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Autore: Leonhard    03/09/2018    5 recensioni
Judy si volse verso la sagoma della lontana Zootropolis. Vixen aveva detto che il cavallo era il pezzo più forte della scacchiera, Alopex aveva scelto un cavallo per guidare gli eventi: forse avevano previsto tutto, forse no, ma in fin dei conti era quasi giusto che fosse stato un cavallo a dare scacco matto e vincere la partita.
E la città, sapeva, avrebbe continuato a bruciare.
Genere: Guerra, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Capitan Bogo, Judy Hopps, Nick Wilde, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Distopian Zootopia'
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Un mondo migliore


Giorno 3

L’arresto è risultato di una facilità quasi deludente: il caos era dilagato dalla piazza all’intera città come una pandemia contagiosa e la squadra è uscita dalla porta di servizio del palazzo municipale. Bogo era strano: come un animale rassegnato al suo ultimo viaggio, verso una pensione che sapeva avrebbe odiato ma che era obbligato a vivere.

Era uscito dalla porta e, dopo averci squadrati tutti, era entrato nel camion dell’esercito senza proferire parola; le zampe erano assicurate alla schiena con due fascette bianche e lo sguardo era spento e vacuo. Normalmente l’avrei pungolato con qualche battuta tagliente (sono brava in questo), ma in quel momento tutto quello che sono riuscita a fare è stato aprire lo sportello e lasciare che i militari lo facessero salire spingendolo dentro con le canne dei fucili.

Savage l’aveva osservato sedersi nell’angolo; quando i portelli chiusi l'hanno obliterato dal mondo, ha rivolto a me un’occhiata con cui mi suggeriva di non indagare su ciò che era successo lassù: l'ho assecondato, domando la fitta di protesta che era salita dalla mia spalla. Howler sarà stato anche pazzo da legare, ma non si poteva dire che mordesse male o piano; l’avevo visto cadere giù da una finestra sfondata per andare a morire dietro un cumulo di grossi calcinacci: potevo a grandi linee immaginare il motivo per cui si era fatto un tuffo carpiato giù dall’ultimo piano del palazzo municipale, ma mi sono dovuta accontentare di questo.

Quel camioncino è stato l’unico a lasciare la città: per i giorni successivi il coprifuoco necessario per far calmare le acque senza che dilagasse fuori da quelle mura aveva permesso a malapena ci uscire per i genere di prima necessità. Una volta domata la rivolta nella piazza e nelle vie di tutta la città, Zootropolis è caduta in uno stato di apatica sonnolenza: chiunque si sarebbe aspettato disordini, movimenti politici più o meno estremisti e manifestazioni anche violente, ma nulla di tutto ciò. Complice probabilmente la paura, i pochi mammiferi avvistati per le strade avanzavano spediti ed in silenzio, guardandosi attorno come se temessero un attacco.

I predatori non si comportavano diversamente: erano stati ricacciati nel loro rione violentemente, come fossero degli invasori che avevano sconfinato. Non penso che fosse la soluzione migliore, ma sicuramente è stato un palliativo. L’unica cosa che mi resta da fare è sperare che sia solo provvisoria.

Savage è


 
Le dita di Vixen esitarono, dandole il tempo di chiedersi per la prima volta cosa diavolo stesse facendo. Fece vagare lo sguardo per la camera d’albergo, o quello che ne restava, che si era scelta per quel lavoro: era sporca e rovinata, come tutto nella città. Le pareti scrostate racchiudevano un salottino che due mesi prima doveva essere veramente di ottimo gusto, ora ridotto ad un magazzino di mobili sfasciati e pezzi laceri di tappezzeria con cocci di vetro dappertutto.

Non era esattamente il luogo ideale in cui lavorare ma era un posto nascosto e silenzioso, proprio ciò che le serviva. Aveva steso il rapporto di ciò che era successo in quei giorni e l’aveva spedito alla centrale, ma appena chiuso il documento ne aveva aperto un altro: alla vista della candida pagina digitale, del cursore che lampeggiava sullo schermo, le dita avevano acquisito vita propria. Loro scrivevano e lei leggeva, non c’era un vero e proprio controllo delle parole che comparivano sulla pagina bianca quanto un riflettere che effettivamente esprimevano i suoi pensieri, davano voce alle sue incertezze ed ufficializzavano ai suoi occhi le osservazioni che aveva fatto durante tutta quell’operazione.

