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Autore: insiemete    21/08/2018    1 recensioni
Chase Crawford non ha mai avuto una gran stima di sé stesso, forse per il fatto di aver avuto il cuore spezzato troppe volte o forse per essere sempre paragonato alla sorella - perfetta in tutto e per tutto.
Alla soglia dei ventun anni, Chase frequenta l'ultimo anno alla rinomata Cornell University, un'università frequentata anch'essa dal suo migliore amico, Ashton, e dalla sua migliore amica della quale è segretamente innamorato, Adeline.
Sarà quando il suo occhio si poserà su una chioma bionda e fluente che, forse, per la prima volta, Chase capirà che cos'è il vero amore.
Ma l'amore è come una rosa: ogni dove metti le mani, finirai con il pungerti.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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"Le donne possono essere amiche meravigliose. Assolutamente meravigliose. Ma prima di tutto, perché l'amicizia abbia una base, bisogna che di una donna tu sia innamorato."
- Hemingway


 

 



Non sapevo che cosa fosse l'amore.
O per lo meno, era quello che credevo. Non ebbi relazioni tali da farmelo pensare e soprattutto provare.
Nonostante questo, provai sentimenti dolci verso il gentil sesso, e trovai in loro un riparo quando non sapevo dove andare. La donna non era la mia valvola di sfogo, bensì il mio piccolo paradiso terrestre dove sentirmi me stesso.
Leggevo Fiesta di Hemingway, quando Adeline posò i suoi occhi scuri su di me. Mi guardò intensamente per qualche istante, prima di pronunciare le fatidiche parole, le quali mi lasciarono con l'amaro in bocca.
«Quando arriviamo, mi devi accompagnare da Perry. Ha detto che ha una sorpresa importante per me» disse, cercando di mascherare un sorriso sornione. Odiavo quando cominciava un discorso tirando in mezzo quello zimbello.
Non stavano ancora insieme. Perry ci aveva provato con lei per settimane prima dell'inizio delle vacanze, ma Adeline era troppo impegnata con gli esami universitari da accettare l'appuntamento del capitano della squadra di soccer. Ma, ovviamente, appena pensavo che la loro relazione fosse finita ancor prima di nascere, la mattina della vigilia di Natale, Perry, si presentò sotto casa Morgan con un mazzo di fiori e una macchina lucida di zecca. Ella si sentì in dovere di accettare. Si era fatto mille miglia per chiederle un appuntamento e lei cedette subito, come una falena attirata da una fioca luce.
«È il tuo ragazzo, ancora hai paura di passare del tempo con lui?» sbuffai, muovendo le gambe e facendo scivolare giù la sua mano. Non sopportavo quel tocco, il suo. Stringerle la mano era più intimo di quanto lei pensasse, e non potevo farlo quando mi parlava di un altro. Non perché non volessi, ma perché non ci riuscivo: era pur sempre un gesto romantico, che lo facevo perché mi sentivo in dovere di farlo con lei.
«Chase, lo sai che non stiamo insieme» ribatté, corrucciandosi. Le sue folte ciglia brune si abbassarono, a guardare le sue mani scialbe.
Roteai gli occhi al cielo, spostando lo sguardo da lei al paesaggio invernale che scorreva sotto i nostri occhi. Odiavo chiunque mi mentisse. Per di più, se era lei a farlo. «Allora, se non state ancora insieme, cosa siete?»
