderlo.

Non potevo permetterlo.

Applicai delle garze imbevute di un composto fresco e idratante sui punti vitali, tentando di far calare la temperatura. Veniva ripetutamente scosso dai brividi, il volto rosso e imperlato di sudore, mentre gli tenevo la mano attendendo che la natura facesse il suo corso. Che il Tempo, che tanto avevo maledetto per avermi lasciato in quel limbo, accogliesse le mie preghiere.

Isabel, sul suo trespolo, non emetteva un singolo suono restando in religioso silenzio. Anche lei attendeva che il ragazzo aprisse gli occhi, chiamandola a sé per carezzarle il folto piumaggio.

Quando la febbre raggiunse il suo picco massimo, Eren iniziò a delirare. Farfugliava parole senza senso, quasi stesse dialogando con qualcuno. Già quello di per sé era straziante, ma fu quando invocò il mio nome che mi sentii morire.

«L-Le... -vi! Levi...! Dove...? N-non... -narmi...! Non -»

«Sono qui Eren, accanto a te! Resisti, ti prego...! Non lasciarmi...», lo supplicai, sperando che superasse quella notte perché, se lui fosse morto, non so quanto di me invece sarebbe sopravvissuto.

Il mattino dopo, il ragazzino aprì gli occhi. Si guardò intorno, spaesato, per poi fissarmi con le sue iridi smeraldine, brillanti e luminose.

«Signor Levi... Cosa è successo?»

«Non ricordi?», gli domandai stupito.

«N-no, io... Mi fa male dappertutto... Farlan mi ha disarcionato?»

«Quel cavallo ti adora, piuttosto che farti cadere mi calpesterebbe senza troppi problemi.»

Eren rise, debole e gracchiante, ma non riuscii ad esserne sollevato. Avevo rischiato di perderlo, e non avevo alcuna intenzione di correre nuovamente un simile rischio.

«Devo dirti una cosa», esordii. «Voglio raccontarti di come sei venuto al mondo.»

Fu così che, ottenuta un'inaspettata seconda possibilità, gli rivelai che era nato in risposta al mio egoismo. Che desideravo poter controllare il tempo in modo da non dover attraversare secoli di solitudine, ma avendo qualcuno al mio fianco. Che ci saremmo separati, ma che lo avrei sempre custodito tra i miei ricordi più preziosi.

Eren ascoltò, serio in viso, tutto quello che avevo da confessargli. Tacque, assimilando le nuove verità, ed io attesi: una sua risposta, un gesto, qualsiasi cosa.

«Esisto per merito vostro,» disse infine. «Vi devo la vita due volte, dopo stanotte. Grazie.»

Mi sorrise così dolcemente che mi odiai nel ricevere tanta gratitudine immeritata. Gli strinsi forte la mano, senza distogliere lo sguardo neanche un attimo.

«Tu non mi devi niente, al contrario. Sono io a doverti tutto.»

«Ma Signor -»

«Levi. Solo Levi.»

Quella notte avevo perso quello che credevo di considerare solo un allievo, scoprendo di aver invece ottenuto una famiglia.

-

Quel giorno sellammo il cavallo e, con Isabel che ci osservava dall'alto, seguimmo il fiume diretti verso l'oceano. Mi occorrevano delle erbe medicamentose che crescevano solo in prossimità delle rocce calcaree presenti sulla costa, e di alcuni minerali che si cristallizzavano nel sedimento sabbioso da utilizzare nei processi alchemici.

Eren, alle mie spalle, studiava il paesaggio circostante con curiosità, domandandomi di tanto in tanto il nome delle nuove specie animali che incontravamo sul nostro cammino.

Non aveva mai visto il mare e, data la sua indole indomita ed avventurosa, ero certo che ne sarebbe rimasto piacevolmente colpito.

Superati gli ultimi scampoli di vegetazione, un lieve vento dall'odore fresco e salino ci investì. Il suono delle onde che s'infrangevano sul bagnasciuga era rilassante.

