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Autore: Blakie    30/08/2018    4 recensioni
«Mi sei mancato così tanto mentre non c'eri, Daryl Dixon».
Una versione alternativa in cui Beth e Daryl si ritrovano tra le mura di Alexandria.
[bethyl | alexandria what if]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beth Greene, Daryl Dixon
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
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14. Words

 

L'alba arrivò finalmente a rischiarare la più oscura delle notti, a mettere fine alla più lunga delle giornate. Nel chiarore del primo mattino, avanzavo con stanchezza per le strade della città, disseminate di cadaveri di vaganti. Arrivai davanti all'infermeria, dove le stesse persone che avevano combattuto per proteggere Alexandria stavano aspettando di essere medicate. Ciò che si presentava di fronte a me era l'esatto ritratto della quiete dopo la battaglia. Scorsi con lo sguardo i loro volti esausti, la loro postura leggermente ricurva, mentre aleggiava il silenzio.

Ce l'avevamo fatta: eravamo riusciti a difendere la nostra città, a combattere fianco a fianco come una comunità unita, a proteggerci gli uni con gli altri. Il sole era sorto e Alexandria era ancora nostra, proprio come avrebbero voluto Deanna, o Reg, o Noah. Eravamo distrutti, sfiniti, ma ancora vivi.

Mentre attraversavo il porticato, sorrisi stancamente alla mia gente, felice di poterlo ancora fare. Avevamo perso delle persone, purtroppo, ma la zona sicura era ancora in piedi e noi, nonostante l'orda immensa di vaganti, eravamo sopravvissuti.

«Ho portato le bende e i disinfettanti», mi annunciai, chiudendo la porta alle mie spalle. Denise si stava occupando delle ferite riportate da Glenn, Maggie era stesa su un lettino mentre Josie controllava la sua salute e quella del mio futuro nipotino – il cuore ancora mi si riempiva di tenerezza e sorpresa, tutte le volte che ci pensavo. Michonne, sulla soglia della stanza da letto al piano terra e con in braccio Judith, osservava Rick al capezzale di Carl.

Quando lo avevo ritrovato in infermeria, con un occhio bendato e privo di sensi, ero rimasta scioccata. Lo shock era raddoppiato quando mi avevano raccontato come era successo: Sam aveva attirato l'attenzione dei vaganti ed era morto divorato, come Jessie. Ron, sconvolto, aveva provato a sparare a Rick, ma quando Michonne lo aveva trafitto per impedirglielo, era partito il proiettile vagante che aveva colpito Carl. Tutto quello mi era sembrato inconcepibile, assurdo.

«Come sta?», domandai a bassa voce a Michonne, osservando il mio amico.

Lei si lasciò andare ad un sorriso stanco. «Si sta riprendendo».

Annuii e sorrisi fiduciosa, appoggiandole una mano sulla spalla. «Carl è forte. Ed è già sopravvissuto a una cosa simile, dopotutto».

Michonne cullò Judith, che si era agitata appena, e le appoggiò le labbra sulla fronte. Poi si voltò verso di me. 

«Rick ha cambiato idea, Beth».

«Riguardo a cosa?».

«Su Alexandria e la gente che è arrivata qui prima e che, stanotte, ha combattuto con noi. Rick... lui ha visto un cambiamento in loro: adesso è convinto che possano farcela, che tutti insieme possiamo riuscire a rendere Alexandria la comunità che Deanna ha sempre sognato. Vuole ricostruirla e vuole che Carl veda l'inizio di questo nuovo mondo. Alexandria è il nuovo mondo, Beth. Ora Rick lo sa, l'ha capito».

Se non fossi rimasta così imbambolata da quella rivelazione, probabilmente avrei gridato per la gioia. Era tutto quello che avevo desiderato sin da quando la mia famiglia si era presentata ai nostri cancelli: che Rick capisse il potenziale di questo posto e che il nostro viaggio poteva finalmente terminare, perché eravamo a casa. Ero così felice che l'unica cosa che riuscii a fare fu stringere appena la spalla di Michonne e appoggiare la tempia alla sua, i nostri sguardi rivolti al nostro leader e a suo figlio.

«Possiamo ricominciare da capo, tutti insieme. Come sognava Deanna», affermai, senza riuscire a smettere di sorridere.

Michonne, spostando Judith sull'altra spalla, sollevò la mano verso di me e mi accarezzò una guancia, in modo materno. «Deanna ci ha accolti ma, se non fosse stato per te, non sono certa che saremmo rimasti qui».

Scossi la testa, un po' imbarazzata e un po' emozionata. «Nah, ci sarebbe voluto un po' più di tempo, forse. Ma il risultato non sarebbe cambiato. Io sono semplicemente stata una garanzia in più sul fatto che qui sareste stati al sicuro».

«Quello ha aiutato molto, certo. Però sei tu quella che ha creduto sin dall'inizio in una convivenza pacifica, nonostante le difficoltà. Ed è proprio di questo che avevamo bisogno», replicò, materna.

Devi solo credere un po' di più al tuo ruolo all'interno del gruppo.

Mi tornarono in mente le parole di Deanna ed il cerchio si chiuse. Fu la prima volta in cui sentii di essere importante per il gruppo e non soltanto la ragazzina spacciata che andava sempre e costantemente protetta. In seguito a quella specie di epifania, emersero dai ricordi anche le parole che mi aveva rivolto Daryl qualche sera prima: beh, è il tuo ruolo, quello di sperare. Com'era possibile che lo avessero capito tutti e ben prima di me? Io ero utile, per la mia famiglia. Avevano bisogno di me e finalmente ero abbastanza forte per riuscire a proteggerli.

Quella nuova consapevolezza mi riscaldò il petto e mi diede la grinta per mettermi al lavoro e aiutare Josie e Denise a occuparci dei feriti. Non ci fermammo un attimo, se non per mantenerci idratate; la notte era stata un inferno e non avevamo dormito, ma nessuna di noi sembrò essere tanto stanca da non riuscire a prendersi cura delle persone a cui disinfettammo, ricucimmo o bendammo qualsiasi ferita ci venne presentata. Eravamo inarrestabili e non ci saremmo fermate fin quando non ci fossero più stati abitanti di cui prenderci cura.

Solo quando controllai nuovamente Carl – stava ancora dormendo, ma i segni vitali erano molto buoni – mi lasciai andare su una sedia, stravolta, ma con un gran sorriso sulle labbra e la gioia che traboccava dal mio cuore.

