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Autore: Damnatio_memoriae    10/08/2018    0 recensioni
Facciamo un gioco, un gioco pericoloso. Facciamo che un oste, che chiameremo Ambrosius, scrive quello che sta accadendo ai suoi sfortunati avventori. Facciamo che alla locanda del Canide Sdentato nessuno è più al sicuro da un pezzo, perché ci sono gli uomini e ci sono loro, i licantropi, che vogliono qualcosa. Qualcosa che nemmeno il nostro Ambrosius ancora conosce. E facciamo che non è tutto come sembra, perché neanche le mura più solide possono proteggerci da un pericolo che si è già infiltrato. Che poi chi l’ha stabilito che gli uomini sono gli alleati e i lupi i nemici?
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La fame caccia il lupo dal bosco


 
Una grande agitazione colse gli ospiti del Canide Sdentato, quella sera. Fu una sensazione piacevole, di calda eccitazione più che di terrore, e ciascuno ringraziò silenziosamente il proprio Dio per aver portato in quella locanda almeno un’ostetrica.
Hanna, su ordine di Edith, riempì una tinozza di acqua e la mise a riscaldare sul fuoco, quindi corse per i piani ad ammucchiare quante più lenzuola possibili.
Vedendola così indaffarata, Lilith piegò la bocca in un ghigno beffardo e, per deriderla, le urlò: «Corri verginella, corri!», tra le risate generali dei suoi compari di brigata.
L’altra, sudata e rossa in viso – un po’ per l’imbarazzo, un po’ per la fatica – si arrestò all’istante e con un’aria che pensava potesse essere sufficientemente minacciosa domandò: «Perché devi essere sempre talmente maligna?».
«Non ti scandalizzare per così poco, ancora non è nulla».
«E’ abbastanza, invece. Ma tu non hai nessuna coscienza che ti suggerisca quando fermarti».
«Trovo solo divertente burlarmi di chi non sa stare agli scherzi».
«Bhe, trovati qualcun altro da sbeffeggiare, o io…».
«O tu cosa?». I lineamenti si inasprirono, oscurandole il volto, e negli occhi le balenò un guizzo che aveva un chè di perfido, ma solo Hanna lesse nella sua espressione la paura. Alzò le gambe e accavallò i piedi sul tavolo, le suole degli stivali ancora sporchi di fango dal turno di ronda.
Hanna dovette mordersi la lingua per non trasformare in parole i suoi pensieri. «Nulla» si limitò a dire, anche a costo di fare la figura della codarda.
«Bada ragazzina, non reagisco bene alle minacce, neanche a quelle a vuoto» concluse Lilith mentre la osservava sparire al piano di sopra.
La stanza di Odine - l’ultima che si affacciava sul corridoio - era alquanto povera di mobili e sull’unica cassapanca presente Ambrosius aveva acceso una lampara, la cui fiamma tremolante faticava però a illuminare l’ambiente. E forse era meglio così, se nemmeno la luna con le sue stelle si era osata a rischiarare la notte.
Al capezzale della partoriente, Edith non era la sola a temere per il peggio. La vecchia Nan, munita del suo bastone, se ne stava in disparte, la schiena ricurva poggiata al muro, gli occhi vitrei e lucidi che non lasciavano intendere che cosa stesse passando per la testa dell’anziana suora. Solo le labbra arricciate e una ruga profonda che le solcava la fronte erano il sintomo di tutta la sua angoscia.
Wera, una lavandaia da poco arrivata all’osteria del Canide Sdentato, teneva stretta tra le sue la mano di Odine, che per sopravvivere sentiva di doversi aggrappare con tutte le sue forze a qualcosa – o a qualcuno – come se attraverso quella stretta potesse uscirle dal corpo tutto il dolore che la stava lacerando. E non le interessava nemmeno che nella stanza fosse appena entrato, insieme ad Hanna, anche Jacob, un uomo, cosa inammissibile per il decoro dell’epoca. Che fosse dottore sarebbe importato poco se quella non fosse stata la situazione che era, cioè drammatica ed imprevedibile, e si sa che davanti alla morte la decenza conta poco, per non dire che vale nulla.