Non feci nemmeno in tempo ad arrestare l'avanzata di Farlan che il ragazzo alle mie spalle balzò giù, affondando con gli stivali nella sabbia e rischiando di perdere l'equilibrio.

«Woah!»

Smontai a mia volta, assicurando le briglie ad un vecchio mezzo tronco, privandomi di calzature e mantello e incamminandomi con una sacca sulla spalla. Eren mi imitò subito dopo.

«È molto calda! E sottile, e bianca... Sembra brillare!», esclamò estasiato, arrotolando l'orlo dei pantaloni per evitare di bagnarli una volta in acqua. Vi si immerse fino alle caviglie, ammirandone la trasparenza, raccogliendo una conchiglia tra le mani.

Io restai in disparte, attendendo che terminasse la sua esplorazione e iniziassimo a cercare ciò per cui eravamo venuti.

Più lo guardavo, più mi tornavano alla mente le sue parole di appena qualche settimana prima.

«Cosa sono, in realtà? Un mostro...?»

La sua nascita di certo non era un evento comune così come lo scopo, a me ignoto, per cui era stato concepito. Bastava questo per definirlo un essere spaventoso?

«- oltre?»

«Eh?» La voce di Eren mi riscosse dai miei pensieri.

«Cosa c'è oltre?»

Il giovane puntava l'orizzonte, oltre il quale la distesa salata si perdeva. Le sue iridi brillavano, curiose ed attente, la sua domanda che permeava l'aria. Chiunque altro sarebbe rimasto semplicemente folgorato dall'oceano in sé ma non lui, che già immaginava luoghi inesplorati, montagne ghiacciate e laghi infuocati come nei libri che gli avevo mostrato.

Ne ero irrimediabilmente affascinato. Poteva davvero una creatura tanto preziosa e rara essere paragonata ad un abominio?

Restammo così, a scrutare la linea oltre la quale acqua e cielo si univano, e guardando il suo profilo ebbi l'assoluta certezza che Eren fosse un mostro dalla terrificante bellezza.

-

Ero seduto sul prato, al riparo dal Sole grazie alla folta chioma di un albero nei pressi della nostra nuova dimora, ed osservavo Eren.

Ci eravamo trasferiti nelle vicinanze dell'ennesimo villaggio per non destare troppa curiosità nei paesani.

Mostrava circa 16 anni. Era divenuto più alto, i capelli erano cresciuti dandogli un aspetto ribelle, il fisico era allenato grazie ai combattimenti corpo a corpo a cui lo sottoponevo ogni giorno. Le ragazze del luogo, ogni qualvolta attraversavamo la piazza principale, sospiravano sognanti.

Era bello, Eren, come pochi altri: affascinante, intelligente, generoso col prossimo, dai modi gentili eppure forte e deciso.

«Levi!»

Sul dorso di Farlan, mi salutò sollevando una mano, le ciocche castane mosse dalla leggera brezza e gli occhi che brillavano come pietre preziose.

Seppur ancora sorprendente, la sua crescita era sensibilmente rallentata. Mancavano pochi mesi alla nostra separazione, ed io controllavo con maestria lo scorrere del tempo di fauna e flora. Per ciò che concerneva l'essere umano, ero ormai certo che lo avrei padroneggiato molto presto.

Gli sorrisi. Erano anni che il mio viso non assumeva una simile espressione, ma con lui era facile come respirare. Inizialmente mi ero chiesto il perchè, quando per decenni nulla suscitava in me altro che indifferenza. La conclusione a cui ero giunto era forse scontata, eppure la più logica.

Ero innamorato.

Amavo Eren in un modo che non credevo possibile, nemmeno lontanamente concepibile.

Lo avevo nutrito, cresciuto, educato al meglio delle mie possibilità per ottemperare all'obbligo che mi era inizialmente stato imposto. Per quanto gli fossi legato, comunque, non lo avevo mai considerato un figlio e - nonostante io non sappia dire esattamente quando - gradualmente non ho più visto un adolescente a cui badare, bensì il giovane uomo in cui si stava trasformando.