Ora che avevo più tempo per pensare, mi resi conto che l'unica persona che mancava all'appello dei pazienti era Daryl Dixon. Mi alzai e andai a disinfettarmi le mani, in vista della mia ultima fatica.

«Denise, sai dov'è Daryl?», domandai alla mia collega, mentre buttava via ciò che le era servito per medicare Rosita.

«Ha preferito lasciare andare prima gli altri, si è accontentato solo di un tampone per coprire la ferita», mi rese partecipe. «È qui fuori, ora lo chiamo e lo ricucio».

«Non preoccuparti, ci penso io. Vai a riposarti, te lo meriti».

«Ma Beth, hai una faccia esausta e–», tentò di protestare, ma la interruppi.

«Dovresti vedere la tua», ribattei, con un sorriso. «L'intervento che hai fatto a Carl è stato difficile, in più ti sei occupata anche degli altri. Vai a riposare: tra qualche ora, se vuoi, puoi darmi il cambio».

Prima di ritirarsi in camera sua, al piano di sopra, provò ad opporsi e a ringraziarmi un altro paio di volte, ma non mi sfuggì il sollievo che le infondeva l'idea di stendersi, finalmente, su una superficie morbida. Il chiarore dell'alba stava lasciando lentamente posto alla luce del mattino, anche se i toni erano rimasti tenui e l'aria era ancora fredda. Trovai Daryl abbandonato su una poltroncina del portico, che sonnecchiava con le braccia incrociate al petto e il busto leggermente inclinato da un lato, per non gravare sulla ferita alla schiena, le gambe allungate davanti a sé.

Guardando il suo viso, la consapevolezza che ero stata vicinissima a perderlo si accese nel mio petto con un'intensità dolorosa. Fissai i suoi tratti, le sopracciglia aggrottate e gli occhi chiusi, ricordando quanto mi fossi dannatamente spaventata quando se n'era andato in missione senza dirmi una parola, sparendo i successivi due giorni. Tutta la rabbia che avevo represso quando lo avevo rivisto, iniziò a ribollirmi sul fondo dello stomaco, cancellando qualsiasi altro sentimento amichevole.

Ero grata di potermi ancora arrabbiare con lui, di poter litigare con lui.

«Daryl, è il tuo turno», lo svegliai, con fermezza.

Sussultò appena, aprendo gli occhi fissi sul pavimento. Si stiracchiò, attento a non farsi male alla schiena e si alzò in piedi.

Prima che entrasse, aggiunsi: «lì devo sistemare tutto. Ti medicherò di sopra, prima stanza a sinistra».

Annuì, superandomi senza degnarmi di una parola.

Sapeva che ero arrabbiata e che le cose tra di noi non erano a posto: se non altro, aveva preso sul serio il mio avvertimento di poche ore prima.

Entrò nell'ambulatorio, lasciandomi sotto il portico da sola: dopo qualche secondo di esitazione, lo seguii. Mi fermai un momento a prendere l'occorrente per mettere dei punti alla sua ferita. Salii le scale e, quando entrai nella stanza, lo trovai che mi aspettava, scrutando fuori dalla finestra, vicino al lettino.

Quando sentì la porta chiudersi, si voltò verso di me, incatenando lo sguardo al mio. Anche se erano una decina di passi a separarci, i suoi occhi ebbero lo stesso effetto che avrebbero avuto se me lo fossi trovata davanti: erano profondi, freddi ma accoglienti. Erano capaci di ipnotizzarmi e farmi dimenticare qualsiasi cosa, qualsiasi dolore. Ci stavamo studiando, stavamo discutendo senza dire una parola: dal canto mio, lo guardai con l'espressione più seria e sostenuta che riuscissi a fare. I primi momenti li passammo così, ad osservarci l'un l'altra.

Tossii nervosamente, per schiarirmi la gola e avanzai verso di lui. «Siediti».

Lanciò uno sguardo a quello che avevo in mano, mentre prendeva posto sul lettino. «Non mi servono i punti».

Gli andai alle spalle, notando subito quanto fossero logori i suoi vestiti. Le sue braccia erano ricoperte di sangue, terriccio e... cenere? 

«Lascia che sia io a deciderlo. Avresti potuto farti una doccia, rischi di beccarti un'infezione così», sbuffai, aiutandolo a togliersi il gilet; anche la camicia che indossava sotto si era sdrucita irrimediabilmente: la parte che copriva la schiena si era del tutto scucita dal colletto. Chissà cosa gli era capitato.

Daryl borbottò qualcosa, contrariato; sussultò, quando gli posai la garza imbevuta di acqua fredda sul braccio destro e iniziai a strofinare, per pulirlo. Ripetei lo stesso procedimento con l'altro braccio e finii sulla schiena, cercando di levare lo sporco, soprattutto attorno alla ferita. Non era molto profonda, ma sarebbero stati comunque necessari un paio di punti. 

Lo asciugai con un tovagliolo di carta e imbevetti una nuova garza col disinfettante, tamponando la ferita con cura. «Il taglio non è molto grave, ma va comunque cucito», lo avvisai, distaccata. 

«Avevo proprio voglia di fare la bambola di pezza», mi schernì con uno sbuffo, ma lo ignorai.

Iniziai a ricucirlo con delicatezza, concentrandomi su quello che stavo facendo per evitare di fargli male. Era tosto, Daryl: anche se non avevo anestetizzato la zona attorno al taglio, stava sopportando il dolore come se nulla fosse. Riuscivo a notare i muscoli della schiena ben tesi, nonostante cercasse di mantenere una postura rilassata.

Mi resi conto che non avevo mai visto Daryl senza maglia e, mentre tagliavo il filo da sutura in eccesso, mi ritrovai ad indugiare con lo sguardo sulla linea delle sue spalle nude. La sua pelle era calda e tesa sotto le mie dita e la sua schiena, libera da ogni indumento, sembrava ancora più ampia e accogliente. Pensai alle volte in cui mi ero stretta a lui, affondandoci il volto e sentendomi a casa. A quando lo avevo tenuto stretto a me mentre sputava fuori la rabbia per se stesso, fuori dal capanno. E a quanta voglia avevo, anche in quel momento, di toccare la sua pelle per sentirmi al sicuro.

