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Autore: Sayami    22/08/2018    2 recensioni
"-La vita non è fatta per essere semplice, Laney, non lo è per nessuno. Ma se non provi, se non fallisci, se non cadi e ti rialzi dieci, cento, mille volte, puoi dire davvero di aver vissuto?
Laney esitò per un breve intervallo, valutò, soppesò la dichiarazione di Samuel con la massima cura, infine rispose: -No, credo di no."

Laney odia il mondo. Letteralmente. Misantropa, remissiva e un tantino paranoica, si chiede spesso quale sia stato il momento esatto in cui la sua vita ha preso la piega sbagliata, portandola a crollare sull'ultimo gradino della scala sociale: quello degli emarginati. Mentre le sue giornate procedono monotone, tra una sistematica opera di autodemolizione e il penoso tentativo di sopravvivere all'ultimo anno di liceo, in città fa ritorno Samuel, cugino della sua migliore - nonché unica - amica. Niente di eccezionale, non foss'altro che il nuovo arrivato, oltre a essere un tipo bizzarro, è anche un grandissimo impiccione! Così, tra situazioni paradossali, equivoci, incontri-scontri e un piano infallibile per realizzare tutti i sogni, Laney e Samuel scopriranno pensieri e sensazioni che credevano di aver sepolto tempo prima, insieme a un'ultima solenne promessa.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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1.4

 

La Turnips era l'istituto scolastico superiore di Tiny Town. Si ergeva nel bel mezzo di New Commerce, il quartiere mercantile, e per la precisione a metà tra Cross road e April lane, proprio davanti alla pasticceria dei Wells, che vantava i cookies più buoni di tutta la città.

L'edificio, un casermone basso e largo, tinteggiato di grigio e mitragliato da finestrelle, era immerso in un grande giardino sempre curato, circondato da un recinto in ferro battuto, e ospitava le sue classi su due piani distinti.
O, almeno, questo era ciò che Samuel ricordava. Difatti, riaffacciandosi all'entrata dopo tutto quel tempo, si accorgeva di quante cose fossero cambiate. Ora un lungo viale alberato conduceva all'ingresso della scuola, che nel frattempo era stata ridipinta di una sfumatura azzurrognola. Il giardino che circondava il complesso era rimasto spazioso, ma gran parte delle aiuole erano state sostituite da ampie oasi di sterrato, munite di panche e tavoli di legno per sedersi.
A ogni modo, i cambiamenti che avevano investito la Turnips non lo turbarono più di tanto: quello era uno dei pochi posti, in città, che meno aveva frequentato, prima di andarsene.
A pensarci bene, da quando era tornato, Samuel non aveva fatto altro che lasciarsi trasportare dalla nostalgia ogni qual volta ne avesse avuta l'occasione: un momento attraversava l'ingresso e si ricordava di una lite furiosa con Annika, quello dopo era in giardino a rammentare di quando suo padre gli insegnava a falciare il prato, e poi, una volta in strada, guardava la casa dei Barnes, sulla destra, e subito, vivido e ridente, gli riaffiorava alla memoria il viso di...
-Samuel, tu cosa ne pensi?-
Samuel sussultò. -Eh? Come?- disse, spaesato. Tanto assorto nei suoi pensieri, aveva perso completamente il filo del discorso. Si voltò a guardare James, in attesa che ripetesse quanto era appena stato detto, ma le sue speranze furono disattese. Il ragazzo lo fissava accigliato, i capelli celestini ritti come spilli in cima alla testa piatta.
-Io...- annaspò. -Qual era la domanda?-
Il suo interlocutore diede cenni di estremo disappunto: sbuffò e gettò gli occhi al cielo, ciancicando vaghi borbottii di protesta.
Alicia, al suo fianco, ridacchiò.
Crescendo, Alicia Scott e James Brisby erano cambiati a tal punto punto che, quando Samuel li aveva rivisti dopo il suo ritorno, aveva stentato a riconoscerli. Alicia, che era stata una bimba mingherlina coperta di treccine svolazzanti, si era trasformata in una bellissima ragazza, alta e formosa, con una catasta corvina e fitta di ricci afro e un sorriso a dir poco smagliante. Come se non bastasse, la sua pelle ambrata si era fatta tanto lucente da sembrare oro liquido, alla luce del sole.
James, al contrario, non era cresciuto molto ed era più basso di Alicia, ma non sarebbe potuto essere più diverso dal ragazzino malaticcio che dimorava nelle memorie di Samuel. Infatti, oltre a qualche chilo in più e al bel colorito rosato, James aveva acquistato anche un amore sconfinato per le tinture a ossigeno, e ora i suoi capelli, anche se un po' sfibrati, erano sempre un trionfo di toni vivaci. Unite ai tratti delicati, quasi efebici, del suo viso, e agli occhietti turchini, queste caratteristiche lo facevano sembrare il folletto di un bel libro di fiabe.