Edith, dal canto suo, poteva dire di non aver mai assistito ad un parto così difficile, triste coronamento di una gravidanza già iniziata nel peggiore dei modi e proseguita senza grandi miglioramenti. Nessuno era mai stato allontanato dal Canide Sdentato, con o senza giusta causa, e su questo Ambrosius era categorico. Vigeva nella sua amata locanda un’unica legge, che in fondo era la legge del mare, anche se il mare lì nessuno lo aveva praticamente mai visto. Alla mercè dei Mannari il Canide Sdentato non avrebbe mai lasciato un singolo uomo, assassino, tagliagole o il più schifoso e lurido criminale mai comparso sulla faccia della terra. Ma ad una condizione. E purtroppo per lui – e per Ambrosius, che aveva dovuto cacciarlo – Gerwin non l’aveva rispettata.
Era sempre stato un giovane dabbene, Gerwin. Un ragazzo puro, educato, gentile nei modi e nei pensieri, a detta di alcuni fin troppo ingenuo. Era fermamente convinto che la bontà, se praticata quotidianamente, sarebbe stata in grado di sconfiggere qualsiasi male, anche quello che si era abbattuto sulla bassa, quello stesso Male che aveva sbranato la sua famiglia, lasciandolo solo al mondo. Ma Gerwin non provava odio, non ne sarebbe stato capace. E questo, se lo aveva reso insopportabile agli occhi di qualche compagno più irruento e dedito all’azione (non certo votato al perdono), era invece bastato a far innamorare Odine.
Il desiderio di sposarla era nato in fretta in Gerwin, che aveva pertanto respinto con garbo le proposte della ragazza di non attendere il matrimonio. «Perchè» gli diceva lei «Perché il nostro amore, che è sincero così com’è, dovrebbe diventare meschino, impuro o innaturale se consumato senza una promessa fatta davanti a Dio? Il Signore lo sa già che non potrei mai esserti infedele o mancare di amarti anche solo per un giorno». Ma lui desiderava seguire le orme di suo padre, essere cioè un uomo d’onore, e così aveva fatto, riuscendo a convincere anche la sua promessa. Fino a quella tragica sera che tutti ricordavano. Come poter dimenticare lo sguardo sconvolto di Odine, il dolore e la vergogna che le avevano riempito gli occhi di lacrime mentre Dominic ed Edmund trascinavano lontano dal suo corpo un Gerwin che lei non riconosceva più?
«Come?!» gli aveva urlato «Come hai potuto farmi una cosa simile?».
«No! No!» continuava a ripetere il ragazzo, scalciando e strattonando «Lasciatemi dannazione, lasciatemi! Non ero io, non ero in me!».
Le donne presenti distoglievano lo sguardo, gli uomini lo seguivano con sdegno. «Risparmia il fiato, porco» sibilava qualcuno, «Adesso le feste le riceverai da noi» lo minacciava qualcun altro.
«No, no! Voi non capite! Odine, lo giuro sulla mia anima, su tutto quello che ho di più caro, su qualsiasi cosa, non ti avrei mai fatto del male, mai! Io non…».
«Sparisci dalla mia vista!» aveva singhiozzato lei, nascondendo il viso nell’abbraccio di Wera, che l’aveva coperta con il suo mantello.
«Tu mi conosci, devi credermi!» aveva continuato ad implorarla «Non ero io! Non sapevo quello che stavo facendo. Non erano i miei pensieri, non erano le mie mani! Odine, ti prego, ti prego!».
Ambrosius, per la prima volta nella vita, aveva dovuto indurire il cuore per racimolare la forza di cacciare Gerwin dalla sua unica casa: il nostro oste tollerava a stento il male che si annidava fuori dal suo uscio, ma che addirittura dei compagni si ferissero a vicenda, quello era inaccettabile. Ci pensava già il mondo a remar loro contro, non avevano certamente bisogno di aiutarlo!
Di Gerwin non si seppe più nulla, ma non c’era bisogno di ritrovarne il corpo per immaginare il destino che gli era toccato. In ogni caso, la pancia di Odine che si era fatta così tonda ed ingombrante non aveva lasciato spazio a dubbi su chi potesse essere il padre, ma nessuno aveva più accennato all’accaduto. Per Edith, poi, era già un miracolo essere arrivati all’ottavo mese, viste le condizioni pietose della madre: pareva quasi che la bambina che portava in grembo (la balia era certa che si trattasse di una femmina, vista la forma del ventre e dei sintomi dei primi mesi) le stesse rubando tutta l’energia che le era rimasta in corpo, che la stesse prosciugando lentamente e inesorabilmente della linfa vitale, come fanno certi cuccioli di serpente che hanno bisogno che la madre muoia per poter sopravvivere a loro volta. E tutto il sangue e il dolore a cui Edith e Jacob stavano assistendo in quel preciso istante in quella camera, non promettevano una conclusione differente.