Osservavo ogni particolare, ascoltavo attentamente ogni sua parola, e quella sensazione che scaldava il mio petto non faceva altro che espandersi ed acuirsi.

Il modo in cui rideva, l'espressione concentrata nel tendere l'arco mentre puntava la sua preda, il colorito caramellato della sua pelle, la sua voce che diventava più profonda. Persino le minuzie, come il piccolo neo che aveva sul collo, mi erano estremamente care.

Nascondevo gelosamente quei sentimenti dentro di me. Allo scadere del nostro anno insieme avrebbe potuto scegliere la sua strada, cosa fare della propria vita, persino una compagna con cui condividerla. Il pensiero che si sentisse in dovere di restare al mio fianco, prigioniero del mio ennesimo capriccio, era per me aberrante.

Avevo sempre vissuto seguendo le mie regole e desideravo che lui facesse altrettanto.

Osservai la sua figura rientrare in casa dopo aver legato la cavalcatura nella stalla, e ripresi a leggere il libro che tenevo in grembo.

«Levi!!»

Stavolta il suo tono non era allegro, ma spaventato.

Corsi dentro, trovandolo nella sua stanza accucciato accanto ad Isabel, distesa sulle assi in legno del pavimento. Respirava a fatica, le piume scolorite, lo sguardo assente. Sapevo esattamente cosa sarebbe accaduto di lì a poco.

«Aiutala, ti prego!»

«Non posso, Eren.»

«Sta morendo! Riavvolgi il tempo!», mi supplicò, gli occhi resi lucidi dalle lacrime a stento trattenute.

«Il suo ciclo è diverso da quello degli altri animali. È giunto il suo momento.»

In quell'istante, Isabel esalò il suo ultimo respiro. Restò ferma, immobile, ed il suo corpo prese fuoco sotto lo sguardo attonito di Eren, lasciando solo un mucchietto di cenere.

«No... No!» Gridò, battendo i pugni al suolo e digrignando i denti. Mi chinai accanto a lui, poggiandogli una mano sulla spalla.

«Osserva, Eren.»

Dal cumulo grigio, una piccola piuma scarlatta fece capolino, seguita immediatamente da una testolina arruffata.

Con le piccole ali si liberò della fuliggine, sbattendole ripetutamente e pigolando. Ancora una volta, Isabel era rinata dalle proprie ceneri, pronta ad affrontare una nuova esistenza e così all'infinito, al mio fianco.

Eren, stupito e col volto rigato dalle lacrime, la fece zampettare sui suoi palmi aperti, osservandola da vicino.

«Lei è...»

«È una Fenice. È ciò che di più vicino all'immortalità io sia riuscito a creare», dissi malinconico.

«Vorrei essere come lei e poter rinascere un domani, per restarti accanto.»

A quelle parole, il cuore che credevo avvizzito prese a pompare velocemente.

«Hai la tua vita, Eren. Io sono uno spirito dannato, e tu un ragazzo pieno di energie. Usale come meglio credi, non badare a me. Sono solo un povero vecchio, anche se il mio aspetto sembra quello di un uomo.»

Non attesi una risposta, né lo guardai in volto. Uscii dalla stanza, lasciandolo lì con la giovane Fenice, incamminandomi lungo il sentiero.

Mi sentivo stanco.

Continuavo a ripetermi che, da lì a poco, avrei avuto il potere che mi avrebbe permesso di ottenere la compagnia che per secoli avevo desiderato. Un'anima folle quanto bastava da anelare l'eterna giovinezza e trascorrerla con me.

Eppure, l'unica persona che volevo accanto era quella che sapevo per certo di non poter avere. Ancora una volta, il Destino mi aveva giocato un tiro mancino.

Sapevo con innegabile sicurezza che non avrei mai desiderato nessun altro che non fosse Eren, non ora che avevo scoperto di poter provare un sentimento tanto intenso.

-

Mancava poco. Contavo i minuti con morbosità, non sapendo cosa realmente aspettarmi.