Adeline sospirò, prima di prendere con due dita il mio mento e girarmi verso il suo viso. «Perry è un ragazzo fantastico, Chase. Credo che voi due insieme andreste d'accordo.»
«Come fai a dirlo?»
Sorrise, spostando un ciuffo ribelle dalla mia fronte. «Lo so perché anche tu sei un ragazzo fantastico
Mi scaldarono le sue parole, e il vetro freddo del finestrino diventò inspiegabilmente meno fastidioso contro la mia guancia. Adeline era candida come la fioca neve che si posava sul terreno, abbracciando la vegetazione, scaldandola dai geloni invernali, proteggendola dalle intemperie. Lei era così pura, così maledettamente inavvicinabile a me.
Cercai di scacciare quel senso di malinconia che si era instaurato tra le mie membra, e provai a pensare ad altro. Presi le cuffiette e continuai a perdermi tra i miei pensieri, mentre Adeline parlava animatamente con Lexi. Sentivo le parole, ma avevo la sensazione di non capirle.
Adeline era carismatica. Diceva di essere innamorata della vita, che niente andava male nel suo mondo e che se qualcosa non sarebbe andato per il verso giusto, lei lo avrebbe comunque superato. Aveva un sorriso stupendo, era talmente grande che mi chiedevo come facesse ad allargare così tanto la bocca. Così la continuai ad osservare per il restante tempo passato in autobus; guardai come i suoi capelli mossi le accarezzassero dolcemente il petto, come i suoi occhi zampettassero da un viso all'altro in cerca di qualche faccia familiare. Non mi sarei mai e poi mai immaginato che quello fosse il nostro ultimo viaggio assieme.
La portai a Ottawa da mia madre e il mio patrigno, all'inizio era restia sul venire o no con me - credeva di essere d'intralcio - ma riuscii a convincerla. Non volevo andare in Canada da solo, non perché avessi paura, ma perché lì non conoscevo nessuno ed avevo un po' di problemi con la lingua. Fu tutto così stupendo. Le insegnai a giocare ad Hockey, pattinammo sui fiumi ghiacciati in piena notte, andammo a caccia nei boschi, le feci vedere quanto può essere bella una cascata al tramonto; le diedi tutto quello che avevo, non chiesi niente in cambio.
Lei era audace. Se le dicevi di non fare una cosa stanne pur certo che l'avrebbe fatto. E questo, ovviamente, ebbe le sue conseguenze. Sorrisi, pensandoci. Stavamo attraversando un torrente in via di congelamento e lei non mi aveva ascoltato; le dissi di calzare degli scarponi da trekking, ma si era messa su delle semplici sneakers.
«Tranquillo Chase, so quello che faccio.»
Appoggiò male un piede su una roccia e scivolò; cascò di sedere dentro l'acqua ghiacciata. Ricordo che rise, rise tanto da piangere nonostante stesse congelando. Si slogò una caviglia e la portammo in ospedale.
Adeline era fatta così, grazie a lei imparai ad apprezzare le piccole cose. Diventai quasi la sua ombra: senza lei non ero più io. Mi cambiò in meglio. Ero diventato un uomo; mettevo al primo posto, per la prima volta, gli altri e non io. Prendevo le decisioni in comune con lei, non pensai più a me stesso, come fulcro centrale della mia vita. Ero responsabile, protettivo; mi aveva cambiato radicalmente nell'uomo che avevo sempre sognato di diventare. Le dovevo tutto.


