Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: A i r a    26/08/2018    0 recensioni
Uno aveva ucciso la persona più cara che aveva.
L’altro aveva bruciato il proprio futuro.
♦♦♦
Uno provava pateticamente a colmare ciò che ormai non aveva più.
L’altro cercava semplicemente un motivo per andare avanti.
♦♦♦
Uno era la personificazione di una notte d’inverno.
L’altro sembrava più una giornata di Sole con il vento.
♦♦♦
Due soggetti, la cui vita cambiò a causa di un errore, accomunati dal fatto di non sapere che a tutti, prima o poi, è concessa la possibilità di ricominciare.
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren Jaeger, Levi Ackerman, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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♦♦♦
8| Il passato non è mai limpido
 
*** Ore: 21:14 ***
 
Una risata pervase l’appartamento.
«Sei serio?»
«Sì.»
«Ti ricordo che a stento riesco a mantenermi, cosa ti fa credere che riesca a prendermi cura di un gatto?»
Levi fece spallucce. «Se non lo vuoi dallo a qualcuno di affidabile. Ho solo bisogno che qualcuno si prenda cura di uno dei due. All’altro ci penso io.»
Levi che si prendeva cura di una creatura vivente che non fosse un pesce?
«Pff.» Gli scappò. Errore molto grave, al quale cercò di rimediare. «Non pensavo ti piacessero i gatti, ecco.»
«Non è che mi piacciano particolarmente.» Si alzò per andare a prendere un bicchiere d’acqua. «Semplicemente se lo dessi a quella quattrocchi di merda, quel gatto non raggiungerebbe l’anno di vita.»
Ritornò nel piccolo soggiorno con due bicchieri colmi d’acqua. Uno per lui e l’altro per i gatti.
Eren arricciò la bocca leggermente infastidito: era l’ospite dopotutto, e aveva corso per presentarsi puntuale.
«Posso avere dell’acqua anche io?» Chiese più pacatamente possibile. Doveva stare attento a non farlo arrabbiare. Si sapeva, no? Più sono bassi, più sono cattivi quando si arrabbiano.
«Serviti da solo. Ormai la casa la conosci.»
Si alzò e proprio mentre raggiunse l’angolo della cucina, uno strano foglio stropicciato destò la sua attenzione.
Si trovava vicino al grande barattolo di vetro dei biscotti. In quel momento, non seppe se essere più sorpreso nel vedere un foglio stropicciato sul banco della cucina o immaginare Levi che mangiava biscotti.
Senza farsi scoprire lo lesse e lo riconobbe subito. Era il post-it che gli scrisse quel giorno in cui Levi cedette al suo consiglio finendo per addormentarsi.
L’espressione mentre dormiva non se la sarebbe dimenticata facilmente. Le ciglia illuminate dalle luci della città, i capelli leggermente spettinati che gli cadevano sulla fronte come neri fili perlati, la bocca leggermente aperta… sembrava quasi innocente, come quei bambini che si addormentano dopo aver creato il caos più totale.
Il cuore sussultò per poi mettersi una mano tra i capelli, un po’ per vedere se la testa c’era ancora.
Mise a posto il bigliettino mentre con la coda dell’occhio guardava Levi che aveva appoggiato la testa sullo schienale del divano, seduto, immobile e soprattutto stanco.
Con il bicchiere pieno in mano e in preda a un mistico ottimismo ottenuto dopo aver visto il biglietto stropicciato ma conservato, si diresse verso il divano e, fermandosi esattamente dietro di lui, gli appoggiò delicatamente il bicchiere sulla guancia, ancora un po’ gonfia.
Fu la prima cosa che notò prima di entrare.
Ma la freschezza del bicchiere e il gesto inaspettato fecero agire Levi in modo del tutto istintivo: uno scatto della sua mano portò l’acqua a rovesciarsi sul ragazzo, bagnandogli i capelli e la maglia verde militare che stava indossando.
I loro occhi si scontrarono, cercando di capirsi a vicenda ma senza riuscirci.
«S-scusa, sembrava doloroso…» cercò di giustificarsi, ma a questo c’era arrivato anche Levi.
«Tch.» Si alzò senza dire una parola lasciando un Eren mortificato e bagnato alle sue spalle.
Lo sapeva, un altro passo più lungo della gamba. Ma il solo fatto che Levi conservò un bigliettino così insignificante l’aveva reso felice. Sul serio.
Si portò una mano sul viso, cercando di alleviare il caldo che sentiva. Le guance gli andavano a fuoco.
Si chinò per raccogliere il bicchiere che fortunatamente non si ruppe e quando si alzò, vide Levi che gli porse un asciugamano pulito e una camicia bianca.
«Prendi. Vai in bagno.» Più che un ordine era un consiglio, Eren questo lo aveva capito.
Mise piede nel freddo e piccolo bagno e non appena si mise la camicia, il profumo di Levi, inevitabilmente, finì per pervadergli le narici. Si portò il colletto al naso, inebriandosi di quell’acqua di colonia mista a una delicata essenza floreale.
Il suo cuore giocò alla cavallina mentre un nodo in gola si creò; per un secondo, pensò che la droga, nonostante non ne avesse mai fatto uso, sicuramente gli avrebbe fatto lo stesso effetto.
Si rese conto solo dopo del gesto che fece e la sua immagine riflessa nello specchio diceva tutto.
Si vergognò del suo stesso riflesso: era pietoso.
 
