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Autore: ___Aliena___    11/08/2018    3 recensioni
"Il mistero dell'amore è più grande del mistero della morte. Non bisogna guardare che all'amore" ('Salomé', Oscar Wilde)
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In un tempo dove la Morte pretende di creare la Vita, che cosa resta all'Amore?
Brevi scintille di umanità che lanciano la loro luce nelle tenebre del Nuovo Mondo.
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«Medea, tu sai perché Watari ha deciso di chiamarti così?».
«Era il nome di mia madre».
«E poi?».
«Non lo so, non gliel'ho mai chiesto».
«Cos'è che distingue Medea da tutte le altre eroine tragiche?».
«Di certo non un destino più clemente».
«Alla fine della sua storia, Medea resta in vita. Ricordalo, perché dovrà essere lo scopo della tua esistenza. Tu devi vivere, Medea, non importa quello che accadrà a noi altri. Tu devi vivere».
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: L, Nuovo personaggio, Watari
Note: Missing Moments, OOC, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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8
Immortal
 
 
 
Medea non può morire
per mano di Medea
(“Medea”, Franz Grillparzer)
 
 
 
 
Arriviamo. Salto giù dall’auto e chiudo la portiera. L’edificio a più piani sfavilla nel cielo come una torre d’argento. Una fitta mi sconquassa il cuore, deglutisco. Una mano mi sfiora il fianco sinistro. Near avanza titubante, la testa reclinata, lo sguardo assente.  «È proprio necessario?».
Tra le dita stringe un cubo di Rubik. Lo brandisce come una pistola, me lo punta contro.
Io agito il capo, i ricci si incastrano agli occhiali. «Sì».
Entriamo dentro. Non c’è quasi nessuno, ad eccezione di sparuti agenti della polizia giapponese. Li riconosco, trattengo il respiro. Matsuda mi si getta con irruenza tra le braccia, non badando alla freddezza del mio corpo. Lascio che mi stringa a sé; Near lo ignora. Il signor Aizawa ci raggiunge lentamente, barcollando. Ha il volto stanco, gli occhi stanchi, i piedi stanchi. Sembra un vecchio mozzo sul pontile di una nave. Mi prende una mano, la trattiene. I suoi calli mi solleticano il palmo. Sussurra parole, io non ascolto. Riconosco il nome Yagami pronunciato quasi con referenza e mi ritrovo a pensare a quanto sia fievole il suono prodotto da quelle labbra. Seguiamo gli agenti nella stanza attigua. Entriamo. Mogi è fermo sull’uscio con la mascella contratta. Al centro del pavimento un letto a baldacchino dalla foggia antica, con lenzuola bianche, cuscini bianchi. Adagiato sul materasso, un corpo femminile, composto. Mi avvicino. I capelli biondi sono sciolti, sparsi intorno alle spalle come i raggi di una ruota. Le labbra sono fredde. Le mani sono fredde. Il collo è freddo. Il seno è freddo. Deglutisco piano, quasi col timore di svegliarla. È vestita completamente di bianco, come le coltri che la accolgono. Le calze candide le avvolgono le caviglie, i polpacci, le cosce. Le sfioro un braccio, avverto le ossa rotte. Guardo il signor Aizawa. «Suicidio?».
Lui annuisce. «Sì». Inspira a denti stretti. «In fin dei conti, è stato meglio così».
Matsuda alza la voce indignato. «Le sembrano discorsi da fare?».
Aizawa tace, io taccio. Mi siedo al capezzale del cadavere. I fiori sparsi intorno riempiono l’aria di un sentore dolciastro, che si unisce inevitabilmente a quello della carne non più viva. Sollevo tra le dita un giglio, lo lascio cadere. Sollevo una rosa, la lascio cadere.
Dalla porta entra Halle Lidner col suo ticchettio di tacchi. Entra Anthony Rester a capo chino. Entra Stephen Gevanni. Lancio loro un’occhiata di sottecchi. Gevanni sospira. Near li osserva da lontano.
Passano le ore, non cambia niente. L’odore dei fiori si fa più acuto, melenso. Rifiuto il cibo e l’acqua che mi offrono. Rimango accanto al corpo. Un capogiro mi spinge a sorreggermi per un istante al ginocchio ossuto della morta. Mi ritraggo con un sussulto.