Le settimane successive, diedi due esami in tre giorni

Le settimane successive, diedi due esami in tre giorni. Ero rimasto indietro con il programma e, ovviamente, aspettavo fino all'ultimo per aprire un libro. Era palese dire che fossero andati uno schifo. Ero sicuro di non riuscire a laurearmi in quell'anno.
Ad ogni modo, ero abbastanza convinto che la mia ultima diapositiva sul Enterobius Vermicularis fosse grandiosa, finché Ashton Paul non piombò in camera mia staccando la presa del computer. Mi prudevano le mani e mi chiesi che avessi fatto di male nella vita per avere un compagno di stanza così stupido. Nonostante il mio sguardo collerico, Ashton sembrava poco turbato e continuava a picchiare sulla mia spalla cercando di ottenere la mia attenzione. Fui costretto a mettermi l'anima in pace e ascoltarlo.
«Cosa vuoi?» pronunciai, poco convinto, guardandolo di traverso.
Ashton si aprì in un sorriso, mostrando tutti e trentatré i denti. «Io e te, amico mio, siamo stati invitati alla festa dell'anno,» si bloccò per un secondo e si alzò in piedi, spalancando le braccia «ma che dico anno, questa è la festa del millennio.»
Alzai gli occhi al cielo, poco convinto. Non amavo particolarmente le feste. Non ci trovavo nulla di divertente nell'ubriacarsi e nel tornare a casa con un disperato bisogno di rigettare. Per di più, al contrario di quanto si pensasse, le feste non erano un modo per conoscere gente nuova, anzi, era del tutto impossibile portare avanti un discorso in mezzo a quel baccano. «E quando sarebbe questa festa?» domandai, per renderlo partecipe della mia svogliatezza.
Non ci andavo per rimorchiare, non l'avevo mai fatto. E non avrei di certo cominciato ora. Preferivo qualcosa di più intimo, di più silenzioso.
«Questa sera, a casa di Derek.»
Sgranai gli occhi e scossi la testa. «Impossibile. Questa sera sono già impegnato.»
Ashton sbuffò spazientito e mi strattonò un braccio. Era ormai una settimana che gli davo buca, e sapevo bene quanto ci rimanesse male, ma non erano posti fatti per me. «Oh ti prego, hai qualcosa di meglio da fare che passare il tempo con il tuo miglior amico?» Pregò, portandosi le mani unite al petto.
«Sì, dato che devo portare fuori Adeline.»
Ashton si sedette sulla sedia girevole e si portò le ginocchia al petto. «Dio mio Chase, lascia quella povera ragazza sola, per una sera, col suo fidanzato. Lo sai amico, lei non è tua, non puoi pressarla così tanto» aggiunse, guardandomi con sguardo supplichevole. Nei suoi occhi, però, potevo notare anche un lieve accenno di dispiacere. Sapevo bene a cosa stesse pensando.
Un inspiegabile fastidio allo stomaco si propagò in tutto il mio corpo, appena accennò il nome di Perry. Lui e Adeline si erano fidanzati appena ritornammo al campus. Lei era così felice, quando me lo venne a dire aveva le lacrime agli occhi e tanti morsi sparsi sul collo. Io, al contrario, ero un calderone di gelosia. Ma, insomma, che altro avrei potuto fare? Se io e lei non stavamo ancora insieme, pur motivo c'era.
Così, Ashton mi convinse qualche minuto dopo. Ero abbastanza credulone, e appena mi disse che mi avrebbe pagato per un mese tutte le pizze, accettai. Palese dire che quelle pizze non arrivarono mai alla mia bocca. Mi convinse di mettere il costume da bagno, un paio di bermuda e una camicia semplice bianca, sbottonata, che faceva intravedere i peli sul petto. Mi lanciò ai piedi anche un paio di infradito, consunte, scollate.
«Facciamo a gara chi è più vagabondo?» domandai, sistemandomi i polsini della camicia. Mi sentivo un'idiota vestito così a gennaio. Sembrava stessimo per partire per le Hawaii.
«A casa sua si muore di caldo» si giustificò.
Roteai gli occhi al soffitto e tirai la tendina della finestra. «E fuori, invece, nevica.»
Ashton sbuffò e mi lanciò le chiavi dell'auto e il portafoglio. «Guida te, io non ho voglia.» E con questo uscì, sbattendo la porta.
Aveva sempre la meglio su di me, pur non avessi voglia di andarci. Ashton era così, e sapevo che senza di lui non sarei andato da nessuna parte. Ci conoscevamo da così poco tempo, ma nutrivo molto affetto verso quel ragazzo. Ci incontrammo la prima volta nell'aula magna del campus, io ero al mio primo giorno, mentre lui era uno dei tanti accompagnatori. Parlammo quel poco che potevamo: io troppo attento alle spiegazioni, lui troppo indaffarato a rispondere alle domande che gli poneva la gente. Non avrei mai e poi mai pensato che me lo sarei ritrovato in camera, ed infine, come migliore amico.
Quando dissi ad Adeline che non potevo uscire con lei, all'inizio, non sembrò così dispiaciuta. E la cosa, debbo ammettere, mi diede abbastanza fastidio. Potevo immaginare i suoi piani alternativi.
Nonostante questo, la sua vena ironica non tardò ad arrivare. «Pensavo tu fossi astemio e allergico al genere femminile» annunciò dall'altra parte della cornetta, appena le diedi la notizia.
«Pensavo tu volessi perdere la verginità dopo il matrimonio.»
Normalmente non le rispondevo male, non le mancavo di rispetto, bensì lasciavo perdere.
«Scusami,» Adeline borbottò.