Solo una volta gli era capitato di innamorarsi. Se lo ricordava ancora, il primo anno di liceo.
L’ammirazione, la curiosità nel conoscere una persona, il cuore che batteva più velocemente del solito, l’ansia nel rivolger la parola, la mente che si svuotava…
Forse… già dal fatto che si chiamasse Ares, poteva immaginare come sarebbe andata a finire.
Con levi era diverso, però.
 
Si sciacquò la faccia con dell’acqua fresca. Doveva ripigliarsi.
Decise di non pensarci troppo, uscì con l’asciugamano sulla testa e quando rivide Levi, quest’ultimo lo stava invitando a sedersi. Per terra, davanti a lui.
«Che?»
La faccia di Eren era incredula e confusa: per quale motivo avrebbe dovuto sedersi proprio lì?
Voleva tanto sedersi vicino a lui, il posto lì affianco sembrava brillare da quanto era invitante e libero, ma poi vide l’espressione di Levi.
Non sapeva come decifrarla, era più seccata o imbarazzata?
No no, seccata era sicuramente la faccia che stava facendo. Era quella che più gli si addiceva, dopotutto.
«Taci e siediti.» Sì, quella volta fu decisamente un ordine.
Cos’era diventato, sua madre?
Si sedette sul cuscino grigio che Levi aveva preparato proprio ai suoi piedi, così che Eren potesse dargli le spalle.
Levi tolse l’asciugamano dalla sua testa e accese l’asciugacapelli, cominciando ad asciugarli più delicatamente di quanto pensasse Eren.
Con la coda dell’occhio notò il filo leggermente tirato: arrivava a malapena a dove era seduto. Sorrise. Aveva capito il motivo per cui lo fece sedere a terra e notò che quella presa era la più vicina al divano.
Dopo aver sentito le mani di quello scorbutico sulla sua testa, prendere il polso di quest’ultimo fu quasi naturale.
«Posso asciugarmeli da solo.» Disse rimanendo girato verso il camino.
Un attimo di silenzio.
«Ne sono responsabile, quindi sta zitto.»
Sapeva che con l’età i dolori sarebbero aumentati, ma non era un po’ troppo presto per gli infarti?
Restò in silenzio, per un motivo o per un altro, lo aveva preso alla sprovvista.
 
Il silenzio era quasi palpabile, nell’aria vi era solo il rumore del phon e qualche clacson che suonava per colpa di qualche idiota che probabilmente si era addormentato durante il rosso.
Levi non poteva vedere il volto di Eren ma aveva capito che era teso e a disagio, non si muoveva di un centimetro. I suoi occhi plumbei restavano fissi sulla testa del povero ragazzo che per poco non li sentiva da quanto Levi era concentrato. Era un uomo meticoloso, il quale metteva l’anima in tutto quello che faceva.
Grazie all’aria calda mossa dall’apparecchio, Levi poté sentire il tenue profumo dei capelli del giovane a cui mancava solo la nuca ad essere asciugata.
Levi sfiorò quest’ultima con delicatezza ma le sue mani fredde ebbero il potere di scatenare un brivido che portò il povero Eren ad avere la pelle d’oca.
La punta delle orecchie diventavano sempre più rosse e la testa di Eren si abbassò per l’imbarazzo, lasciando scoperto l’osso del collo al quale, subito dopo, Levi diede un colpo leggero: aveva finito.
Spense l’aggeggio e si alzò mettendo via l’oggetto, lasciando Eren seduto assieme alla sua vergogna.
 