-È ridicolo- tornò alla carica Alicia, decisa a mettere fine al discorso una volta per tutte. -Voglio dire, di certo è molto divertente, ma si tratta comunque di speculazioni infondate. Il mio oroscopo ieri diceva che avrei riscosso una somma ingente di denaro. Be', guardami: ti sembro una che ha vinto alla lotteria?-
James scoccò ad Alicia un'occhiata tremenda. -Conoscendoti, non avrai neppure provato a comprare il biglietto!- ribatté inviperito. -Tanto per farti un esempio, l'oroscopo del Cancro ci ha preso in pieno: Venere è entrato nel segno e... puf! Ieri Tim mi ha scritto.-
Alicia rise di nuovo, guadagnandosi una seconda, rabbiosissima occhiata da parte di James. -Tim ti ha scritto perché gli piaci, non di certo perché glie lo ha detto Venere.-
-Ah!- sbuffò sprezzante l'altro. -Un bel giorno, l'oroscopo ti salverà la pelle, e allora farai poco la scettica, cara mia- concluse in tono minaccioso.
Samuel non riuscì a trattenere un singhiozzo divertito. Quando bisticciavano, quei due erano esilaranti. Non avrebbe mai pensato che sarebbe riuscito a riallacciare i rapporti tanto facilmente, una volta rietrato in città, ma con Alicia e James era stato facile come bere un bicchier d'acqua.
Eppure, una persona ancora continuava a evitarlo...
-Anche tu sei convinto che siano scemenze scaramantiche?- lo richiamò nuovamente James, sempre più inalberato. I suoi occhietti chiari, da dietro alle lenti degli occhiali da vista, erano seri come non mai.
James aveva una grande passione per tutto quello che riguardava gli astri e i flussi di energia, e più volte, da quando si erano rivisti, aveva ribadito che gli sarebbe piaciuto diventare lui stesso astrologo, un giorno. Era ovvio che la faccenda gli stesse a cuore, pensò benevolo Samuel.
-Non stavo ridendo di te- si affrettò a chiarire, alzando le mani in segno di resa. -Ma voi due siete uno spasso quando litigate.-
Alicia e James lo fissarono per qualche istante, dopodiché si scambiarono uno sguardo un po' perplesso. Infine, sorrisero.
-Grazie- squillò allegro James, puntando verso l'ingresso della Turnips. I tre vi approdarono, Samuel spalancò la porta e lasciò che gli altri entrassero per primi.
Nell'atrio brulicante di studenti, lunghe file di armadietti blu notte erano addossate alle pareti giallo canarino. La luce entrava a cascate dai numerosi lucernari, ma l'ambiente rimaneva sempre un po' in ombra. Come ogni scuola che si rispetti, l'aria sapeva di libri, candeggina e polvere, pervasa da un incessante mormorio di sottofondo, come il ronzare di uno sciame di vespe.
Non appena fu dentro, Samuel avvertì addosso una certa pesantezza. Si accorse che molti studenti avevano iniziato a scrutarlo di sottecchi.
Tiny Town era un piccolo centro e di rado ospitava nuovi arrivati. La Turnips era l'unico istituto superiore in città, per cui era ragionevole che molti si interrogassero sulla sua presenza.
Tuttavia, poiché Samuel aveva vissuto gli ultimi dieci anni in grandi metropoli, tra frotte di sconosciuti che non badavano a lui, fu alquanto infastidito da quel trattamento: c'era chi lo squadrava in silenzio, chi lo ispezionava meticolosamente, confabulando con il vicino, chi ad occhiatine languide accompagnava insopportabili risatine isteriche.
Dato il clamore che il suo arrivo sembrava aver suscitato, si domandò più volte se sarebbe stato etichettato come "il ragazzo nuovo" o come "quello asiatico", ma quest'idea scivolò presto via dalla sua mente, non appena vide che James e Alicia non stavano dando più di tanta importanza alla cosa. A dire il vero, sembrava proprio che non si fossero accorti di nulla.
-Allora,- cominciò Alicia in tono pratico -dove hanno detto che devi andare?-
-In segreteria- rispose lui. -Devono darmi dei documenti e farmi vedere la scuola.-
L'altra fece un cenno di assenso. -Molto bene- disse. -Allora ci vediamo più tardi. La segreteria è in fondo al corridoio, prima porta a destra. Se hai bisogno di noi, siamo...-
Ma Alicia fu interrotta dalla voce prepotente di qualcuno. -Samuel!-chiamò. -Benvenuto! Primo giorno, eh?-
Samuel alzò lo sguardo. Dall'altra parte della stanza, in piedi accanto all'entrata, Tyler torreggiava in tutta la sua stazza, mani in tasca e mento in fuori. Era circondato da un capannello di ragazzi chiassosi, tutti più bassi di lui, e al suo fianco ancheggiava una graziosa ragazza bionda dai grandi occhi color nocciola.