Era dolce e doloroso insieme, perché le vecchie cicatrici che gli solcavano la schiena mi ricordarono quanto Daryl avesse sofferto fin da giovanissimo. Era la prima volta che le vedevo e scatenarono subito un forte senso di protezione, dentro di me; mi venne da pensare che lui, in realtà, fosse ancora più fragile di quel che pensavo, nonostante la sua facciata da duro. Il nodo allo stomaco si strinse e la mia mente cominciò a riempirsi sempre più di pensieri, consapevolezze e immagini: avrei potuto perderlo, quella notte. Avrei potuto perderlo, mentre era là fuori, disperso assieme ad Abraham e a Sasha. Ed io non potevo, per nessuna ragione al mondo, perdere Daryl Dixon. Tutto il terrore e l'angoscia che avevo provato in quelle ore interminabili che ci avevano separato mi si riversarono addosso, attanagliandomi lo stomaco, gonfiandomi la gola e riempiendomi gli occhi di lacrime. Misi ago e filo da parte, e, lentamente, appoggiai la fronte contro la sua spalla.

«Non farlo mai più», singhiozzai, arrabbiata. «Non ti azzardare mai più ad andartene senza dirmi una parola»

Daryl ebbe un fremito ma non si scostò, né mi rispose.

«Sono morta di paura, stronzo. Sono morta di paura, lo sai?», inveii in un sussurro, circondandogli i fianchi con le braccia e stringendolo a me.

In un primo momento, l'arciere rimase immobile, mentre continuavo a singhiozzare contro la sua pelle e a tenerlo stretto. Poi, ad un certo punto, sentii una sua mano posarsi sulle mie, ancora allacciate sul suo ventre. Le sue dita scivolarono poi sulla pelle del mio braccio e si chiusero attorno al mio gomito, come a trattenermi. Non potevo vederlo in viso, ma ormai lo conoscevo abbastanza da riuscire ad immaginare la sua espressione.

«Odiavamo entrambi gli addii, o sbaglio?», mormorò, la voce spenta. Mi sembrò improvvisamente stanchissimo, con la schiena ricurva e le spalle afflosciate.

Sentii l'irritazione pervadermi e formicolarmi sottopelle. Continuai a tenerlo stretto ma alzai il capo per per cercare i suoi occhi, ma non voltò la testa di un millimetro.

«Non rigirare la frittata, adesso. Sei sparito nel nulla, Daryl!», lo accusai con rabbia, divincolandomi poi dalla sua stretta, come se scottasse. Raggirai il lettino e mi parai di fronte a lui. «Sei sparito senza dirmi niente mentre qui andava tutto a puttane!». Tutto il nervosismo, la paura, il terrore che avevo provato in quei giorni infernali stavano scivolando fuori da me in quello sfogo rabbioso; era come se la bolla d'aria che mi stava opprimendo il petto si stesse lentamente svuotando.

«Prima l'attacco di quei selvaggi, poi Glenn che sparisce, le mura che crollano, la gente che muore. Ciliegina sulla torta: tu che te ne vai senza dire una parola, perché sei Daryl Dixon! E sei incazzato puoi fare il codardo, puoi fare quello che ti pare e non degnarmi nemmeno di un “ciao”, prima di andartene! Hai pensato, anche solo per un secondo, a come mi sarei sentita io, se ti fosse successo qualcosa?! A maggior ragione se l'ultima volta che ci siamo visti abbiamo litigato, tanto per cambiare».

Daryl continuava imperterrito a sorbirsi tutte le mie accuse, guardandomi con un'espressione indecifrabile, resa torva e illeggibile a causa capelli gli ricadevano sul volto. Sembrava quasi… triste. E tormentato. Ma la sua espressione ricordava vagamente anche quella con cui aveva cercato di farmi capire che aveva cambiato idea sulle persone, grazie a me. Un'espressione alla quale non potevo restare indifferente. Ero incazzata, certo, ma Daryl mi stava guardando così. Dannazione. I pensieri si stavano facendo sempre più confusi nella mia testa, ma provai comunque a sostenere il suo sguardo.

Dopo qualche istante di silenzio, Daryl si degnò di rispondermi. O meglio, provocarmi.

«Non credevo di doverti chiedere il permesso per uscire da qui», disse, con lo stesso tono di voce indifferente.

Sentii chiaramente il sangue salirmi al cervello e gli occhi spalancarsi dall'esasperazione. «Che ragionamento è?! Solo perché una persona tiene alla tua incolumità vuol dire che vuole automaticamente farti da balia? Pensavo che lei fosse più intelligente, signor–».

Daryl chiuse gli occhi e grugnii. Ed io non riuscii a continuare, perché si era improvvisamente allungato verso di me, mi aveva afferrato per un polso e strattonato contro il suo petto, intrappolandomi in un abbraccio.

«Mi sono mancate le tue chiacchiere estremamente irritanti, ragazzina», sospirò tra i miei capelli.

Sentii la mia rabbia disinnescarsi in un secondo, stretta così tra le sue braccia, ma cercai disperatamente di rimanere coerente ai miei propositi.

«Vaffanculo, Daryl», sbottai, la voce spezzata attutita dalla sua spalla.

Lo sentii sbuffare una risata e, a quel punto, non ci fu più niente da fare per me: ricambiai quella stretta con energia, beandomi del calore della sua pelle nuda contro la mia – e desiderai segretamente di avere qualche strato di tessuto in meno anche io. Ripensai alle cicatrici e lo strinsi ancora più forte.

Rimanemmo abbracciati per un po', finché non mi scostò con gentilezza da sé.

«Sei stata brava», disse all'improvviso, cercando di mantenere un'espressione neutrale. Appoggiò gli avambracci sulle cosce, facendo dondolare le gambe.

«Perché?».

«Perché ce l'hai fatta anche senza di me».

Rimasi interdetta per qualche secondo. Cosa diavolo significava, quell'uscita? Pensai che, probabilmente, stava solo cercando di sdrammatizzare, o prendermi per il culo. O forse, in maniera molto contorta, mi stava facendo... un complimento? Era orgoglio, quello che sentivo nella sua voce?

La mia confusione doveva essere evidente, perché si schiarì la voce e cambiò posizione, distendendo il busto all'indietro e appoggiando le mani sul lettino. «Ti sei fatta valere».