L’atmosfera che vi era in quel piccolo appartamento si poteva tradurre con una sola parola: imbarazzante.
Eren sentiva freddo ma era sicuro che quelle dannate finestre fossero chiuse.
Quando Levi ritornò vide un Eren in piedi davanti a lui con due occhi cristallini che lo stavano fissando.
«Cosa ti è successo?» Diretto, sicuro e incisivo. Eren fece il fatidico passo e stavolta non sembrò essere più lungo della gamba. O almeno lo sperava.
Levi rimase impassabile alla domanda che, con fare pacato, si diresse verso la cucina; Eren lo seguì per essere sicuro di sentire la risposta.
Passarono i secondi e Levi, che riempì un bicchiere d’acqua dandogli le spalle, non fiatò. Il giovane non poté fare a meno di notare la larghezza delle sue spalle, le gambe sottili ma robuste, il taglio sfumato verso la nuca scoperta. Era basso, okay, ma era dannatamente ben proporzionato.
Gli occhi affilati del moro andarono a posarsi su un Eren che sobbalzò leggermente dopo che si girò porgendogli il bicchiere d’acqua, dita che afferravano il bordo del bicchiere come se questo scottasse.
Lo strano modo in cui teneva il bicchiere evidenziava le nocche delle sue mani virili e affusolate e dopo che Eren osservò anche quel particolare, si affrettò a prendere il bicchiere rendendosi conto di essere in ritardo nel farlo.
Levi appoggiò la schiena al piano della cucina e mise le mani sul bordo di quest’ultima, poi parlò. Probabilmente voleva coprire quel silenzio imbarazzante.
«Mi ha punto una zanzara.» Affermò serio come se la cosa fosse vera.
Ci fu un momento di silenzio, cui contribuirono anche le macchine che fino a qualche secondo fa clacsonavano come se non ci fosse un domani. Una risata sincera che pervase la stanza alleggerì l’aria creatasi in quell’appartamento troppo affollato per i gusti del moro.
Eren aveva capito fin da subito che qualcuno lo aveva colpito ma mai si sarebbe aspettato una risposta del genere.
«Dev’essere stata…» Una pausa. Il fatto che un tipo come Levi avesse espresso un concetto così banale per esprimere la considerazione che aveva del suo aggressore lo fece impazzire, soprattutto perché era sicuro che quello che Levi aveva sul volto non era niente in confronto al danno che fece al suo avversario.
Le zanzare, di solito, si schiacciano, no?
«Dev’esser stata una zanzara bella grossa.» riprese.
Levi posò una mano sulla sua bocca, coprendola, voltando la testa verso la finestra che dava sulla strada.
C’era la Luna calante.
Eren, tra quelle dita, avrebbe giurato di aver visto un flebile sorriso.
 
*** Ore: 21:39 ***
 
«Mike, hai scoperto qualcosa?»
«Sì, il fatto che mi hai raccontato l’altro giorno era vero: Reiner Braun è un buttafuori del Weak-Flower, la discoteca vicino al parco nord della città. Qualche mese fa, dopo una rissa, si è scoperto che l’attaccabrighe era un individuo che abusava di droga. Se non ricordo male, Annie ha fatto un articolo su di lui.»
Mike aspettava una risposta dall’altra parte del telefono ma sentì solo il respiro di Erwin fermarsi.
«A cosa pensi?» chiese Mike sapendo che Erwin aveva capito qualcosa.
«Niente, ti richiamo io. Grazie.» Riattaccò, lasciando l’amico da solo assieme al caratteristico suono di una telefonata chiusa in faccia.
Erwin, seduto sulla comoda poltrona del suo ufficio, appoggiò i gomiti sulla scrivania, incrociando le dita con la bocca appoggiata ad esse.
Sapeva che Reiner facesse un secondo lavoro ma non sapeva che fosse un dipendente del Weak-Flower.
Quel locale era famoso per lo scandalo che accadde un anno fa: una ragazza fu uccisa da una macchina nera mentre attraversava la strada. Si diceva che la vittima fosse drogata.
I suoi occhi si strinsero in due fessure.
«Droga, eh?»
 