A dirla tutta, Tyler Grint non gli era molto simpatico: era un tipo spavaldo, spaccone, e Samuel aveva l'impressione che fosse anche un po' tonto. Tuttavia, da quando era arrivato, Tyler era stato sempre gentile con lui, e Samuel aveva ricambiato con altrettanta cortesia.
Dopotutto, erano stati buoni amici, un tempo.
-Già- rispose laconico, mettendo su un sorriso di circostanza.
-Grandioso- disse Tyler, facendogli l'occhiolino. -Se ti va, passa al nostro tavolo oggi, all'ora di pranzo.
Samuel annuì. Tyler smise di prestargli attenzione e tornò a concentrarsi sul suo crocchio di amici.
James, al suo fianco, si schiarì la voce e si leccò le labbra. Si era fatto piccolo e ingobbito, schiacciato contro uno degli armadietti alle loro spalle. -Tu... parli con Tyler?- gli domandò con voce esile.
Samuel si voltò verso di lui, ma il ragazzo non ricambiò il suo sguardo. Anche Alicia sembrava a disagio.
Come un fulmine a ciel sereno, un'immagine gli attraversò la mente. Rivide una ragazza tremante nella luce del tramonto, sul suo viso l'ombra del terrore più puro.
Laney.
"Scusa, devo andare" aveva detto, prima di scappare via a gambe levate per la seconda volta.
Samuel continuava a rimuginarci da giorni. Ripercorreva ogni istante, ogni gesto, ogni parola. Aveva fatto qualcosa di sbagliato? L'aveva offesa senza rendersene conto?
Era giunto alla conclusione che forse Laney era cambiata, che non era più la stessa bambina solare di dieci anni prima, che non sarebbe più stata disposta a offrirgli la sua amicizia, e quel pensiero lo aveva ferito nel profondo, perché aveva passato fin troppo tempo a idealizzare il suo ritorno a Tiny Town, per contemplare una simile opzione.
Eppure qualcosa non tornava.
Solo pochi giorni prima, Laney aveva reagito all'arrivo di Tyler nello stesso modo in cui ora stavano reagendo Alicia e James: come se fosse il loro peggior incubo.
-Sì- rispose. -Sì, perché?- e lo disse con una certa irruenza, perché notò che James si ritrasse appena.
-Niente, era solo... solo curiosità- glissò sbrigativo l'altro.
Alicia, dal canto suo, rimase in silenzio, gli occhi fissi sugli anellini di metallo che le ornavano le dita.
Ma Samuel non era affatto intenzionato a lasciar cadere il discorso. -Posso farvi anche io una domanda?- chiese.
Entrambi i ragazzi sollevarono la testa di scatto, sorpresi.
-Certo- rispose Alicia.
-Uscite ancora con Laney?- sputò Samuel, tutto d'un fiato.
I suoi interlocutori parvero un po' spaesati. -Con chi?- fece James.
-Laney- ripeté Samuel, cercando di non lasciar trasparire tutta l'ansia che aveva di sapere la risposta. -Media statura, capelli scuri corti... ha gli occhi grandi e la bocca piccolina.-
Ma nonostante la sua descrizione, i due sembravano non avere la più pallida idea di chi stesse parlando. Come era possibile? Avevano trascorso giornate intere a giocare insieme, da bambini. Forse Laney non frequentava la Turnips? Ma era assurdo, era l'unica scuola superiore nel raggio di miglia!
-Davvero voi non...- disse, scrutando basito le facce stralunate dei suoi amici. -Laney- tentò ancora. -Laney Barnes.-
Quel nome parve sbloccare qualcosa, come una chiave che apra un pesante lucchetto arrugginito. James di colpo sbiancò. Alicia sgranò gli occhi a tal punto che Samuel ebbe per un istante il timore che le sarebbero schizzati fuori dalle orbite. -T-tu parli di quella L-Lan...- balbettò, ma le parole le morirono sulle labbra.
Samuel rimase spiazzato. Si sarebbe aspettato di tutto, ma non una reazione simile. Rimase in attesa, mentre gli altri due si scambiavano occhiate complici.
-Non... non molto, in realtà- affermò infine Alicia, senza guardarlo.
-Oh- commentò solo Samuel, incerto, in parte deluso. -E perché?-
James prese un bel respiro profondo, prima di replicare. -Be', ecco...-
Ma fu interrotto.
Un brusio di irrequietezza percorse l'atrio. -È arrivata!- si udì.