Dovettero passare delle ore, lunghe e travagliate, prima che Odine riuscisse finalmente a mettere al mondo la sua creatura, sana, robusta e subito affamata. Hanna pianse di felicità e così tutti i presenti. Edith si preoccupò immediatamente di esaminare la bambina, mentre il dottore si occupava della madre.
«E’ viva? Sta bene?» chiese affaticata Odine, sforzandosi di allungare il collo per vederla.
«Sei stata bravissima, cara» la rassicurò l’ostetrica «E' forte come un puledro!».
Sorrise, visibilmente sollevata, ma ormai priva di forze. Con le ultime energie che percepiva avere in corpo bisbigliò: «Leandra. Si chiama Leandra».
«Leandra, sta bene» la assecondò Edith, avvolgendola nelle coperte. «La piccola Lea».
Jacob visitò Odine come meglio potè, ma non serviva essere dottori per capire che con tutto il sangue che aveva versato non doveva essergliene rimasto molto in corpo. La scrutò a fondo, tastandole addome e ventre, stranamente lividi, e quello che vide, poi, gli gelò il sangue nelle vene.
«Edith…» richiamò l’attenzione della donna con una voce tale da farle accapponare la pelle «L’ha divorata. L'ha divorata dall'interno».
«Cosa diavolo stai dicendo?».
«La sua pancia è vuota. Ogni organo è stato…».
Non gli permise di finire la frase, terrorizzata dalla sua intuizione: «Non dire scemenze!».
«Se non presti ascolto alle mie parole, forse crederai ai tuoi occhi».
La donna non fece in tempo ad avvicinarsi che Leandra, ancora stretta tra le sue braccia, emise il suo primo vagito. Nella sala principale, a quel suono, tutti batterono le mani e gridarono così forte da farsi udire chiaramente anche al piano di sopra. Ambrosius distribuì i suoi boccali di birra ed idromele – esprimendo in questo modo la sua gioia – e i bicchieri sbatterono l’uno contro l’altro in un augurio sincero, anche se un po’ rozzo.
La piccola Leandra aprì e chiuse la sua boccuccia per piangere più forte e fuori dalla locanda, dai sentieri non battuti, dalle campagne, dai boschi, si levarono gli ululati che riecheggiarono sonori nel silenzio della notte. Erano ululati poderosi, vibranti, talmente macabri da non poter provenire da nulla che fosse naturale. Mariechen, Ludwig e Albert rientrarono immediatamente dal loro turno di guardia, spalancando la porta del Canide Sdentato e richiudendosela all’istante alle spalle, balbettando frasi sconclusionate.
Nell’osteria, prima immersa in un clima di festa, si erano tutti ammutoliti e solo Leandra e i mezzi-uomini continuavano a far tremare i cuori dei presenti.
«Non è bene». La vecchia Nan, incerta sulle gambe, si avvicinò alla bambina con affanno. Scostò le coperte che la avvolgevano fino alle guance e Leandra smise di piangere quando incrociò gli occhi dell’attempata suora.
«Si è svegliato dal suo letargo» bisbigliò rabbrividendo lei, guardando fuori dalla finestra senza riuscire a vedere nient’altro che la sua immagine riflessa. «Nulla è più come lo conoscevamo. Il male è disceso tra gli uomini e si è infine impossessato dei loro corpi e il vizio, la colpa e il peccato ne hanno mutato l’aspetto per rammentare ai mortali il loro destino. E c’è chi li guiderà in questa impresa, perché Dio ha bandito il Diavolo dal nostro mondo, ma egli è un ingannatore e sa come agire manipolando i più deboli. Non si fermeranno sino a quando non avranno riscattato la vita con la vita, pagando il debito dei crimini che abbiamo commesso o rendendoci complici della loro missione. C’è il buio nel cuore degli uomini e alcuni ne sono stati divorati. Siamo stati avvertiti, ma non abbiamo riconosciuto i segni e ora non possiamo tirarci indietro. Ma non saremo soli nella nostra lotta» continuò, guardando Leandra, gli occhi innocenti spalancati. «Non saremo da soli finchè un figlio dell’empietà, estraneo alle colpe dei padri, rimarrà al nostro fianco. E noi dovremo proteggerlo, perchè i lupi lo temono più di ogni altra cosa e, temendolo, lo cercheranno. Lui non lo deve trovare. Lui, da cui è partito tutto, lui che è stato annunciato dai suoi seguaci e che già è a conoscenza della nascita del suo nemico, lui non gli si dovrà mai avvicinare».
 
   
 
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