Un anno.

Avevo sempre reputato ogni singolo giorno, prima di conoscere Eren, fin troppo lungo. Ne erano trascorsi ben trecentosessantacinque, ed erano letteralmente volati.

Il portale si sarebbe riaperto da solo? Eren sarebbe svanito, condotto altrove? Avrei avuto il tempo di salutarlo, di dirgli addio...? Di accarezzarlo un'ultima, straziante volta?

Con questi pensieri che affollavano la mia mente passeggiavo lungo il fiume. Il mio protetto cacciava poco distante dilettandosi con l'arco, consapevole che non avevo più nulla da insegnargli.

Poi in lontananza scorsi una figura distesa a riva. Se la posizione non fosse stata oltremodo innaturale, chiunque avrebbe detto che stesse dormendo. Una giovane fanciulla, dai lunghi capelli biondi, giaceva lì.

Morta.

Il viso cinereo, le labbra viola, le vesti sporche e strappate. Probabilmente era annegata e le acque erano state clementi abbastanza da riportare almeno il suo corpo a galla, offrendo alla sua famiglia la possibilità di darle una degna sepoltura.

Le spostai i capelli dal volto. Era davvero bella. Forse...

Mi concentrai, tentando di agguantare il flusso del suo tempo ormai giunto al termine. Di riavvolgerlo, affinché la sua pelle si tingesse nuovamente di rosa e il suo cuore tornasse a battere.

Un bagliore la avvolse e riprese colore, gli abiti tornarono immacolati, il suo petto che si alzava ed abbassava. Lentamente aprì gli occhi rivelando due magnifiche iridi, azzurre come il mare.

La sua bellezza era disarmante e, per un istante, pensai che forse sarebbe stata la compagna perfetta in quel mio viaggio senza fine. Il volto di Eren era però indelebilmente marchiato a fuoco nella mia anima, e sapevo che non vi era alcuno spazio per nessuno all'infuori di lui.

Uno stridìo straziante squarciò l'etere. Isabel gridava, chiamandomi a gran voce, e sapevo bene che l'unica cosa che potesse farla agire in tale maniera aveva un nome.

Eren.

Lasciai lì la ragazza, ancora stordita e incredula, correndo a perdifiato nella direzione da cui proveniva il suono. Quando li trovai mi sentii gelare.

Farlan tentava di svegliare il ragazzo riverso a terra col suo muso umido, mentre Isabel sbatteva freneticamente le ali come a sollecitarmi.

«Eren! Cos'hai?! Eren!»

Il giovane rimase incosciente e, caricato sul cavallo, galoppammo verso casa. Lo portai dentro, adagiandolo sul letto, e mi sembrò di rivivere quella notte infausta di mesi prima. Allora avevo pensato che non potevo perderlo. La realtà, ora, era che non volevo.

Perché stava male? Cos'era accaduto? Non era ferito e, apparentemente, sembrava in salute. Poche ore prima mi aveva salutato, dicendomi che quella sera avremmo mangiato stufato di cervo.

Un pensiero attraversò la mia mente ed il terrore, come un fulmine, mi sconquassò da capo a piedi.

Avevo inconsapevolmente attinto al flusso temporale di Eren ogni singola volta che avevo usato il mio potere.

Il ragazzo era un semplice contenitore, creato dal Tempo stesso affinché imparassi a padroneggiare gradualmente quell'abilità. La sua crescita che rallentava mentre il mio potere andava invece rafforzandosi... Sgranai gli occhi, dilaniato dallo sgomento.

Avevo usato il mio talento sulla giovane per riportarla in vita e così facendo avevo fatalmente privato Eren delle ultime scintille mistiche a sostenerlo. Poco a poco, giorno dopo giorno, lo avevo ucciso.

Provai a riavvolgere il tempo, restituirgli la linfa che gli avevo inconsciamente sottratto. Fallii miseramente.

«No... NO!!»