Samuel si rese conto solo in quel momento che la maggior parte degli studenti si erano accalcati intorno agli armadietti e lungo le pareti, formando una specie di corridoio umano, largo abbastanza da far passare una manciata di persone.
-Vomito!- urlò di nuovo la voce prepotente, sovrastando tutti gli altri. Questa volta, però, una nota di pura perfidia riecheggiò forte e chiara. -È bello rivederti.-
Samuel fu percorso da un brivido. Alzò lo sguardo.
E lì, in piedi all'entrata della Turnips, ordinaria, del tutto anonima con indosso un comunissimo paio di jeans e una t-shirt grigio antracite, Laney Barnes sarebbe potuta passare inosservata perfino al più acuto degli osservatori.
Ma ora gli occhi di tutti erano su di lei, anche quelli di Samuel, che si trovava in una posizione relativamente privilegiata, vicino abbastanza da scorgere il suo viso, seppure la ragazza mantenesse il capo chino. Laney stringeva fra le braccia pochi quaderni, tutti dello stesso colore, e sulle spalle portava issato uno zaino nero dall'aria pesante.
Subito dopo, Samuel notò una cosa strana: l'ingresso era stato completamente sgomberato dagli altri studenti. Perfino chi era rimasto fuori dalla scuola osservava da lontano, senza osare avvicinarsi. Solo Laney se ne stava sulla soglia, immobile come una statuina. Tyler si era piazzato proprio davanti a lei, un'orribile espressione compiaciuta a deformargli il viso squadrato. Al suo confronto, Laney sembrava minuscola.
-Come sono andate le vacanze?- le domandò mellifluo.
Istintivamente, Samuel trattenne il respiro. L'atmosfera si era fatta tesissima, carica di aspettativa, di previsioni non dette.
"Che sta succedendo?"
Rivolse uno sguardo interrogativo ad Alicia e James, ma nessuno dei due se ne accorse. Assistevano entrambi alla scena in religioso silenzio, gli occhi spalancati, le bocche tirate in linee dure.
Laney non rispose alla domanda di Tyler. Sembrava una bambola scarica, una marionetta senza più fili.
Tyler attese qualche istante ancora, poi emise un suono, come un basso ringhio gutturale, e scalciò. Laney saltò sul posto.
-Ti ho fatto una domanda, Vomito. Cos'è, mammina e papino non ti hanno insegnato che è maleducazione non rispondere quando qualcuno ti parla?-
Quelle parole affondarono in un mare di silenzio. Tutti fissavano la ragazza sulla porta, aspettando una reazione, ma lei continuava a fissare il pavimento. Anche Samuel la guardava, e non riusciva a capire, a elaborare, a pensare.
Laney, la stessa con cui aveva condiviso i primi otto anni della sua vita, la stessa che si era ricordata dei loro braccialetti di perline, che lo aveva ringraziato a Firmament Lane, prima di fuggire veloce come il vento.
Ma ora lei era lì, curva, rigida, spenta, e tremava come una foglia, le nocche delle dita bianche per la pressione che esercitavano sui quaderni.
Era chiaro che aveva paura. E il modo orribile in cui le aveva parlato Tyler, poi...
"Sì, ma perché?"
Samuel aveva un brutto presentimento. Non sapeva spiegare di cosa si trattasse, ma non era niente di buono. Strinse i pugni lungo i fianchi, in allerta.
Solo allora, dalle labbra di Laney uscì un flebile sussurro. -B-ben... be... be...-
La folla radunata nell'atrio rumoreggiò. Molti ridacchiarono.
-BEEE!- fece il verso qualcuno.
-È come una pecora!- muggì viscido qualcun altro, nella mischia.
Samuel fu investito da un'ondata di repulsione. Cercò con lo sguardo chi aveva parlato, ma senza successo. Laney tremava così forte che sarebbe potuta cadere a terra da un momento all'altro.
-Hai fatto i compiti, Vomito?- le chiese Tyler, mettendoli tutti a tacere. Nel suo sguardo, nera e penetrante, brillava una luce cattiva.
Di nuovo Laney non disse neppure una parola, ma qualcuno rispose per lei.
-Che importanza ha?- gracchiò la bionda carina che Samuel aveva notato in precedenza. Si era appostata alle spalle di Tyler, mollemente abbandonata contro il primo armadietto della fila. -Tanto il professor Thompson la promuoverà comunque a pieni voti.-
Dopodiché, Samuel la vide bisbigliare qualcosa nella direzione di Laney. A giudicare dal labiale, doveva suonare molto simile a "bastarda".
Laney sussultò di nuovo. Samuel era stranito. Si sentiva fuori posto, sbagliato, come un pezzo mal incastrato nella trama di un puzzle, e più passavano i minuti, più cresceva in lui un bisogno impellente di fare qualcosa.