In quel momento, mi sentii esattamente come quando si era presentato a casa mia con le cose di Noah: con il cuore che traboccava di emozioni che non sarei mai riuscita a trasmettergli a parole. La voglia di rispondergli con un bacio si fece spazio dentro di me con l'irruenza di una tempesta. Pensai al fatto che avrebbe potuto respingermi fermamente stavolta e rifiutarmi; che avrebbe potuto allontanarsi di nuovo; o, ancora, che avrebbe potuto insultarmi per essermi presa troppe libertà, contro il suo volere e le sue maledette paranoie.

In tutti e tre i casi, trovai un'unica risposta: al diavolo!

Approfittando del fatto che fosse seduto e che la sua altezza fosse più accessibile, gli presi il viso tra le mani e mi sbilanciai verso di lui, intrappolando le sue labbra in un bacio – che preferii non approfondire. Lui, ovviamente, si irrigidì dalla sorpresa, ma la sua reazione non fu repentina come l'altra volta. Dopo qualche attimo separò le nostre labbra, ma con gentilezza. Contro ogni previsione, nelle sue iridi non trovai tormento, rabbia o dubbi, ma un mare di calma.

Io, invece, mi sentivo le guance in fiamme e il cuore mi martellava nel petto, ancora incredula per la reazione pacata che Daryl aveva avuto. Sfiorai il suo naso col mio e appoggiai la mia fronte alla sua, chiudendo gli occhi per cercare di reggermi sulle mie gambe di gelatina.

Ha lasciato che lo baciassi, realizzai. Il che non equivaleva a dire “mi ha baciata”, ma eravamo sulla buona strada. Chissà cosa era mutato in lui, per arrivare a cambiare atteggiamento così repentinamente, da un giorno all'altro.

Deglutii a vuoto, sentendomi la testa leggera. Era un po' come essere brilla, ma era il suo respiro contro il mio ad essere così inebriante.

«D-Dovremmo parlare di alcune cose. Sempre che tu non te ne voglia andare di nuovo, ma questa volta ti rincorrerei con ogni mezzo. Perché, sì, sai, dobbiamo assolutamente parlare», vaneggiai in un sussurro, tenendo ancora gli occhi chiusi.

Daryl inspirò dal naso, rispondendomi solamente con un «mh-mh» e scostò la fronte dalla mia, raddrizzando la schiena.

«Bene», conclusi, riaprendo gli occhi e allontanandomi a mia volta. «Se provi a sparire di nuovo, l'invasione di ieri ti sembrerà una passeggiata», lo minacciai, raccogliendo tutto quello che avevo usato per medicarlo per portarlo al piano di sotto. La mia voce aveva riacquistato un po' di vigore.

«Brrr, me la sto facendo sotto – mi schernì, alzando le mani in segno di resa – Sono a posto?», domandò, indicandosi la schiena con un cenno del capo. Era stranamente calmo, quasi rassegnato. Non volevo illudermi che quella fosse la volta buona per riuscire a mettere le cose in chiaro una volta per tutte, ma il suo atteggiamento era piuttosto promettente.

«Vorrei cucirti quella boccaccia, ma non posso. Quindi sì, per ora sei a posto».

Lui balzò in piedi ed indossò il gilet, raccogliendo anche la camicia che giaceva appallottolata sul ripiano vicino al lettino.

«Fatti una doccia, se puoi; bisogna tenere la pelle pulita per evitare le infezioni», gli suggerii, mentre scendevamo le scale.

«Se non c'è la fila», replicò. «Devo anche aiutare a sgombrare le strade da tutti quei putridi, là fuori è un macello».

Storsi le labbra, un po' impressionata dall'idea del tappeto di vaganti, un po' contrariata. «Dovresti riposarti, per non avere fastidio ai punti».

Daryl sminuì il mio consiglio con un'alzata di spalle e non disse nulla. Quando arrivammo al piano terra, notai che la porta della camera di Carl era mezza aperta. Io e Daryl sbirciammo dentro, trovando Rick addormentato, disteso contro lo schienale e la testa appoggiata al muro. La sua mano era ancora stretta a quella di suo figlio.

La socchiusi, cercando di fare meno rumore possibile.

«Come sta il ragazzo?», domandò Daryl.

«Non è ancora del tutto cosciente, ma si sta riprendendo». Mentre rispondevo, notai che non aveva distolto lo sguardo dalla porta. Le sue sopracciglia erano aggrottate e la mascella tesa.

Gli appoggiai la mano sul braccio e lui si riscosse, voltandosi verso di me.

«Starà bene», cercai di rassicurarlo, con un sorriso.

Daryl rispose con un sorriso appena accennato, avviandosi poi verso la porta.

«Possiamo parlare, più tardi? Per favore», gli chiesi, poco prima che iniziasse a scendere gli scalini del portico.

Lui si voltò verso di me e mi lanciò un’occhiata indecifrabile che, tuttavia, non sembrava ostile. «Mi sono offerto per il turno di guardia».

«Oh…», mormorai, leggermente preoccupata. Non sarebbe stato meglio se si fosse riposato, dopo tutto quello che aveva passato fuori dalle mura?

Daryl si voltò e pensai che stesse per andarsene, quando aggiunse: «puoi venire a farmi compagnia. Mi è toccata la torretta a sud. Monterò la guardia dopocena».

Il sole del primo mattino, che filtrava timido dalle nuvole, mi sembrò tutto d'un tratto più luminoso.

Gli sorrisi, rimanendo sulla soglia. «Ci sarò».

 

***


 

«Dovresti ricucirti anche il gilet», proferii sovrappensiero.

Avevo raggiunto Daryl sulla torretta, dopocena, come prestabilito. Quella macchia di sangue incrostato e lo squarcio sull'ala sinistra erano state le prime cose che avevo notato dopo aver salito la scaletta: avevo trovato l'arciere di spalle, intento a controllare la situazione oltre la recinzione. Era una serata tranquilla, senza nuvole; la luna illuminava lo spazio attorno a noi quasi a giorno.

Lui si voltò a guardarmi, poi il suo sguardo scese sulla sua schiena e alzò la spalla per riuscire a vedere meglio. Mi avvicinai a lui di un passo, sfiorando lo strappo col pollice. In quel momento, realizzai che – in tutto quel casino – non gli avevo ancora chiesto cosa fosse successo là fuori.

«È un bel taglio, come te lo sei fatto?», domandai, cercando di non sembrare troppo apprensiva.

«Siamo stati trattenuti», mi liquidò, mentre nella mia testa si stava ammassando una marea di domande.