*** Giovedì 7 Marzo – 10:53 ***
 
«Potresti essere la prossima, Cecile…»
Quella mattina si svegliò nell’ennesimo letto sconosciuto.
La sera prima andò a sballarsi in una delle sue discoteche preferite. Non aveva nessun freno, nessuna regola, nessun sentimento. Voleva disperatamente fuggire da quello schifo di realtà che invadeva le sua vita.
Alzò il busto strofinandosi gli occhi e notando che indossava solamente le calze nere, abbinate a quel vestito grigio che tanto si abbinava ai suoi occhi cerulei.
Ad un tratto, un braccio le cinse il collo, facendo avvicinare l’uomo che le giaceva vicino, dandole un bacio sulla guancia destra.
«Divertita stanotte?»
Si girò, quell’uomo avrà avuto circa cinque anni più di lei. L’aveva incontrato in discoteca, il modo in cui ballava l’aveva attratta ma la sua tariffa sarebbe stata comunque la stessa. Disgustosa.
«Mh.» Annuì rivestendosi in silenzio. Non poteva certo sboccargli addosso il drink della scorsa serata.
«Dammi il tuo numero, avanti~» Provò a persuaderla ma l’unica risposta che ricevette in cambio fu:
«Solo se mi darai i soldi che mi avevi promesso.»
L’uomo si guardò intorno per cercare i pantaloni nei quali aveva messo il portafogli. Appena lo trovò, tirò fuori cinquecento dollari.
Li contò velocemente, facendoli scivolare tra le dita poi, dalla tasca dei suoi jeans, la donna prese fuori un piccolo foglio di carta con il numero telefonico già inciso sopra. Aveva imparato alcuni trucchi prima delle uscite notturne e questo era uno dei tanti.
«Tieni,» iniziò porgendogli quel pezzo stropicciato tra due dita. «Questo è il locale in cui lavoro.»
E dopo ciò, lasciò quella topaia d’appartamento. L’ultimo pensiero che le balenò per la testa, fu la speranza di non aver incontrato alcuna malattia.
 
I suoi genitori divorziarono quando aveva solo cinque anni. Fu affidata alla madre, poiché in giro si diceva che il padre affondava le sue sofferenze nell’alcool.
A dodici anni, però, la sua vita cambiò.
«Donna, trentasei anni. Trauma cranico e perdita della gamba destra. Un camion ha perso il controllo.»
«Portatela in sala operatoria! Presto, presto!»
«Mamma! Dove la portate? No, lasciatemi, voglio andare con lei! Mamma!»
Il funerale fu breve, quasi quanto l’ultimo addio che la piccola Cecile rivolse alla madre.
Quell’immagine si impresse nella sua testa, indelebile. Anche quel giorno, la madre indossava il rossetto rosso che portava sempre per andare a lavorare. La mattina, era solita dare un bacio sulla morbida guancia della figlia, lasciandole sempre il segno delle sue labbra. Le diceva che in quel modo non l’avrebbe mai abbandonata.
Quando Cecile si asciugò le lacrime, realizzando una volta per tutte che la madre avrebbe dormito per sempre in quella fredda e scomoda bara di legno scuro, si avvicinò pacatamente a lei, sotto gli sguardi di tutti.
Si fermò di fronte a lei, a pochi centimetri dal suo corpo poi, da una delle due tasche dei suoi jeans preferiti, prese il tanto amato rossetto alla quale la madre era affezionata.
Lo aprì, sentendo per l’ultima volta il profumo di quelle giornate. Se lo mise, sorridendole come quest’ultima faceva con lei prima di darle un buffetto sulla guancia per poi baciarla.
Fece lo stesso.
La toccò. Era fredda. La pelle non era più elastica come quando facevano le smorfie insieme.
Le lacrime rigarono nuovamente la guancia di Cecile che, con un bacio sulla guancia, le diede l’addio definitivo.
Il segno delle sue piccole labbra le avrebbero fatto compagnia per l’eternità.
 
Lei era un vetro rotto, come quelli che si trovano sulla spiaggia in estate.
Non quelli levigati dall’acqua, ma quelli con ancora i bordi taglienti e pericolosi. Quelli a cui se ti avvicini, ti fai male ma che, se preso nel modo giusto e messo alla luce del Sole, risplende di più.
 