Ma che cosa?
Guardò ancora una volta Alicia e James, alla sua destra, in cerca di un gesto, un segnale che potesse fargli capire che cosa stava accadendo.
Il segnale non venne.
James continuava a scrutare Tyler astioso, ma rimaneva immobile, stretto al muro dietro di loro. Quanto ad Alicia, sembrava molto preoccupata. Deglutiva spesso e di tanto in tanto si umettava le labbra, sul punto di dire qualcosa. Però taceva sempre.
Alla fine, quando Tyler raggiunse Laney e le posò una mano grande come una racchetta da ping-pong sulla spalla, la ragazza mugolò un tremulo e impercettibile: -Poverina...-, quasi non avesse avuto la vera intenzione di parlare.
Nel frattempo, il corpo di Laney era scosso da violenti singulti. Stava piangendo?
Samuel avrebbe voluto correre da lei, ma qualcosa lo tratteneva.
Il punto era che lui non comprendeva. Ai suoi occhi, quello che stava accadendo non era affatto normale: una ragazza sola, circondata da un branco di studenti che continuavano a blaterare frasi spiacevoli.
E poi Tyler. Tyler che teneva la mano premuta sulla sua spalla, come se stesse cercando di schiacciarla, Laney che sembrava sul punto di crollare sotto al suo tocco.
Ma tutti erano così indifferenti, letargici, come se avessero visto quella scena ripetersi milioni di volte e sapessero già come sarebbe andata a finire.
Era comune, lì, che si verificasse questo? Era usuale? Era quotidiano? Toccava a tutti, prima o poi? Sarebbe toccato anche a lui, se non fosse rimasto al proprio posto?
Ingoiò saliva acida.
-Bene- tuonò Tyler, senza allontanarsi dalla ragazza neppure di un millimetro. -Spero che tu abbia sfruttato l'estate. Ci divertiremo un mondo insieme, quest'anno. Adesso, perché non raggiungi il tuo armadietto, Vomito?- Nella sua voce si insinuò una nota crudele, diabolica.
Laney non si mosse. Tremava forte, il petto che si gonfiava fino a scoppiare e poi sprofondava di nuovo, agonizzante.
Samuel riusciva a intravedere la sua bocca tra i ricci bruni, spalancata nell'atto di prendere aria, come se stesse soffocando. Sentì anche lui il magone strozzargli l'esofago. Era straziante.
"Fai qualcosa."
-Ho detto,- infierì Tyler -perché non vai al tuo armadietto, Vomito?- Si fece finalmente da parte, osservandola di sotto in su.
Trascorsero istanti infiniti. Samuel ebbe l'impressione di trovarsi in una foto 3D.
Poi, all'improvviso, Laney camminò. Incedé attraverso il corridoio di liceali, lentamente, incespicando nei suoi stessi piedi.
Quando gli passò davanti, Samuel sentì qualcosa lottare dentro di lui, una ressa di emozioni contrastanti.
"Agisci. Ti prego, Samuel, prima che sia troppo tardi."
Laney giunse a destinazione. Si fermò davanti al suo armadietto e attese che gli studenti la lasciassero passare. Si avvicinò al rettangolo, blu come una notte senza stelle. Posò la mano sulla manopola. Esitò.
Mentre una ragazza spalancava il proprio stipo, quella bella mattina di settembre, nell'atrio della Turnips non volò una mosca. Il silenzio fu tale che si udirono solo le automobili transitare sulla strada, oltre il giardino.
Anche se era scossa da brividi e tremiti, sotto gli occhi increduli di Samuel, Laney Barnes spalancò lo sportello con un unico movimento deciso.
E, immediatamente, una valanga torbida e densa si riversò fuori, rovesciandosi sui suoi quaderni, sulla sua maglietta, sui suoi jeans e anche sulle sue comunissime scarpe da ginnastica bianche, ma nuove di zecca, come appena uscite dal negozio.
Sulle prime, Samuel non riuscì a focalizzare che cosa era successo.
Realizzò solo in seguito, quando Laney balzò indietro, urlando e lasciando cadere tutto ciò che aveva con sé; gli studenti intorno a lei fecero lo stesso, cercando di mettere quanta più distanza possibile tra loro e la fitta massa scura.
Nella stanza si scatenò il panico. Molti gridarono, trascinati dalla psicosi, altri risero a crepapelle, divertendosi come non mai. Tra questi, c'era Tyler.
-Ti piace?- chiese, sovrastando il pandemonio. -È il tuo regalo di bentornato!- e, detto questo, si prese la pancia tra le braccia, piegato in due dalle risate.
Ma Samuel non ci trovava proprio niente da ridere.