Lasciai il suo capezzale, deciso a tentare l'impossibile per far sì che vivesse. Uscii fuori e, incurante del fatto che qualcuno avrebbe potuto vedermi, diedi fondo a tutte le mie energie. Coi palmi al suolo che si frantumava sotto i miei piedi, aprii il portale delle Dimensioni.

Ancora una volta, circondato da venti impetuosi, mi trovai dinanzi al Tempo stesso.

I suoi occhi verdi, custodi di mille segreti, mi scrutavano curiosi.

«Cosa vuoi, Stregone?», mi chiese ancora una volta.

«Eren sta morendo!»

«Lo so», mi disse. «Tornerà a far parte del grande flusso da cui è nato. Tornerà a casa.»

«La sua casa è sulla Terra!»

«La sua casa è con suo padre, con me

Il respiro mi si mozzò in gola.

Eren era il figlio del Tempo.

«Perché dargli la vita, per poi lasciarlo morire...?»

«È il destino di ogni essere vivente, Stregone. Tornerà qui, arricchito delle esperienze terrene e dei propri ricordi, dando un contributo all'universo stesso.»

«Ha avuto poco tempo!»

«O forse sei tu ad averne troppo...?»

Era da lì che tutto era partito, il mio stupido egoismo.

«Non desidero più il tuo potere! Riprendilo e restituisciglielo!»

Il Tempo sembrò rifletterci un istante.

«Non posso», disse infine. «Quel flusso non è più puro, perché è stato manipolato.»

Le mie gambe cedettero. Avevo ucciso l'unica persona che avevo amato e la consapevolezza che gli sarei sopravvissuto, annientato dal suo perenne ricordo, era troppo da sopportare.

«Prendila, ti prego...»

«Cosa?»

«La mia immortalità. Prendila. Liberami da questo fardello.»

«Perché mai dovrei farlo?»

«Perché non ha senso vivere una vita senza colui che amo. Prendila, affinché possa morire per seguirlo.»

Fissai il Tempo e la sua figura evanescente, pregando che accogliesse la mia supplica. Se non potevo vivere in un mondo in cui c'era Eren, almeno sarei morto con lui.

«La tua immortalità è un flusso immacolato. Posso infonderla in lui, ma verrà tramutata in un arco temporale terreno, esattamente come sarà da ora in poi il tuo.»

La speranza gonfiò il mio cuore.

«Fallo, ti scongiuro!», lo implorai e sentii una parte di me svanire, dissolversi, lasciandomi con una sensazione di profondo vuoto.

La mia immortalità e il potere di governare lo scorrere del tempo mi erano stati sottratti ed aleggiavano dinanzi i miei occhi, bolle colorate e informi.

«Incontrerò presto mio figlio. In fondo, qui una vita mortale non è altro che un battito di ciglia. Saprò attendere. Nel frattempo, abbi cura di lui.»

Mi ritrovai nel cratere che si era formato, nell'aprire il portale, fuori la mia dimora. Incespicando, corsi in casa sperando che il Tempo avesse tenuto fede alla parola data.

Il letto era vuoto.

Mi lasciai cadere mentre la disperazione si faceva largo nel mio cuore, pronta ad ingoiarlo in un sol boccone cibandosene con cupidigia.

«Levi...? Che ti prende?»

Mi voltai ed Eren era lì, dietro di me, che reggeva un bicchiere d'acqua guardandomi perplesso.

Mi gettai su di lui facendo cadere entrambi, il liquido trasparente che bagnava il legno del pavimento irregolare e scheggiato.

«Sei vivo...!» Le mie dita artigliarono i suoi abiti mentre il suo profumo mi riempiva le narici. «Credevo di averti perso...»

Le sue braccia mi avvolsero, stringendomi, il volto sul mio capo.

«Ero qui. Ti stavo aspettando.»

Con un nodo alla gola, presi un respiro profondo. Il momento inesorabilmente era giunto, quello in cui avrei dovuto lasciarlo libero come era giusto che fosse.