La perdita della madre portò l’affidamento al padre che, nel frattempo, si era già fatto un’altra famiglia.
La donna con la quale si risposò era più giovane di lui di quasi dieci anni e la figlia ne aveva circa sei.
Quella bambina era il gioiello della famiglia e Cecile, solamente la sua ombra.
Nel vicinato la famiglia di Cecile era una delle più rispettate ed elogiate del quartiere. Tutti ammiravano le due figlie ma i sorrisi dell’uomo ormai cinquantenne, diventavano sempre meno.
Ogni sorriso mancato si tramutava in un atto di violenza contro la moglie che ogni volta difendeva la piccola Cecile.
«Hai sentito le urla scatenate dei Ral, la scorsa notte?»
«Certo. Ho sentito che la figlia più grande, Cecile, è scappata di casa.»
Fu l’unica soluzione e anche l’inizio della sua vita, mettendo dentro uno zainetto il minimo indispensabile.
Non era pronta ma era certa che non sarebbe tornata indietro. 
La strada, quella notte di primavera, era ben illuminata, come per accoglierla tra le sue braccia.
Con sé, un ombrello rotto, una sciarpa sgualcita e un rossetto rosso.
 
Da quel giorno passarono diciannove anni, passati tra i locali più sporchi, droghe, relazioni instabili, tradimenti e fallimenti. Aveva trovato un lavoro come cameriera in un locale non molto lontano dalla riva del fiume della città e, per arrotondare, ‘intratteneva’ i clienti in un pub in periferia.
Era la regina del locale, altrimenti conosciuta come Chloe.
 