Laney si dimenava, strillando come un'ossessa, nel disperato tentativo di scrollarsi via quanta più terra possibile. Terra bruna. Terra umida. Terra brulicante di larve e vermi.
Perché le avevano fatto una cosa tanto crudele? Samuel non l'aveva mai vista così, nemmeno da bambina, i lineamenti dolci deformati dall'orrore mentre si sgolava come se avesse voluto strapparsi la pelle di dosso.
-LEVATEMELI!- supplicava tra le lacrime. -VI PREGO! AIUTO!- Stava soffrendo per il divertimento altrui, alla stregua di un'attrazione da circo.
Ma quella era Laney.
La sua Laney.
La migliore amica che avesse mai avuto.
In quel momento, qualcosa scattò. Samuel si ritrovò lì, vigile e presente. Poteva scegliere: restarsene con le mani in mano insieme a tutti gli altri o tentare di salvare la situazione.
Decise che avrebbe tentato. Si fece strada tra la masnada di giovani, mentre Alicia, alle sue spalle, urlava: -Samuel, dove vai?!-
Ma Samuel non la sentiva più. Ogni passo che muoveva faceva montare in lui la rabbia, un senso di protezione feroce e cieco. Perché non aveva agito prima? Che cosa aveva aspettato?
Qualcuno lo spintonò di fianco, sbellicandosi dalle risate. Samuel si voltò di scatto e lo guardò in cagnesco, prima di ringhiargli contro: -Che accidenti c'è di tanto divertente?!-
Il tipo in questione, smilzo e con le guance incavate come quelle di un teschio, fece la faccia di chi ha appena preso un ceffone.
-Ehi...- mugolò, serio e un po' piccato. -Rilassati, amico, è solo uno scherzo.-
"È solo uno scherzo."
Samuel si sentì come se gli avessero tirato addosso una secchiata d'acqua gelida.
Era solo uno scherzo? Una burla innocente? Davvero? Era divertente? Era normale?
Perse altro tempo, attimi preziosi impalato sul posto. Attimi durante i quali gli adulti si precipitarono sul luogo del misfatto per gestire l'accaduto a modo loro.
Samuel li vide venire tutti trafelati, cipigli severi stampati sui volti cerei. Quando si accorsero del loro arrivo, molti studenti se la diedero a gambe. Tyler fu il primo a defilarsi, subito seguito dai suoi scagnozzi.
-Che cosa succede qui?!- sbraitò la donna che capeggiava la spedizione. Indossava un tailleur nero al ginocchio, i capelli grigiastri raccolti in un nodo strettissimo in cima alla testa. Appuntato all'occhiello della giacca, un cartellino bianco la identificava come la preside Rumple. -Fate silenzio!-
Due adulti, un uomo tarchiato sulla trentina e una signora che indossava la divisa da collaboratrice scolastica, andarono dritti da Laney e cercarono di calmarla, non prima di essersi assicurati che le larve non avrebbero assalito anche loro. Nel frattempo, un anziano corpulento era riuscito ad agguantare una studentessa, e ora la scrutava truce attraverso un paio di occhialetti tondi, in bilico sul naso adunco, pretendendo di cacciarle fuori chi fossero i responsabili, sebbene la ragazza continuasse a piagnucolare che non ne aveva idea e di lasciarla andare.
-Non avete alcun ritegno!- esplose alla fine la preside Rumple, la voce tremula annichilita dagli schiamazzi dei suoi studenti. -Siete stati in grado di fare questo perfino il primo giorno di scuola! Ah, ma ve la farò vedere io, ve la farò vedere...-
Detto ciò, fece apparire dal nulla un fischietto di metallo, se lo portò alle labbra e produsse un suono così stridulo e assordante che Samuel fu costretto a tapparsi le orecchie.
Di colpo, nell'atrio calò il silenzio.
-Vi voglio tutti in classe, immediatamente!- tuonò. -E lei, professor Thompson...- L'uomo tarchiato che stava liberando Laney dagli ultimi vermi si voltò di scatto. -Porti Tyler Grint in presidenza il prima possibile. Sono più che certa che abbia a che fare con questo pastrocchio.-
Il professor Thompson annuì serio e si dileguò per il corridoio. Nel frattempo, anche tutti gli altri ragazzi si misero in marcia verso le rispettive aule.
Fu inspiegabile, straniante come un sogno. Samuel si sentì come se lo avessero estratto dal suo stesso corpo. Lui era lì, ma il suo spirito no. Le sue mani, le sue gambe, la sua voce... nulla rispondeva più al suo comando. Stava fermo senza dire o fare niente, senza muovere neppure un muscolo, totalmente, straordinariamente impotente.
Fissava Laney.