La cosa mi piacque parecchio. Un certo effetto su lei sapevo benissimo di averlo. Sorrisi beatamente e mi torturai le labbra, rimangiandomi quello che stavo per dire. Decisi che l'avrei torturata ancora un po'.
«Come prego? Che cosa hai detto?» Feci finta di niente per farglielo ripetere.
Sbuffò. «Ho detto mi dispiace, Chase. Non fare il prezioso» annunciò a denti stretti.
Risi, e mi beccai da lei un insulto alquanto sgradito. Lei non capiva, e sapevo che ormai era troppo tardi per dirglielo. Odiavo Perry con ogni parte del mio corpo, ma vederla felice mi rendeva incapace di parlare: le avrei rovinato la vita.
Lasciai che qualche secondo lo occupasse il silenzio e ripresi la cornetta, portandomela all'orecchio. «Senti, ti va di andare ad una festa con me?»
«Mi stai chiedendo di accompagnarti, Chase?»
«Insomma, se ti va... mi piacerebbe, ci terrei che tu venissi,» borbogliai, grattandomi la testa imbarazzato.
Ghignò, facendomi sprofondare ancora di più nell'imbarazzo. «Passami a prendere tra quaranta minuti.»

Adeline era molto fiscale: un orologio svizzero. Mi preparai in fretta e furia, indossando una camicia bianca, un paio di jeans neri e le Converse. Ashton mi disse che così sarei passato inosservato, ma sinceramente non avevo affatto voglia di farmi vedere dagli altri compagni di corso. Ci andavo solo per lui, ora un po' meno svogliatamente.