Gevanni si accosta, non mi tocca. «Ha bisogno d’aria, signorina Medea?».
Soppeso con attenzione le sue parole. Cerco Near con lo sguardo. Lo trovo disteso in un angolo, intento a risolvere il cubo. Scuoto la testa. «Voglio rimanere con Misa».
Il sole continua il suo corso, si erge in alto, comincia a declinare. Alcuni raggi penetrano da una finestrella accanto al soffitto e si abbattono sul viso cinereo della defunta. Le lunghe ciglia nere sembrano proiettare un’ombra sinistra sulla pelle, ne accentuano le macchie violacee celate dal belletto. Estraggo un fazzoletto dal petto e provo a struccarla senza successo. Gli agenti non intervengono. Mi ritrovo a domandarmi se oltre quella maschera si nasconda un’espressione serena, sollevata. Penso allo scopo a cui aveva sacrificato la sua esistenza, penso al suo sogno di riuscire ad imprimersi negli occhi il volto di Light Yagami. Pur conoscendo la realtà, mi piace immaginare che ce l’abbia fatta, che lui, alla fine, l’abbia permesso.
Mi alzo in piedi, raggiungo Near. Gli sfilo il cubo dalle mani prima che possa terminarlo per l’ennesima volta. Stacco i bollini rimasti in disordine e li riattacco, componendo i colori. Gli restituisco il gioco. Lui si porta un dito alla tempia, tormenta una ciocca lattescente. «Non funziona così».
Gli do un buffetto. «Lo so».
Usciamo dall’edificio. Per le strade sfrigolano le schiere ordinate di luci artificiali. Prima di andare mi fermo sul marciapiede, pensierosa. Mi volto indietro per l’ultima volta. Sorrido tra me.
Near mi si accosta senza guardarmi. «Che cosa c’è?».
«Le sono grata, sai?» mi accomodo gli occhiali sul naso, un gesto che faceva sempre mio padre. «A Misa. Se sono qui, salva, un po’ è anche merito suo».
«Stai parlando del secondo Kira».
«Lo so. E le devo la vita».
 
 
Raggiungiamo l’albergo dove alloggiamo io e Near. Rester, Halle e Gevanni restano per cena, comprano del vino, lo consumano in fretta. Rester si lamenta del lavoro, del tempo. Gevanni ride, Halle un po’ meno. Io percepisco le loro voci senza ascoltarle realmente. Mi siedo nel vano della finestra aperta, inspiro l’aria frizzante della sera. Scrivo qualcosa su un foglio, lo cancello.
Near si ritira presto nella sua stanza, Halle e Rester ci salutano poco dopo. Resto sola con Gevanni.
Non mi guarda, io non guardo lui. Assiso sulla sedia, traccia con l’indice il profilo del bicchiere di cristallo. Il vino, all’interno, si agita in onde circolari, scarlatte.
«Quanto tempo è passato dall’ultima volta?». La sua voce mi giunge atona alle orecchie.
Mi porto le ginocchia al petto. La gonna che indosso si solleva, svolazza. Tento di tirarla giù, rinuncio subito. In fin dei conti non m’importa.
«Non lo so. Un giorno, magari due».
Forse mento, forse no. A volte mi pare di vivere in una dimensione dove le ore non trascorrono, non come dovrebbero. Penso a dov’ero alcuni giorni prima. Non lo ricordo. Penso a cosa facevo. Non lo so. Da qualche parte, nella mente, sento risuonare le parole di Matsuda, la notizia della morte di Misa Amane, l’invito a rendere un ultimo omaggio al corpo. La camera ardente era silenziosa. Nessun parente. Nessun amico. Soltanto agenti in borghese; gli stessi che per anni avevano dato l’anima nella caccia a Kira, ora presenziavano al suo funerale. Certe volte il destino ha un amaro senso dell’umorismo.
Gevanni si solleva, si accosta alla finestra. Cerca le stelle nel cielo. Sono tutte spente. Si allenta la cravatta. «Hai voglia?».
Poggio la fronte sulle ginocchia. Noto che non mi chiama più “signorina”.