"È solo uno scherzo" aveva detto il ragazzo. "Solo uno scherzo."
Ma allora perché lei stava ancora tremando? Perché era occorso l'intervento degli insegnanti, per mettere fine a quella pagliacciata? Perché sembravano tutti tanto terrorizzati all'idea di opporsi a Tyler? E soprattutto, perché lui si sentiva sopraffare da uno stringente, pressante, soffocante senso di colpa?
La collaboratrice scolastica prese il mento di Laney tra le dita, per costringera a guardarla in faccia. -Sappiamo tutti chi è stato, piccina. Basta che tu faccia il suo nome e gli daremo una bella lezione. Avanti- la incalzava, mentre lombrichi e altre creature striscianti si contorcevano sul pavimento scivoloso di fanghiglia.
Ma quando Laney sollevò il viso, i suoi occhi non incotrarono quelli della della donna, bensì quelli di Samuel. Rapido come un battito di ciglia, il ragazzo percepì lo sguardo di lei in un modo che non sarebbe mai stato in grado di descrivere: fu come se gli avessero perforato l'anima. 
Affogò in quella frazione di secondo, in quell'ultimo, effimero istante, lo aspirò, lo dilatò, vi si aggrappò con ogni spazio della sua mente. Un unico sguardo parlò più di miliardi di sterili discorsi.
Samuel lo sentì: Laney non era triste, non era arrabbiata e neppure spaventata. Laney era rassegnata.
"Mi vedi, Samuel? Questo è ciò che io sono ora."
Samuel si irrigidì nell'istante in cui qualcuno posò una mano sulla sua spalla. Si girò. Alicia e James erano proprio dietro di lui. -Sbrighiamoci- gli disse James, nervoso. -Ti portiamo in segreteria.-
Mentre Alicia lo trascinava via, lontano dalla mischia, lontano dai miliardi di domande che rischiavano di fargli esplodere la testa e lontano da Laney, nei pensieri di Samuel riecheggiò una sola frase:
"È solo uno scherzo."

 

Tornando a casa dal suo primo giorno di scuola, Laney si spremette le meningi più che poteva per inventare una buona storia da imbastire


Tornando a casa dal suo primo giorno di scuola, Laney si spremette le meningi più che poteva per inventare una buona storia da imbastire. Suo padre, probabilmente, non era ancora rincasato, ma sua madre sì e di sicuro le avrebbe fatto il terzo grado.
Tanto per cominciare, avrebbe detto che il motivo per cui indossava la tuta da ginnastica era che non aveva avuto voglia di cambiarsi, dopo educazione fisica. Le scarpe nuove si erano sporcate a causa della sua sbadataggine: il campo esterno era pieno di fango e lei non aveva fatto attenzione.
I vestiti impiastricciati di terra, infagottati nel suo zanio, avrebbe provato a lavarli, ma temeva che ormai fossero da buttare. Nel caso, l'avrebbe fatto quando i suoi non erano in giro.
Provò a immaginare una conversazione con loro.
"È andata bene? I tuoi compagni ti hanno infastidita?"
"No" avrebbe risposto sorridendo. È andato tutto a meraviglia." E poi sarebbe filata via, sperando che non indagassero oltre.
Non voleva che i suoi genitori sapessero come stavano le cose; quell'anno, aveva deciso, non avrebbe fatto preoccupare nessuno.
Aperta la porta, entrò in casa in punta di piedi, cercando di fare meno rumore possibile. Se fosse passata inosservata, non ci sarebbero state domande a cui rispondere con menzogne.
Le sarebbe bastato arrivare in camera sua: quello era il suo spazio, la sua salvezza. Come tutte le regole non scritte che ogni famiglia costruisce per sé, i signori Barnes non osavano disturbarla, quando Laney si trovava lì dentro.
La ragazza si guardò intorno. La borsa di sua madre, abbandonata sulla cassapanca alla sua sinistra, le rivelò che era in casa.
Muta come un pesce, Laney attraversò il salone con passo felpato e raggiunse le scale che portavano al primo piano.
Quando fu sul secondo gradino, però, le arrivò forte e chiara la voce di sua madre. -Laney?- chiamò, un po' affaticata. Forse stava rassettando. -Sei tu?-
"Cavolo" pensò mentalmente Laney. "Solo altri dieci gradini..." La porta era proprio lì davanti. Riprese a salire.
-Sì- rispose nel tono più allegro che riuscì a produrre. -Vado in camera mia.-
-Aspetta!- fece la donna. La sua testa sbucò sulla soglia del bagno, ma Laney fu più veloce. Con uno scatto repentino, si gettò in avanti, entrò nella sua stanza e si richiuse la porta alle spalle.