«Da persone o vaganti?», domandai stupidamente.

«Come qui, da persone. Aaron mi ha raccontato tutto».

Annuii, affiancandolo e appoggiandomi in avanti sul parapetto della torre. «Non ce la siamo passata bene. Sono stati giorni movimentati per tutti, a quanto pare», commentai. Studiai la sua espressione assorta, le nostre braccia che quasi si toccavano. «Non vuoi parlarne?».

L'arciere rimase in silenzio per un po', ed io arrivai a dubitare che mi avesse sentito. Quando provai ad aggiungere qualcosa, parlò.

«Degli stronzi hanno iniziato a spararci addosso, mentre stavamo tornando qui. Mi sono dovuto separare da Sasha e Abraham e nel bosco ho trovato delle persone. Ho cercato di aiutarli, di convincere a venire qui, ma alla fine me l'hanno messa nel culo», raccontò. La sua voce era bassa e neutrale, ma notai che stringeva un pugno.

Che begli ingrati, pensai.

«Sono loro che ti hanno ferito?».

Daryl scosse la testa. «Mi hanno solo fottuto la balestra e la moto e mi hanno lasciato andare».

A quella rivelazione, trasalii: immaginare Daryl senza la sua arma di fiducia, giù dalla sella della moto che gli aveva regalato Aaron… non riuscivo nemmeno a concepirlo. 

«Comunque sono riuscito a ritrovare gli altri due. E stavamo tornando a casa con quel mostro di furgone, quando un altro gruppo di stronzi ci ha sbarrato la strada per prendere le nostre cose e minacciato di ucciderci. L'abbiamo scampata, ma a me hanno lasciato il ricordino», concluse, accennando alla ferita con un movimento del capo.

Annuii, sorpresa di essere riuscita a scucirgli un racconto che superasse in lunghezza mezze frasi, sillabe e mugugni. Vagai con lo sguardo nell'oscurità, leggermente turbata dal resoconto di Daryl.

«Tutto bene?».

Mi riscossi, raddrizzando la schiena. «Sì, è solo che a stare sempre qui dentro mi sono dimenticata che razza di persone girano là fuori». Mi voltai verso di lui, appoggiando la mano sulla sua. «Sono davvero felice che siate tornati a casa sani e salvi. Eravamo molto preoccupati per voi». Io soprattutto, perché temevo che non ti avrei più visto, ma quel pensiero lo lasciai al sicuro nella mia mente.

L'arciere scrutò la mia espressione, quegli occhi blu che cercavano di indagare se ci fosse dell'altro. Mi sentii quasi nuda, sotto quello sguardo. Interruppe il contatto visivo e guardò un punto indefinito davanti a sé, trattenendo la sua mano calda sotto la mia.

«Sono stati solo due giorni di merda, semplice sfiga; la gente là fuori… non sono tutti così», replicò, stringendosi nelle spalle.

Sorrisi tra me e me, rendendomi conto di quanto si fossero invertiti i ruoli: adesso era il suo turno di rassicurarmi sulla bontà delle persone.

Per un po' rimanemmo in un silenzio complice: io tenevo la mia mano sopra la sua e gli occhi chiusi, godendomi la frescura della sera. Daryl sembrava molto assorto da chissà quali pensieri e mi ricordai che non ero andata lì soltanto per parlare di quello che ci era successo in quei giorni. Lo sapeva anche lui.

Mi schiarii la voce, scostando la mano dalla sua e incrociando le braccia sotto al seno, rimanendo appoggiata al parapetto.

«Senti Daryl, riguardo l’altra sera… quando ti ho detto quelle cose…».

«Non è necessario», disse, infilandosi nervosamente le mani nelle tasche.

«Sì invece. Mi sono comportata da stupida, ancora una volta. Avrei potuto parlartene con calma, invece di aggredirti... come se ormai non conoscessi il tuo modo di affrontare le cose», proseguii, ridacchiando. Lui mi lanciò un'occhiata fugace, poi abbassò lo sguardo. «È che il tuo silenzio mi ha scoraggiata, ho pensato due giorni interi a come iniziare il discorso e... beh, forse avevo anche paura di essere rifiutata».

«Non ti dovresti preoccupare di questo», replicò, alzando gli occhi al cielo.

Io mi voltai verso di lui di scatto, con gli occhi sbarrati e una stretta allo stomaco. Cosa intendeva? Che un rifiuto da parte sua non era un'opzione?

«C-Come?».

Non appena si rese conto del significato che avrebbe potuto assumere la sua affermazione, spalancò gli occhi a sua volta e si irrigidì, raccogliendo le braccia al petto.

«Intendevo solo dire che non ci dovrei essere io in questa situazione, con te».

Aggrottai le sopracciglia, provando ad ignorare il colpo che la delusione mi aveva inferto ad altezza dello stomaco. «E chi altri ci dovrebbe essere?». 

Sospirò profondamente e mi scrutò da sotto la frangia, che gli celava in parte gli occhi. Sempre a braccia incrociate. «Lo sai».

«L'unica cosa che so è che sei l'unico che ne sta facendo un problema. Perché è la differenza di età che ti preoccupa, non è vero?». 

«Non dovrebbe?», replicò, incupendosi.

«No. Per me non conta niente, ad esempio».

«Questo perché sei molto meno assennata di me». 

«Non è vero», lo rimbrottai, fingendomi offesa; poi tornai seria. «Sono abbastanza grande per capire cosa voglio, Daryl».

L'arciere si concesse qualche istante di silenzio, prima di incatenarmi sul posto con i suoi occhi di ghiaccio.

«E cosa vuoi?». 

Era una mia impressione, o la sua voce si era fatta improvvisamente più profonda e... calda? Lo stava sicuramente facendo apposta, per mettermi in difficoltà e farmi desistere. Il suo tono provocatorio non mi lasciò indifferente, anzi, mi intimidì; eppure mi sentivo determinata, e non avevo la minima intenzione di cedere. Arrivati a quel punto, non aveva più senso lasciar perdere; dei discorsi lasciati in sospeso mi ero già bella che stancata. Il cuore iniziò a battermi furiosamente nel petto, schiacciante quanto la consapevolezza che, da lì, non sarei più potuta tornare indietro. Era giunto il momento di mettere le carte in tavola. 

Lo guardai di sottecchi, per cercare di carpire una sua qualche reazione. Aveva il mento alzato e osservava il buio, che vegliava sopra le nostre teste come una cupola.