«No. E tu?».
«No».
Sorrido mestamente. «Allora possiamo ancora».
«Sì».
Mi tolgo gli occhiali e il vestito; lui fa lo stesso, gli occhi bassi. Non guarda me ed io non guardo lui. Ad entrambi sta bene così. Lascio che mi prenda lì, nel vano della finestra, lo sguardo perso a scrutare l’orizzonte.
La mia prigione dorata. L’ho costruita da sola, perché non sentivo più niente. Dopo la morte di Light Yagami, dopo la proposta di Near, tutto era cessato. Dolore e inquietudine. Nessun turbamento. Nessuna passione. Ero atrofizzata, completamente. Ed era sbagliato.
Ho passato giornate intere a guardarmi allo specchio. Cercavo quell’ombra, quell’immagine che Misa era sicura di scorgere incastonata in me. Possibile che, per colpa sua, avessi iniziato anche io a vivere in funzione di Kira? Sempre più spesso mi ritrovo a chiedermi se il vero obiettivo di L fosse trovare Kira o impedire che qualcun altro lo trovasse.
Gevanni l’ho cercato perché Near si fida di lui. Gli ho detto la verità. Gli ho detto che avevo bisogno di ritrovarmi. Lui non ha capito. S’è limitato a gettarmi l’elemosina, come ad una mendicante solo perché si fidava di Near. Non ho avuto paura perché non avevo più nulla da custodire. Non mi aspettavo affatto che lui potesse darmi qualcosa di nuovo, di prezioso; volevo solo che qualcuno mi risvegliasse da quel torpore, in fretta... Non è servito a niente, ma questo lo sapevo già.
Al termine dell’amplesso rifuggo l’asfissia di quella stretta. Raccolgo i miei vestiti, li indosso. Prendo una barretta di cioccolato da uno stipo. Mi arrampico sul davanzale. «Vado da Near».
Lui annuisce, chiude gli occhi. Spero che sparisca prima del mio ritorno.
Con un balzo raggiungo il balcone attiguo. Le imposte sono aperte. Trovo Near seduto su una sedia, una gamba contro il petto e l’altra penzoloni. Tra le mani ha il cubo di Rubik, a cui sta staccando i bollini colorati.
Rido. «Non funziona così».
Lui solleva appena lo sguardo. «Lo so».
Attendo in silenzio. A Near non importo ciò che faccio. Il suo primo pensiero è ottenere un Watari che non lo lasci solo, il mio primo pensiero è saperlo vivo, salvo. Ma posso davvero salvarlo, io?
Le facce del cubo vengono pian piano ricomposte. «Che cosa c’è?».
Mi passo una mano tra i ricci scomposti. «Non mi ha portato le fragole».
Non dico altro. Mangiamo la cioccolata lentamente, come se fosse un rito. Near decide di iniziare un nuovo puzzle, io lo fermo e lo costringo a mettersi a letto. Si rannicchia tra le coltri in posizione fetale, il mento affondato nell’incavo del braccio destro. Lo osservo. So che da quella posizione non si sarebbe mosso per il resto della notte. Penso a tutte le volte che gli sono rimasta accanto alla Wammy’s House, per evitare i dispetti dei ragazzini più grandi. Penso a Lawliet, che di tanto in tanto si sedeva accanto a me per ordine del suo Watari. Penso a Mello e al suo sonno nervoso, inquieto, agli sguardi ardenti con cui mi trafiggeva quando tentavo di consolarlo in pubblico, alle sue dita avviticchiate ai miei capelli, alle mie mani sul suo collo. Lottavamo senza farci male. Lottavamo perché era l’unico modo per entrare in contatto. In quei momenti avrei voluto stringerlo forte a me e sussurrargli che non ce n’era bisogno, che io capivo. Secondo Roger ci somigliavamo, secondo mio padre no. In realtà eravamo perfettamente identici, con l’unica differenza che lui era stato allevato con un obiettivo preciso, opprimente, io ne ero rimasta esclusa. Halle Lidner mi ha detto che alla fine, però, è morto per amore del suo rivale. Io dico che è morto e basta.
Spengo le luci, mi dirigo verso la finestra. Near solleva piano la testa. La sua voce nel buio è come un sussurro dall’altro mondo. «Che cosa hai deciso di fare?».