Attese qualche secondo col fiato sospeso. Sua madre non bussò. Sentì immediatamente la tensione che si allentava, lasciandole addosso un vago senso di nausea e stordimento.
L'ambiente era immerso nella penombra. Nessuno aveva riavvolto le persiane, quella mattina, così le imposte erano rimaste chiuse e le tendine tirate.
Si sforzò di non pensare alla camera di Samel, proprio dirimpetto, e si impose di dimenticare il modo in cui l'aveva guardata, nell'atrio. Non avrebbe saputo dire cosa aveva pensato, ma non voleva scoprirlo.
Gli occhi le pizzicavano.
Per prima cosa, Laney si cacciò le scarpe. Provò una fitta di dispiacere, notando come fossero rovinate. Solo poche ore prima erano state di un bianco accecante, le cuciture perfette e le stringhe impeccabilmente tirate. Ora erano bagnate e a chiazze marroni.
Non era arrabbiata, no. Laney aveva smesso di arrabbiarsi da tempo, poiché aveva capito che, anche se la collera l'avesse arsa viva, la situazione non sarebbe mutata di una virgola.
Aveva scelto la strada più semplice: l'accettazione.
Aveva preso atto della situazione e aveva fatto in modo di autoconvicersi che era ineluttabile come lo scorrere del tempo e le tappe della vita.
Un meccanismo di difesa che il suo psicologo – quando ancora era in terapia – aveva definito di "consenso subliminale". E lei non aveva potuto dargli torto, ma anche dopo che aveva ricevuto un nome, il problema aveva continuato a persistere.
Eppure c'era un sentimento che, nonostante tutti gli sforzi, Laney non era riuscita ancora ad appiattire, che costituiva l'ostacolo principale al suo progetto di stoica sopportazione: la frustrazione.
Come un cane che si morde la coda, Laney aveva smesso di arrabbiarsi con i suoi aguzzini e aveva cominciato a rivolgere quell'ira contro sé stessa.
Era così debole, così insignificante, così patetica da non riuscire a opporsi? Era possibile che non ne fosse proprio capace?
Forse, in fin dei conti, lei meritava quel trattamento.
Dopotutto, era giusto che soffrisse.
Singhiozzò. La gola le bruciava come se avesse buttato giù una tanica di olio bollente.
Il punto era che ciò che più la dilaniava non erano gli insulti degli altri, i loro sguardi carichi di derisione, le loro violenze. No, quella era solo la punta dell'iceberg, poiché ciò che le faceva più male, il suo nemico più grande, era proprio lei.
Laney odiava i suoi vessatori e tutte le loro torture, ma odiava ancor di più sé stessa per non essere in grado di soverchiare quell'ordine malato, distorto, perverso che le era stato imposto.
"Reagisci" era la parola che più spesso aveva sentito, in quegli anni, e che più la feriva, sempre pronta a ricordarle quanto fosse inetta, meschina, distruttibile.
"Chi non riesce a ribellarsi, non ha il diritto di farlo."
Stava arrivando, lo sentiva. Avvertiva le lacrime danzare sull'orlo delle sue ciglia, i lamenti che sgomitavano per salirle alla bocca.
Raggiunse lo stereo sulla mensola, stringendo i denti fino a farli stridere tra di loro. Pescò un CD dalla sua collezione, lo infilò nel marchingegno in fretta e furia. Fece partire la musica e alzò il volume al massimo.
Poi, finalmente, pianse. Pianse come aveva ormai imparato a fare da tempo, piano piano, cercando di coordinare il ritmo dei suoi singulti a quello della musica, cosicché nessuno avrebbe potuto accorgersi che si trattava della sua voce e non dei bassi profondi della canzone.
Pianse stesa sul letto, i lucciconi che rotolavano agli angoli dei suoi occhi socchiusi, per poi precipitare giù, lungo le sue tempie, bagnandole i capelli e le orecchie.
Pianse finché non sentì che il sonno si stava impadronendo di lei. Laney amava dormire. Se era abbastanza stremata, neppure sognava. Nel sonno c'era solo oblio, riposo, conforto. Nessun Tyler a tormentarla, nessun Samuel che la esamivana come si fa con un condannato a morte, nessuna coscienza con cui fare i conti. Niente.
Si addormentò e saltò la cena, come faceva quasi sempre, del resto.
Penelope Barnes non osò svegliarla. Si limitò ad apparecchiare per due, mentre suo marito, Edward Barnes, sgusciava nella camera di sua figlia per spegnere lo stereo e rimboccarle le coperte.
Quando fu tornato in cucina, al pianterreno, i due coniugi si scambiarono un'occhiata apprensiva.
-Ha pianto?- chiese Penelope, rimestando pensosa lo spezzatino.
-Sì- le rispose solo Edward, cupo.
E non si dissero altro.

   
 
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