O la va o la spacca.

«Ormai non posso più nascondere quello che provo, né voglio farlo. Le cose sono irrimediabilmente cambiate e siamo arrivati ad un punto in cui penso sia impossibile fare finta di nulla, o dimenticare quello che è successo». La voce mi tremava leggermente e non mi accorsi di quanto mi stavo torturando le mani, incrociando le dita tra loro senza una logica. Eppure, allo stesso tempo, avvertivo il sollievo di chi si stava liberando di un gran peso.

«Dovremmo, invece», mormorò lui.

«Se lo pensassi davvero mi avresti respinta, stamattina!», sbottai, voltandomi verso di lui. «Io vorrei solo capire quello che vuoi tu, Daryl. È chiaro a entrambi quali sono i miei sentimenti, ma non si può dire la stessa cosa di te. Avrò sbagliato il modo di dirlo, l'altra sera, però è vero che tutte le volte che ci siamo avvicinati, subito dopo sei finito per prendere le distanze». Totalmente presa da ciò che gli stavo dicendo e che mi ero tenuta dentro per troppo tempo, non mi ero resa conto che, dal suo fianco, mi ero ritrovata faccia a faccia con lui. «Ti allontani, ti riavvicini e facciamo sempre finta di niente. Io non voglio cambiare ciò che sei; vorrei solo che, se provi i miei stessi sentimenti, tu ti conceda di provarli. Se per te, invece, quei baci non hanno significato nulla, o vuoi veramente dimenticare questa storia, me ne farò una ragione. Ma per favore, per favore, sii sincero. Con te stesso e con me».

Daryl mi osservava assorto, senza dire una parola. Il silenzio che ci circondava era assoluto: mi sembrava di essere sospesa in una fetta di realtà nella quale il tempo aveva uno svolgimento tutto suo. Le mie parole rimbombavano ancora in quel silenzio, ronzandomi nell'orecchio. Le parole che avrebbe pronunciato Daryl di lì a poco mi avrebbero resa la persona più felice sulla terra, o mi avrebbero annientata. In entrambi i casi, ero pronta: avremmo chiarito la situazione una volta per tutte, a prescindere dal verdetto finale - che spettava solo e soltanto a lui. 

Si lasciò andare ad un respiro profondo, incurvando le spalle e lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. Poi puntò il pugno di una mano su un fianco e, con l'altra, si massaggiò la nuca con nervosismo. Quando i suoi occhi, quasi ridotti a due fessure, si specchiarono nuovamente nei miei, feci in tempo ad udirlo sbottare un «'fanculo», prima che la mano abbandonasse il suo collo e mi afferrasse per la vita. Mi attirò a sé, si chinò su di me e premette le labbra contro le mie.

Quel gesto impetuoso spazzò via ogni mia cautela: gli presi il volto tra le mani e gli accarezzai subito il labbro inferiore con la lingua, in modo da stimolare Daryl ad approfondire il bacio. Venni presto accontentata. 

Le mie mani lasciarono il suo volto e si insinuarono tra i suoi capelli lunghi, circondandogli, infine, il collo con le braccia. Mi strinsi a lui, fortissimo, mentre con un braccio mi tratteneva per la vita e con l'altra mano percorreva la mia schiena in una carezza desiderosa e possessiva. Le nostre labbra continuavano a muoversi in modo febbrile e cambiammo spesso inclinazione della nuca in modo da assecondare la danza delle nostre lingue. Il suo sapore mi confondeva, il suo respiro contro il mio mi inebriava, il calore del suo corpo mi fece impazzire il cuore nel petto. Quanto tempo avevo aspettato quel bacio. 

Dopo un tempo che parve infinito, separai le labbra dalle sue quel tanto che bastava per far riprendere fiato a entrambi, ma non mi mossi di un millimetro in più. Sentire il respiro di Daryl accelerato e concitato contro il mio mi fece rabbrividire di piacere e mi sfuggì un tremito, stretta ancora nel suo abbraccio.

«Lo sai che, dopo questo, non potrai più tirarti indietro, vero?», sussurrai affannata contro la sua bocca, guardandolo negli occhi.

Il suo sguardo era incollato al mio, così serio che mi provocò una fitta al petto. Non aveva lasciato la presa su di me.

«Lo so», disse soltanto.

Mi scostai leggermente per guardarlo meglio, ma abbandonai le braccia sulle sue spalle per non farlo allontanare. Con mia grande sorpresa, mi posò entrambe le mani sui fianchi e si fece un po' più vicino a me.

«Sei sicuro?», sussurrai.

«Non troppo, però...  È come hai detto tu: ormai non possiamo più fingere». E qualcosa, nel suo sguardo, mi suggerì che nemmeno avrebbe voluto.

Mi accorsi improvvisamente che ci eravamo messi entrambi a parlare sottovoce. Era tutto così intimo che, per un instante, mi sembrò di essere gli ultimi due esseri umani rimasti sulla terra. Mi sforzai notevolmente per non soccombere a quella frenesia gioiosa che, tutta in una volta, rischiava di travolgermi, dopo quel bacio. 

Daryl si accorse del mio sorriso da ebete e mi squadrò, leggermente in imbarazzo. «Che c'è?».

Coi polsi incrociati dietro alla sua nuca, giocherellai con le dita tra i suoi capelli, tentando di riportare il mio sorriso a dimensioni normali. «Niente, sono solo felice».

Lui sospirò. «Non dovresti».

«Perché non dovrei? Smettila di mugugnare», borbottai.

Si separò da me, appoggiandosi al parapetto della torre di guardia. Qualsiasi traccia di allegria sparì dal suo volto. Rieccolo, il Daryl tormentato che pensava troppo.

Il suo sguardo vagò nel buio per qualche istante, mentre sul suo viso aleggiava un'espressione seria. «Perché non ti rendi conto che io sono diverso da quei ragazzini sdolcinati con cui sei stata fino ad ora, Beth. Non so quali aspettative tu ti sia fatta, ma potrei deluderle tutte». Il suo tono era quasi derisorio, amaro, eppure non mi sfuggì la nota di insicurezza che tradivano i suoi modi.

«L'unica cosa che mi delude è vedere la pessima opinione hai di me. Credevo che ormai avessi capito quanto sono cambiata. Non sono più la ragazzina sognante di una volta, come potrei? E quando mi sono-», mi bloccai improvvisamente, avvampando. Non dire "innamorata"! «Cioè, q-quando ho iniziato a provare certe cose per te, sapevo a cosa sarei andata incontro».