Io esco sul balcone. Mi volto. «Portami alla Wammy’s House».
 
 
Restiamo in Giappone ancora per un po’, sospesi in quell’albergo come in un limbo.
Viene a trovarmi Tota Matsuda. Viene a trovarmi Shuichi Aizawa. Near non è contento. Dice che in troppi, ormai, conoscono le fattezze dei nostri volti. Io rispondo che è inevitabile.
Un giorno visito la tomba di Light Yagami. È stato sepolto accanto a suo padre. Gli porto delle rose, perché la terra nuda mi fa ribrezzo. Lì incontro una ragazza che gli somiglia, inginocchiata. Quando si accorge di me, mi rivolge un’occhiata vacua, assente. Ho l’impressione che, in realtà, non mi veda affatto.
«Eri una sua amica?» la voce è melliflua tanto quanto la figura.
Scuoto la testa.
Lei torna a concentrarsi sulla sua preghiera. Lascio le rose accanto alla lapide. La pietra è umida. Forse sono le lacrime di Soichiro Yagami. Scaccio quella fantasia.
Gevanni continua a trattenersi dopo cena. A me non importa. Una sera mi chiede di restare a dormire. Rabbrividisco con ribrezzo. Acconsento, ma passo la notte accanto a Near. Il mattino seguente gli dico di non tornare più. Lui mi scruta perplesso. «Hai iniziato a volerlo?».
Non riesco a mentire. «Io no. E tu?».
Torniamo a darci del “lei” anche in privato.
Col passare del tempo, le domande di Near iniziano a diventare fastidiosamente incalzanti. «Che cosa hai deciso di fare?».
Io non demordo. «Portami alla Wammy’s House».
Alla fine riesco a persuaderlo.
Varchiamo i cancelli dell’orfanotrofio in primavera, investiti dal profumo delle mimose. Un antico languore mi avvolge le viscere, ma non riesco a piangere. I bambini ci accolgono curiosi. Alcuni si accalcano attorno a Near, altri tentano di cogliere nel mio viso qualche tratto familiare. Non ci riescono. Sono stata via per troppo tempo.
Roger ci attende nel suo ufficio. Quando mi vede, mi prende le mani e me le bacia con trasporto. A me viene da ridere nel ricordare tutte le volte che, da bambina, sono stata rimproverata da quell’uomo flemmatico e un po’ burbero. Sulla scrivania ha una foto di mio padre. Dice che posso tenerla, come posso tenere ciò che desidero. Adesso l’orfanotrofio è mio. Rimugino dentro l’anima le sue parole, senza riuscire a sistemarle in un ordine possibile.
Anche Roger mi domanda: «Che cosa hai deciso di fare?».
Near si trastulla con un robot giocattolo. Finge di non ascoltare. Io non ho una risposta. Chiedo di poter restare lì per un po’.
I giorni si susseguono l’uno dopo l’altro ma il limbo non mi abbandona. Vado alla ricerca del mio passato. Mi sistemo nella stanza di mio padre perché la mia è ora occupata da tre ragazzine. Una di loro mi fa il ritratto e lo appende sulla porta. Mi dipinge con gli occhi neri. Quando le domando il motivo, lei scrolla le spalle. Per un attimo affiorano in me dubbi sul mio reale colore.
Roger mi consegna le chiavi del laboratorio di Watari. Per anni è rimasto chiuso, ma io ora lo apro e spalanco le finestre. Voglio che i ragazzi lo frequentino liberamente e assaporino il sentore di muschio e ferro che vi alberga. Near ci si nasconde di tanto in tanto, in segreto, quando ha qualche nuovo puzzle da terminare. Io non lo dico a nessuno.
Ricomincio ad arrampicarmi sul mio albero. È diventato più folto. Alcuni bambini si affezionano subito e mi chiedono di giocare con loro; altri, diffidenti, non si avvicinano, ma mi salutano nei corridoi. Ce n’è uno molto piccolo che soffre di vertigini. Ha la pelle mulatta e i capelli neri, gonfi come la criniera di un leone. Si fa chiamare Robin. Canta sempre, anche nei sogni. Ha la voce acuta, da bambina, e raggiunge note impensabili per la sua età. Quando mi addormento sui rami, canta per svegliarmi. Vuole che gli insegni a vincere la paura dell’altezza. Lo giuro solennemente con le mani sul cuore e lui ride. Spero che non si metta in testa di voler prendere il posto di Near.