«L'anno a nostra disposizione è finito, Eren: puoi scegliere la tua strada, andare ovunque vorrai, trovare il tuo posto nel mondo. Puoi essere felic-»

Impiegai qualche istante per capire cosa stesse accadendo.

Le labbra di Eren, morbide e carnose, premevano sulle mie, sottili e screpolate. Teneva gli occhi ostinatamente chiusi, le palpebre serrate, mentre le sue mani scorrevano tra i miei capelli scuri.

Quando le sue iridi incontrarono finalmente le mie, la scintilla di universo che riluceva attraverso di esse era svanita. Era divenuto un mortale a tutti gli effetti e mi guardava incerto, titubante.

«L'unico posto in cui posso essere veramente felice è quello accanto a te, l'uomo che amo. Se lo vorrai, vivrò la mia breve esistenza al tuo fianco. Resterai giovane ed io diventerò vecchio, ma prometto che ti amerò fino alla fine dei miei giorni.»

Sorprendendo lui e me stesso lo baciai, impossessandomi della sua bocca come se ne valesse della mia vita, ed era esattamente così. Nulla mi avrebbe più separato da Eren.

«Sono un mortale ora, proprio come te. La mia pelle raggrinzirà e le mie gambe cederanno sotto il peso degli anni a venire, e non desidero altro che trascorrerli con l'unica persona che abbia mai amato negli ultimi cinque secoli.»

Eren mi sorrise, abbagliandomi come l'astro solare, ed io piansi. Una singola, unica lacrima, versata dopo un'eternità arida e solitaria. Con uno scintillìo cadde sulle nostre mani giunte, luminosa e brillante. L'ultima goccia di immortalità ivi contenuta abbandonava il mio corpo, intaccando i flussi del nostro tempo terreno e allungandoli di qualche decade.

Forse non saremmo invecchiati così presto...

-

Vivevo un'esistenza pacifica.

Nonostante i miei poteri di Stregone fossero rimasti intaccati, io ed Eren costruimmo - asse dopo asse e tegola dopo tegola - la nostra dimora. Era calda, accogliente, dall'aspetto grezzo ed imperfetta. Esattamente come la volevamo.

Non ci mancava nulla e, anche se così fosse stato, il sentimento che ci univa bastava a compensare qualunque penuria materiale.

I primi acciacchi, dopo secoli di salute invidiabile, iniziarono a farsi sentire ma non quanto bastava da farmi mettere al tappeto dal mio compagno durante i nostri allenamenti quotidiani. Le giornate trascorrevano così tra battute di caccia e pesca, lunghe passeggiate e vita di paese.

Avevamo sperimentato, entrambi per la prima volta, l'amore carnale e quell'atto aveva solo contribuito a legare le nostre anime in modo indissolubile. Eren era un amante attento, premuroso, intraprendente ma allo stesso tempo bisognoso di coccole ed avido di piacere.

Ci completavamo a vicenda, in un mondo dove ogni istante era prezioso ed ogni parola, tocco e respiro era qualcosa da custodire gelosamente.

Osservavamo il tramonto sulla collina, all'ombra di un albero secolare, con Farlan che pascolava poco distante ed Isabel appollaiata su di un ramo.

«Levi...»

«Mh?»

«Avresti preferito rimanere immortale?», mi chiese, il suo tono serio. «Se non mi avessi salvato, avresti potuto vivere per sempre...»

Allungai una mano sul manto erboso, trovando la sua e stringendola con tenera decisione.

«Non rimpiango un singolo giorno di aver rinunciato all'eternità. Avrei barattato mille anni in cambio di un tuo sorriso. La mia vita non avrebbe senso senza di te, Eren. Ti amo più di quanto potrò mai esprimere a parole.»

Eren mi guardò coi suoi magnifici occhi verdi che ora custodivano la grandezza del nostro amore. Mi baciò e, attraverso di lui, vidi come saremmo cresciuti, invecchiati. Come saremmo morti ma, soprattutto, come saremmo vissuti.

Amandoci fino al nostro ultimo respiro e anche dopo, attraverso lo scorrere del tempo.

   
 
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