«Ad una montagna di merda e casini, ecco cosa».

Io lo fulminai con un'occhiataccia. «Ho capito cosa stai cercando di fare e, mi dispiace, non ci riuscirai. Non puoi dire nulla per convincermi a vederti come ti vedi tu».

Daryl rimase in silenzio, a scrutarmi. Più ricambiavo il suo sguardo, più mi veniva voglia di baciarlo di nuovo, per calmare le sue insicurezze e la poca considerazione che aveva di se stesso, ma non volevo tirare troppo la corda. 

«Ti ricordi quando mi hai detto che avevi cambiato idea sulle brave persone grazie a me?».

L'arciere non rispose, ma presi il suo incrociare le braccia al petto come un “sì”.

«Poco tempo dopo, mi sono resa conto che a me era capitata la stessa cosa. O meglio, ho realizzato che, se credo che esistano ancora brave persone a questo mondo, è solo perché ne ho molte al mio fianco. E tu, Daryl Dixon, sei una di quelle. Hai i tuoi difetti e certe volte, giuro su Dio, non so cosa darei per riuscire a capire cosa ti passa per questa testa – ridacchiai, avvicinandomi per puntargli l'indice contro la fronte - ma ci sei sempre stato, quando ho avuto bisogno di te. Se la nostra differenza di età è così tanto un ostacolo, allora com'è possibile che tu mi capisca meglio di chiunque altro? Come riesci a farmi stare meglio sempre, pur parlando così poco?».

Daryl non rispose a nessuna delle domande - retoriche - che gli avevo posto, ma continuò a guardarmi. La patina di tormento sui suoi occhi si era sgretolata, la sua espressione era cambiata. Sembrava che lo avessi zittito, più che altro. Tutto quello che gli avevo detto, aveva fatto centro. Era il suo sguardo a dirmelo ed era impossibile da descrivere a parole. 

Mi avvicinai a lui, sfiorandogli la barba ispida con la punta delle dita. «Sai, parlando tanto io stessa, mi sono sempre sentita più confortata da chi spendeva tante parole per me. Da quando ti conosco, invece, ho capito che le parole non possono tutto. Quando ti ho confessato di stare ancora male per Noah, tu non hai detto nulla, ma hai fatto qualcosa per me; invece di rifilarmi le solite frasi di circostanza, hai agito per fare in modo che potessi portare il ricordo del mio migliore amico sempre con me. Ed è un gesto che non dimenticherò mai, Daryl, mai».

Presi un attimo fiato per non lasciarmi travolgere da tutto quello che stavo provando, usando il suo sguardo saldo come ancora. Il cuore mi batteva così forte da farmi temere uno svenimento.

«Tutto questo sproloquio infinito - cielo, sono senza speranze! - per farti capire che non mi importa un fico secco se non sei come i ragazzi che ho avuto. Tu non sei come gli altri, e...», feci un respiro profondo, prendendo il coraggio a due mani, «ed è proprio per questo che sei la persona di cui ho più bisogno al mio fianco».

Daryl continuò a non dire nulla, fissandomi insistentemente. Se prima ero riuscita quasi a perdermi in quello sguardo, ora iniziava a mettermi a disagio. Il suo silenzio mi stava facendo innervosire; mi sentivo le guance in fiamme e il cuore galoppante per la dichiarazione che gli avevo appena fatto. Con tutte quelle emozioni in circolo ad amplificare tutto, il fatto di non sapere cosa gli stesse passando per la testa, o quale fosse la sua opinione, mi fece innervosire. Incrociai le mie braccia al petto come lui.

«Puoi dire qualcosa, per favore?», sbottai. 

In un gesto repentino, si scostò dal parapetto, raddrizzandosi e parandosi davanti a me. Alzai il mento verso di lui per guardarlo, perplessa. In quel momento, mi sembrò più alto; mi sovrastava e, con le sue ampie spalle, nascondeva la luce della luna dietro di lui. I suoi occhi erano due specchi neri che guizzavano da sotto la frangia scomposta, che mi dicevano tutto quello che non sarebbe mai riuscito a uscire dalla sua bocca.  

Prese una ciocca di capelli che era sfuggita alla mia coda tra le dita e la sfiorò, come fosse seta. «Tu parli troppo. E sei davvero senza speranze, ragazzina ma, cazzo, io lo sono molto più di te», mormorò con tono rassegnato.

Cosa avrei dovuto rispondere ad una affermazione del genere? Rimasi qualche secondo perplessa, finché non iniziai ad ascoltare la reazione del mio cuore a quello che aveva appena detto Daryl; a cosa si stava scatenando dentro di me, mentre mi guardava con quegli occhi. Ciò che poteva sembrare un banale rimprovero, una banale autocritica, detto da Daryl in quel modo,  suonò alle mie orecchie come una dichiarazione meravigliosa. Eravamo finiti nei casini, ma ci eravamo finiti insieme. 

«Daryl...». 

«Sai quanto questa... roba sia difficile per me. Ero sicuro di fare la cosa giusta allontanandoti, ma sono stato un coglione a dirti quelle cose», ammise. 

Inspirai a vuoto, colta dalla sorpresa. Si stava scusando? 

«N-Non importa», balbettai, abbassando lo sguardo sulle sue dita, che stavano ancora giocando nervosamente coi miei capelli. 

Anche lui stava guardando in quella direzione, assorto. «Arriverà il giorno in cui mi manderai a fanculo, in cui ti renderai conto che so essere anche più coglione. Però, ecco, fino a quel momento ci proverò. A far funzionare... questo», continuò tentennante, aumentando, per un istante, la stretta delle dita sulla mia ciocca. Poi la lasciò andare e mi guardò negli occhi. «Ricorda una cosa, però: io non sono quello che credi. Quando mi incazzo divento uno stronzo e questo, probabilmente, non cambierà mai. Inoltre non so un cazzo di romanticismo, o di quelle smancerie che si vedevano in TV, né voglio saperne».

«Non mi importa», replicai subito.

«Ma ti importerà, il giorno in cui manderò tutto a puttane. Prima o poi succederà, solo che adesso ti rifiuti di capirlo. Tu non mi conosci così bene come pensi, Beth».