Quando sono sola, mi guardo nello specchio e mi ostino ancora a cercare Lawliet. Non vedo niente. Mi chiedo se sia davvero possibile assorbire una persona o se la gente è davvero suggestionabile a tal punto.
Trascorrono Marzo e Aprile, Maggio bussa alle porte. Roger continua a pormi lo stesso quesito, io continuo ad ignorarlo.
Una mattina Robin viene a svegliarmi eccitato e mi trascina di fronte al cancello dell’orfanotrofio. Near e Roger sono già lì. Il ritmico suono di un tamburello permea l’aria circostante. Un gruppo si zingari danza sotto gli occhi incantati dei bambini. Roger s’incupisce e si allontana di qualche passo. Io resto dove sono, sgomenta. Seguo rapita le movenze caotiche di quel ballo e mi sembra di esserne accarezzata. Un giovane dalla pelle d’ebano e gli occhi di smeraldo batte le mani sul tamburello. Resto a fissarlo attonita per lunghi istanti. Lui se ne accorge, mi sorride. Ha i canini aguzzi, come quelli di un felino. Con un cenno della testa mi invita a raggiungerli. Vuole farmi danzare. Io guardo Near e noto che ha lasciato cadere il modellino che si è portato dietro. Inspiro forte, l’aria mi ferisce. Mi strappo la gonna con le mani e mi arrampico sul cancello. I bambini sussultano sorpresi. Roger piega la bocca in una smorfia. Con un balzo sono di fronte al giovane. Lui consegna il tamburello ad una compagna, tenta di prendermi le mani. Io gli sfuggo d’istinto, lui sogghigna. Iniziamo a rincorrerci al ritmo incalzante della musica, dentro e fuori dal cerchio creato dagli altri zingari. Il mio corpo non risponde più ai comandi. In preda ad una frenesia furiosa, inizia a contorcersi, a stendersi, a roteare senza alcuna regola. Divento un serpente che striscia, divento un falco nel cielo, divento una lince famelica. I contorni delle cose perdono consistenza, i colori vorticano, si sovrappongono. Nelle narici ho solo l’odore della mia pelle madida e della terra. Alla fine la caccia si ribalta e sono io ad afferrare il giovane. Lui dice qualcosa in una lingua che non conosco, eppure comprendo alla perfezione. Mi slancio contro le sbarre del cancello e prego Roger di aprire, di farli entrare nel giardino. Lui è titubante, ma acconsente. I bambini si ritirano intimoriti, ma quando la musica ricomincia a martellare si lasciano trasportare nel vortice. Robin canta a squarciagola dalle spalle di uno zingaro senza denti che ride di gusto. Cerco Near. Trovo il modellino ancora a terra. Lo raccolgo, lo ripongo ai piedi di un albero. Una ragazzina dai capelli intrecciati lo tiene per un braccio. Lui la segue goffamente, in imbarazzo. Sembra felice.
Qualcuno mi posa una mano sul viso e mi sfila gli occhiali. Sussulto. Riconosco nell’orecchio la voce del giovane dagli occhi verdi. Ricomincio a danzare.
 
 
Gli zingari si accampano nel giardino della Wammy’s House e vi restano per tutta l’estate. La loro presenza dona una nuova luce all’orfanotrofio, una leggerezza che non avevo mai gustato nel passato. Io trascorro con loro le mie giornate, imparo la lingua.
Agli inizi di Settembre decidono di partire e nella mia mente fa nuovamente capolino quella dannata domanda.
Che cosa hai intenzione di fare?
Passo le notti a rimuginare, senza chiudere occhio. Penso a Near e alla sua paura di restare solo. Penso al sacrifico di Mello. Mi risuonano nelle orecchie le parole di Halle Lidner.
È morto per amore del suo nemico.
Mi convinco che potrebbe essere vero.