Mi lavai i denti e mi guardai allo specchio. Non mi ero mai piaciuto granché. Ero troppo alto, troppo magro, i capelli erano castani, gli occhi marroni: non avevo nulla di particolare, non avevo nessun segno che mi distinguesse dagli altri. Mi sentivo inutile, inespressivo, senza colori. Lei non avrebbe mai perso la testa per me.
Presi le chiavi ed una giacca al volo. Chiamai Ashton ed insieme partimmo.
Il tragitto era corto, ma quella sera una marea di macchine era in strada, ed impiegammo più tempo del previsto. Quando arrivammo, lei ci stava già aspettando fuori, sotto il portico, stretta in una giacca scura. Suonai il clacson ed aspettai che corresse verso di noi.
Scesi dalla macchina velocemente e le andai ad aprire la portiera. Le presi la mano, facendomi scivolare una scarica lungo la schiena. Lei, di questo, ovviamente non se ne accorse. Mi sorrise teneramente e con altrettanta dolcezza, posò un umidiccio bacio sulla guancia.
«Ciao Ashtonto,» echeggiò la sua voce nell'auto, appena prese posto. Lui, in risposta, la fulminò con lo sguardo e non si sprecò nemmeno a ribattere.
Ashton ed Adeline non andavano affatto d'accordo, dal primo giorno. Ricordo che glielo presentai una mattina alla caffetteria del dormitorio maschile. Lei era alquanto felice di conoscere il mio compagno di stanza, il ragazzo simpatico di cui le parlavo spesso. Lui però, affetto ancora dalla sbornia della sera prima, non fu esattamente gentile con lei, prima ricoprendola di complimenti e successivamente definendo il suo sesso inferiormente capace. Oltre ad apparire come un alcolista, sembrò un misogino. La risposta di ella non tardò ad arrivare, dando origine così ad un battibecco che non ebbe presto fine. Erano entrambi teste calde, quindi non si sarebbero mai e poi mai chiesti scusa.
«Chase, per piacere alza il volume della radio, che sento starnazzare dal bagagliaio» affermò scocciato.
Roteai gli occhi al cielo, e come mi disse alzai il volume della radio. Gli Imagine Dragons colmarono, almeno parzialmente, quell'aria di tensione.
«Io non sono un'oca, ed ho un nome, babbeo!» Alzò la voce lei.
Li odiavo, li odiavo tremendamente quando facevano così. Ma, li avrei lasciati fare, se mi fossi messo in mezzo sarebbe stato ancor peggio.
Dopo circa mezz'ora, finalmente arrivammo.
La mega villa di Derek non era poi così lontana dall'università, ma quello mi parve il viaggio più lungo di tutta la mia vita.
«Che questa sia l'ultima volta che mi lasci in uno spazio piccolo con quella. La prossima volta finisce che le insulto perfino il cane» mi rinfacciò, sbraitando. Adeline gli era dietro, quindi sentì tutto.
«Oh sì, sono io l'idiota qua, non di certo il tizio in costume da bagno e con i braccioli con le paperelle» pronunciò, incrociando le braccia sotto il seno.
Feci finta di niente e mi diressi verso l'ingresso. Se la sarebbero sbrigata assieme. L'unica cosa che mi preoccupava era il ritorno: Ashton ubriaco era ancor meno gestibile e razionale di quanto lo era ora. L'interno della casa di Crawford era moderno, profumava di abete rosso, le luci colorate ad intermittenza ti facevano ricordare una discoteca. La sala da pranzo, come il soggiorno e le scale che davano sul retro della casa, pullulavano di gente.
«Vuoi qualcosa da bere?» Le domandai, sovrastando le note di qualche canzone dance del vecchio millennio. Ashton ormai s'era perso in mezzo alle ragazze dell'ultimo anno.
«Una Tequila se c'è, grazie» rispose, mentre si toglieva la giacca e si immischiava nella massa.
La osservai da lontano, ed a poco a poco la gente spariva, rimaneva solo lei. Lei e il suo sorriso, la sua spigliatezza, i suoi grandi occhi da cerbiatto, la sua caparbietà. Sembrava non avesse paura di niente quella ragazza. Parlava, danzava, scherzava con tutti nonostante non sapesse nemmeno il loro nome. Era così allegra, sembrava che Dio le avesse dipinto il sole tra gli occhi, le labbra a rosa. Nessuno aveva mai colto questo dettaglio di lei. Tutti si soffermavano sul suo fisico, sui suoi voti e sul suo fidanzato. Non capivano che sotto alla bellezza c'era altro, e tutto il resto diventava una scusa in più per dirle che era perfetta. Perché quando una persona ti prende, è perfetta in ogni cosa, in ogni dove, in ogni perché. Hai un miliardo di pensieri martellanti in testa, ma niente e nessuno metterà in discussione lei.
Perché lei, per te, oramai è tutto.
Lo sapevi, Adeline, tu per me eri tutto.


Hey, Hey

Hey, Hey.
Questa storia non è nuova. Inizialmente l'avevo pubblicata con il titolo"Rocks" ed era su Harry Styles. Successivamente, non sentendola più mia, l'ho archiviata. Da quasi un anno a questa parte, l'ho ripresa, riarrangiata dal primo capitolo e continuata.
Chi mi ha seguita fin dall'inizio, troverà simile questo capitolo al vecchio, ma i prossimi prenderanno una piega diversa.
Spero di non deludervi. Voglio stupirvi con qualcosa di nuovo, se mai ci riuscirò

Mi trovate su wattpad come whatlou.
Un bacio, Elena.


  
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