Sentirlo pronunciare il mio nome con quella voce bassa e arrochita dal nervosismo, mi provocò una cascata di brividi che si riversò giù per la mia spina dorsale. 

Mi avvicinai ancora di più a lui, così tanto da sentire il suo respiro sul mio viso. 

«Voglio conoscerti sempre meglio, allora», sussurrai. Gli strinsi la mano che, poco prima, aveva giocato nervosamente con i miei capelli.

Osservando l'espressione quasi smarrita di Daryl, mi venne in mente un animale ferito e  selvatico che viene addomesticato per la prima volta e che si arrende alle cure che aveva sempre rifiutato. Era lo stesso, identico sguardo che mi aveva riservato nella casa del becchino, quello del mio «oh», quando pensavo di aver capito e invece non avevo capito un bel niente. In quell'istante di silenzio assoluto, mi invase lo stesso calore al petto e mi sembrò di essere catapultata di nuovo in quella villa, seduta ad un tavolo imbastito a lume di candela e con un uomo che avevo appena imparato a conoscere. Totalmente ignara di quanto quei sentimenti ancora flebili si sarebbero trasformati, nel corso del tempo, e quanto sarebbe diventato importante per me quell'uomo così burbero. 

Daryl mi riportò alla realtà, con la stessa veemenza di sempre: approfittando delle nostre dita intrecciate, mi strattonò contro di sé e fece collidere le nostre labbra, la mano libera a trattenermi per la nuca. 

Non ho paura di quello che sei, avrei voluto dirgli, ma l'irruenza con cui mi stava baciando non mi permise di dire nient'altro, così gli buttai le braccia al collo e mi lasciai baciare. 

Ebbi così l'assoluta conferma che Daryl Dixon preferiva dimostrare quello che provava a fatti, più che a parole. E quello che mi stava dimostrando valeva più di mille discorsi.  

Rimasi sulla torretta a fargli compagnia, cercando di comportarmi normalmente nonostante l'euforia. Mi sentivo sempre la stessa, eppure, al contempo, totalmente diversa e piena di consapevolezze nuove. Ci avrei messo un po' a processare il fatto che, finalmente, tutti quei mesi di confusione, passi falsi e parole non dette, avevano trovato la loro conclusione... la più meravigliosa delle conclusioni. 

Era passata da poco la mezzanotte, quando mi riaccompagnò a casa dopo essersi fatto dare il cambio da Tobin. Evitai di prenderlo per mano perché non mi aspettavo certo che, tutto d'un tratto, si comportasse come un fidanzato normale. In realtà, persino nella mia testa mi risultava difficile accostare quella figura stereotipata a Daryl, mi veniva quasi da ridere. Aveva accettato di non ignorare più i sentimenti che nutrivamo l'un per l'altra, e tanto mi bastava. Avrei imparato col tempo fin dove potevo spingermi con le dimostrazioni d'affetto.

Una volta arrivati sotto al portico di casa mia e sicura che fossimo al riparo da sguardi indiscreti, mi alzai in punta di piedi per salutarlo con un bacio. Ero sicura che non ci fosse nulla di male, invece Daryl mi bloccò seduta stante: posò la sua grande mano contro la mia clavicola, irrigidendosi e allontanando il volto dal mio. 

«Beth», sibilò. 

«Daryl - lo scimmiottai - non c'è nessuno in giro! ».

L'arciere grugnì, ficcando le mani nelle tasche. «Non voglio dare spettacolo».

Cercai di trattenere un sorriso per non dargli l'impressione di prenderlo in giro. 

«Lo so, lo so, l'avevo messo in conto. Però non puoi dare spettacolo se non hai spettatori, no?», replicai, circondandogli il collo con le braccia e arrivando a sfiorare il suo naso col mio.

Daryl sbuffò, posando controvoglia una mano sul mio fianco destro. 

«Mi stai già dannatamente seccando, ragazzina», mormorò sulle mie labbra, prima di zittirmi in maniera piuttosto convincente. 

Erano state usate abbastanza parole, per quella sera. 

 

 

 

 

 

 

| Note autrice |

Avete presente quando scrivete pezzi di capitoli, che vi esaltano e che non vedete l'ora di postare, ma che dovete tenere lì perché ancora non è il momento?
Ecco, questo capitolo è costituito per l'80% da frammenti scritti mesi e mesi fa. Anzi, addirittura arrivano all'anno e mezzo di età. E' cominciato tutto quando ho iniziato a vedere Beth nella battaglia di Alexandria, dalle prime righe in giù. Avevo scritto l'embrione della scena in infermeria secoli fa e, al tempo, era molto diversa. Il capitolo era quasi tutto completato, se non fosse che l'ho aggiustato e riaggiustato, perché volevo essere totalmente soddisfatta, in ogni dettaglio. 
Morivo dalla voglia di scrivere di questa loro svolta, quindi sono stata più puntigliosa del solito.
Tutti questi preamboli, per spiegarvi come mai questo aggiornamento giunge così presto - rispetto ai miei vergognosi standard.
Ho appena deciso di battezzare questo "il capitolo dei limoni" e direi che era anche ora! Onestamente sono troppo contenta di essere arrivata all'avvicinamento definitivo di questi due, perché fino ad ora li ho sempre fatti trattenere, forse anche troppo. Ma è così che mi sono immaginata il loro percorso, fin dall'inizio, e spero che questo capitolo praticamente tutto incentrato su di loro vi abbia ripagato di tutta l'attesa. Ora mi sento finalmente libera di sbizzarrirmi con tutte le scene fluff che voglio, ovviamente nei limiti del carattere schivo di Daryl :) forse si scioglierà appena, chi lo sa! Già in questo capitolo ha fatto dei passi avanti, che spero non stonassero col personaggio. Diciamo che ho voluto presentare un Daryl finalmente "rassegnato" a quello che prova. Vedete quanto insegna, avere un'orda di zombie che rischia di distruggere una città con una certa ragazzina dentro? :D
Finisco di importunarvi che è meglio ahaha
Ringrazio tantissimo ancoranoi, keplerf62 e psichedelia95 che hanno recensito lo scorso capitolo e le persone che hanno messo tra le seguite/preferite/ricordate questa storia. Spero che il nuovo capitolo vi sia piaciuto  e che vogliate condividere la vostra opinione (in questo, più dei precedenti)
. Ci tengo e mi farebbe molto piacere! ;)
Alla prossima!
Blakie

 

   
 
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