Penso a mio padre, al mio nome. Madison Wammy. Lo scrigno ideale per accogliere la maschera di Watari. Ma qualcosa mi dice che il vecchio Quillsh non l’avrebbe voluto. In fondo, mi ha chiamata Medea. L forse l’aveva capito. Near no.
Penso anche a lui, a Lawliet, al riflesso che gli altri vedono nei miei occhi. Decido di tenerlo con me, in un certo senso lo ringrazio... anche se non danzeremo mai insieme.
Entro nell’ufficio di Roger, gli comunico la mia decisione. Lui annuisce e mi consegna un anello di rubini. «Era dei tuoi genitori. Di entrambi».
All’alba raggiungo Near nel laboratorio di mio padre. Sta impilando una torre di dadi. Penso che Lawliet faceva la medesima cosa con le zollette di zucchero.
Restiamo in silenzio, non c’è bisogno di spiegazioni. Lui mi consegna l’ultimo dado, io gli do l’anello. Lo posiziona in cima alla torre. Mi guarda. Annuisce. Mi getto verso di lui con l’irruenza di un tempo e gli schiocco un bacio sulla fronte. Gli sorrido. «Grazie, Nate».
 
 
Parto con la carovana di zingari verso una città più calda di Winchester. Li paragono mentalmente agli uccelli, fragili, precari, ma liberi. Mi adeguo a quella condizione di vita come se fossi nata tra loro. Sopporto il freddo, i bivacchi improvvisati, la diffidenza della gente, la mancanza di cibo. Le donne portano coltelli sotto le gonne. Alcuni di loro rubano, altri litigano fino ad arrivare al sangue; ma nello stesso tempo si amano incondizionatamente, di un amore primitivo, terreno, privo di sovrastrutture. Io continuo a scrivere poesie. A volte mi chiedono di leggerle ad alta voce. Io li accontento, loro ascoltano. Molti piangono silenzio, inseguono ricordi. Io ho terminato le lacrime. La ragazza dai capelli intrecciati mi chiede spesso di parlarle di Near. Lo faccio. Lei arrossisce. Un giorno mi dice che, quando torneremo a Winchester, lei si fermerà lì con lui. Le accarezzo teneramente la testa come mio padre faceva con me. Le confido che, nonostante non parlassero la stessa lingua, lei era stata l’unica a farlo ballare. Rimane estasiata.
In primavera giungiamo alla Wammy’s House. Roger è divenuto il nuovo Watari, Near è ufficialmente conosciuto come nuovo L. Ha già risolto un paio di casi importanti, decidendo però di non allontanarsi da Winchester. Forse è un modo per vincere la solitudine.
Robin è cresciuto. Adesso si arrampica sugli alberi come uno scoiattolo. Dice di voler diventare un cantante.
Vedendomi, Near abbassa la testa e si lascia baciare la fronte. Porta al collo l’anello di rubini. Trascorriamo la primavera e l’estate lì, come l’anno passato. La ragazza con le trecce danza con Near ogni giorno. Questa volta lui non si limita ad assecondarla passivamente ma decide di condividere con lei i suoi preziosi giocattoli. Li ho visti risolvere puzzle insieme e mangiare cioccolata. Guardandoli, Roger mi ripete le parole di mio padre: «Si salveranno l’un l’altra».
Io non capisco, ma penso ugualmente che suoni molto bene.
Decido di raccogliere le mie poesie, decido di pubblicarle. In autunno riparto con gli zingari, ma questa volta il nostro non sarà un peregrinare senza meta: con i proventi ricavati dal progetto, viaggeremo di città in città per far conoscere alle persone quelle poesie, gli scritti, le lacrime e il sangue di una vita intera fatta di stelle soffocate, di pile traballanti di zucchero, di alberi nodosi come le dita di un vecchio inventore. Roger è sollevato all'idea che non si ruberà più. Io non ne sono convinta ma preferisco non turbarlo ancora.
Ci salutiamo nuovamente, con la rinnovata promessa di ritrovarci alla Wammy’s House in primavera. Proprio come uccelli migratori, fragili, precari, ma liberi.