*** Ore: 22:38 ***
 
«Alcidamante, guarda cos’ho qui!»
Era convinta che agitando ripetutamente il sacchetto dei croccantini quella palla di pelo sarebbe venuta verso di lei, ma si sbagliava, e di grosso.
Sotto il mobile di legno, vicino al televisore, il gatto era messo in posizione di guardia, zampe basse e sedere leggermente in su. Hanji poteva vedere le pupille di quegli occhi verdi dilatarsi sempre di più e capì che la preda era diventata lei.
Non ebbe nemmeno il tempo di indietreggiare poiché era stesa per terra, a pancia in giù, sul pavimento dell’appartamento di Levi che, in quel momento, stava leggendo un libro.
Tutti e dieci gli artigli del piccolo gatto andarono a conficcarsi sulla faccia della povera Hanji che si alzò urlando istericamente.
«Levi, fa qualcosa!» Urlò agitando le braccia all’aria. Per fortuna aveva addosso gli occhiali, quindi gli occhi erano salvi. Forse.
«Te lo meriti. Con quel nome, le prenderesti persino da Ray.» Attaccò Levi voltando pagina con nonchalance.
Ray era il figlio ipotetico di Hanji. Qualche mese fa saltò fuori il discorso della vecchiaia, dell’avere troppe cose da fare e troppo poco tempo per svolgerle e, una di queste, era crearsi una famiglia.
Hanji affermò di voler almeno due figli e uno di questi, maschio o femmina che fosse, si sarebbe dovuto chiamare ray, in onore degli “x-ray” che tanto amava. Aveva sempre sognato di vedere attraverso le cose con i propri occhi. Un sogno impossibile, perverso, assurdo e malato. O almeno era questo quello che Levi pensava.
Hanji finì di lottare contro la piccola creatura e, dopo averlo messo per terra e vederlo correre sopra uno scaffale pieno di libri, si buttò sul divano di fianco all’uomo. Per poco non gli fece cadere gli occhiali da lettura.
«Ce l’ho fatta.» disse sfinita e sconfitta.
«Tch.» Con tutto quel casino non aveva capito le ultime tre righe.
«Dai Levi, non startene lì a fare l’asociale! Aiutami a trovare un nome per quel gatto.»
«Non vedi che sto leggendo?»
Era curiosa, quasi come il piccolo gatto che in quel momento se ne stava sopra uno dei tanti scaffali bianchi.
Si avvicinò al moro e allungò il collo per vedere che tipo di libro stesse leggendo. Levi era leggermente irritato.
«Come si chiama il protagonista?» chiese Hanji nella speranza di scorgere un nome “da gatto”.
Levi continuava a leggere, o almeno ci provava. Sì, perché la sola presenza di Hanji ti scuoteva l’anima, anche se a Levi faceva più scuotere qualcos’altro.
«Kevin.» rispose annoiato dall’allegria dell’ultra trentenne.
Gli occhi della donna si illuminarono.
«Come il protagonista di “Mamma ho perso l’aereo”!»
Ad Hanji piaceva quel nome, ma non era abbastanza… gattesco.
«Nivek!» Esclamò dopo aver ribaltato il nome al contrario. Pensò che per quel gatto fosse particolarmente adatto, considerato il fatto che Levi era spesso fuori casa e che, di conseguenza, il gatto sarebbe stato solo dentro casa come il protagonista del film.
Sì sì, Nivek era perfetto.
«Vada per Nivek. Sono un genio! Vero?»
Si rivolse a Levi con fare entusiasta, come se le fosse stato detto che sarebbe andata al luna park. Ahimè, però il moro non sembrava tanto entusiasta quanto lei. Anzi, sembrò che non gliene fregasse nulla. La sua espressione era uguale a come quando entrò in quel freddo appartamento, forse con qualche vena pulsante in più.
«Vero?» ribadì inarcando di più le sopracciglia, sperando in una risposta.
Ricevette solo un’occhiataccia, la quale le scatenò un brivido di paura. Lo sguardo fulminante del moro era a dir poco terrificante.
L’occhialuta sospirò principalmente perché era annoiata. Ora che il nome del gatto era già stato deciso, non c’era più niente di “divertente” da fare. Così, decise di dar da mangiare al pesciolino.
«Ora che ci penso, questo pesciolino ce l’ha un nome? Altrimenti gliene do uno io, già che ci sono.»
Il pesciolino rosso dal muso bianco e la coda leggermente rovinata cominciò a nuotare verso la superficie dell’acqua, andando incontro al cibo.
«Vediamo…» La bruna cominciò a studiare il piccolo pesce, provando a trovare un nome che lo rispecchiasse. «Talete.» Basta con i nomi di filosofi. Ci voleva qualcosa di meno… umano.
«Nettuno.» Nah, troppo imponente per una creatura così piccola. Forse ci voleva qualcosa di più… magico.
«Sailor Mercury.» Okay, qui si stava sfiorando il delirio. Ci voleva qualcosa di più… realistico.
«Mississippi.» Troppo lungo. Anche se forse avrebbe potuto abbreviarlo con Miss. Ippi…
«… un nome. Hai capito?»
Si voltò di scatto dopo aver sentito la sua voce e fece la solita espressione da “non-ho-capito-puoi-ripetere”.
«Ho detto che quel pesce ce l’ha già un nome.» Disse impugnando leggermente più forte il libro che teneva con la mano sinistra e alzando lo sguardo sulla donna davanti alla boccia di vetro.
«Non lo sapevo. E qual è?»
Ci fu un attimo di silenzio prima della risposta.
«Enif.»
Era da tanto che non lo chiamava per nome.
«Lo chiamerò Enif, come la stella che abbiamo visto al planetario.»
Gli occhi plumbei dell’uomo restarono a fissare il pesce per qualche secondo, come se fosse intrappolato anche lui in quella bolla di vetro.
«Va a casa. È tardi.» Ruppe il silenzio ormai stanco del caos che stava facendo.
Hanji mise il broncio. Il tipico broncio che fa un bambino quando gli si nega un giocattolo.
«Perché mi mandi via?» Chiese facendo gli occhi da cerbiatto, capace sin da quando era piccola. Hanji odiava stare da sola, per questo spesso invadeva l’appartamento di Levi. Per lei, lui era il suo migliore amico. Se non fosse per il tentato omicidio da parte del moro, lo abbraccerebbe sempre. Anche al lavoro.
«Sono stanco.»
«Ma io voglio continuare a parlare con te!»
Levi alzò un sopracciglio chiudendo con forza il libro che stava leggendo. Si rassegnò all’idea di non riuscire a finire il capitolo.
«E di cosa, sentiamo.» Si tolse gli occhiali da lettura. Era stanco anche di pensare.
«Del tuo super animale domestico.»
«Super?»
«Ma sì, il randagio.»
«Oi, quattrocchi di merda, ti è andato a male il cervello?»
Hanji ruotò gli occhi. «Eren.»






 Schizzo Time 
Il capitolo mi è uscito un po' lungo... ^^" 
Bene! In questo capitolo compare Cecile, la sorellastra di Petra. Una donna che ne ha passate tante e che ne combinerà altrettante.
Eren e Levi cominciano ad avvicinarsi un passo alla volta mentre Hanji diventa sempre più insopportabile (agli occhi di Levi, ovviamente).
Come si fa a non amarla quella donna?
Nel prossimo capitolo il gatto di Eren adempirà al suo compito e finalmente qualcosa si smuoverà.
Mamma mia, siamo già a settembre. Ma come è possibile? O.O Vado a mangiarmi un gelato, mi sta scendendo la depressione.
Baci,
Aira.
  
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