Non so per quanto tempo continuerò a condurre questa vita. Forse un giorno deciderò davvero di ricoprire il ruolo di Watari, forse no. Forse Robin diventerà un cantante famoso, o forse lo costringeranno a gareggiare per il trono occupato ora da Near. Non so assolutamente niente, ma l’ignoto mi spaventa meno delle certezze.
La sera, guardando la luna, ripenso al passato, e mi domando se io l’abbia vissuto o sognato. Penso ai giorni che mi separano dalla primavera e ai chilometri che mi dividono dal Giappone. Penso alla giovane china sulla tomba di Light Yagami e al fallace desiderio di Misa Amane. Penso ai nomi delle persone che ho incontrato, ai loro volti, e mi dico che sfruttarli per uccidere è davvero troppo semplice. Penso che la vita non sia scritta in nessun nome, anche se spesso è più confortante appellarsi ai simboli che alla realtà. Penso alle fragole con cui Roger mi accoglierà quando tornerò alla Wammy’s House. Ma senza panna.
Non mi è mai piaciuta.
 
 
 
 
AVVERTENZE!
 
Siamo giunti alla fine di questo viaggio. Sono al contempo triste e serena, e credo di non sapere proprio che dire. Ho iniziato a scrivere in un momento di noia proprio come Light ha iniziato ad uccidere. Avevo incontrato il personaggio di Medea, quello del mito si intende, e avevo urgenza di capire delle cose. Avevo bisogno che mi parlasse e ho deciso di inserirla all’interno di questo contesto. Il contesto di Death Note. Un mondo che, per i suoi temi, i personaggi, mi ha da subito rapita. Il mio obiettivo era parlare di amore, un amore non idealizzato ma animale, privo di sovrastrutture del pensiero. Volevo parlare di istinto, quello che ci spinge a fare le cose più incomprensibili e contraddittorie senza un apparente motivo. Non so se ci sono riuscita fino in fondo, ma questo è stato un esperimento importante per me, che mi ha permesso di approfondire certe questioni altamente care. Ed è venuta fuori Medea. Medea è stata per me più di un personaggio. È stata una Voce, la sintesi delle eroine letterarie che ho sempre amato, la spinta a ricercare quel senso di libertà che spesso manca in tutti. E la ringrazio. Credo di aver iniziato ad amarla come una figlia. Forse la mia visione di Quillsh Wammy non è altro che l’amore che nutro per questo personaggio.
Vi confesso che inizialmente avevo davvero intenzione farla diventare il nuovo Watari. Ma lei si è rifiutata. Mi ha chiesto di fidarmi di lei e di lasciarla fare. Io non ho potuto fare altro che acconsentire. Come Atena è uscita adulta e armata dal cranio di Zeus, così Medea è uscita disobbediente dal mio. Inoltre ho deciso di dedicare quest'ultimo momento a Misa Amane e il motivo è davvero puerile, a tratti direi sciocco: Misa, in questa storia, ha salvato la vita alla mia Medea, e io, da ''madre'' la ringrazio.
Ci sono alcune cose che mi sono ancora poco chiare, alcune sfumature che forse svilupperò, forse no. Come Medea, io non so niente. Il percorso che lei ha affrontato è stata una crescita non ancora conclusa, e che credo non potrà mai concludersi. Quello che è venuto fuori è un racconto quasi "a singhiozzi", fatto da brevi lampi inframezzati da salti temporali enormi, episodi scissi, tenuti insieme non da una solida architettura ma da un sottile filo di lana. Questa scelta è stata voluta un po' perché è nella mia natura cogliere le scintille prima delle cose vere e proprie, e un po' perché non avevo il tempo necessario per costruire l'impalcatura di una storia dall'intreccio complesso; avevo bisogno di una palestra per allenare me, delle idee, dei personaggi... Magari il futuro mi riserverà la capacità di mettere in piedi qualcosa di più articolato. "Chi vivrà, vedrà"!
Vorrei ringraziare tutti quelli che mi hanno sostenuta in questa avventura, tutti coloro che hanno letto, leggono e leggeranno. Medea è viva anche grazie a voi. Per qualsiasi domanda, opinione, o semplicemente per scambiare due chiacchiere, non esitate a contattarmi. È sempre bello scambiare pensieri. Io vi saluto e vi abbraccio forte. Alla prossima!
   
 
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