Eppure non aveva la più pallida idea del perché stesse scrivendo quelle cose.

Erano righe che non sarebbero mai state lette, parole che non si sarebbero mai espresse: quel documento non era voluto, non sarebbe stato pubblico e sicuramente non sarebbe mai diventato ufficiale ma che aveva ritenuto importante scrivere. Si lasciò sfuggire un singulto al pensiero di come avrebbe reagito Nick all’idea che la sua professionale sorella scrivesse quello che era sostanzialmente un diario personale.

Ma Nick sarebbe venuto a suo tempo: adesso c’era un’altra questione su cui arrovellarsi.

Lanciò un’altra fugace occhiata al documento prima di alzarsi e misurare la stanza fatiscente con ampie falcate. Jack si era chiuso nel palazzo municipale dopo l’arresto di Bogo e quelle rare volte che l’aveva visto confabulava con dei mammiferi dall’aspetto professionale, delle dinoccolate giraffe che poteva giurare di aver visto nel database che riguardavano ingegneri e scienziati.

Dalla parete della cucina cedette un gancio ed un mestolo cadde sul piano scheggiato in marmo: voltarsi e puntare la pistola nella direzione del rumore fu un movimento unico ed involontario. Guardò la stoviglia oscillare pigramente attraverso il mirino per qualche secondo, poi ripose l’arma nella fondina ascellare sospirando il pensiero che quella tensione non se ne sarebbe mai andata. Si volse nuovamente verso il piccolo laptop sul tavolino e le parole ricominciarono a scorrerle davanti agli occhi: si affrettò a sedersi e le dita ricominciarono a volare sulla tastiera.
 


Savage è cambiato: strano sotto certi aspetti, ma gli leggevo negli occhi una determinazione dettata da un’idea. Adesso mi rendo conto che il termine adatto è ‘piano’, ma lì per lì mi ha dato parecchio da pensare. Parecchie volte l’ho visto mostrare a dei mammiferi un taccuino di cui non mi ero accorta, ma non mi ha mai permesso di vederlo; gli effetti del vaccino risvegliano l’istinto, una cosa che evidentemente nemmeno Savage può sopprimere a comando.

Non partecipa ai lavori di ricostruzione e probabilmente non lo farà mai: non mi sento di lodarlo per la dedizione alla sua idea, ma nemmeno di compatirlo per la sua paura. Se devo essere sincera, ho paura anche io.

I lupi sono stati tratti tutti in arresto. Quelli sopravvissuti, certo. Howler è stato solo uno dei tanti, molti sono stati trovati sotto calcinacci, macchine in fiamme e ce n’è stato uno per cui è stato necessario una pala per raccoglierlo: un’esperienza disgustosa che si aggiunge alla lunga lista di cose da non augurare mai a nessuno.

E poi ci sono Nick e la piccola Hoppity: quei due sono uno dei tanti motivi del mio desiderio di chiudere alla svelta questa storia. Ho ragione di pensare che il suo stato e quello di tutti i predatori non cambierà per molto tempo, probabilmente più tempo di quanto me ne sia concesso su questo mondo. Saranno necessari studi e ricerche, esperimenti e tentativi, ma per quanti sforzi si faranno non credo che avrò più la fortuna di sentire mio fratello fare quelle battute stupide che ci facevano tanto ridere da cuccioli.

E poi Judy: l’ultima volta che l’ho vista mi ha informato che avrebbe preso in prestito mio fratello per qualche giorno. Informato, non chiesto. Quella coniglietta è cambiata, non è più la stessa che mi ha urlato sotto mentite spoglie di volere a mio fratello più bene del dovuto e, perché no, del necessario: era seria, pacata, permeata di una sobrietà e di una pacatezza che non ho mai visto in nessun coniglio. Ironico che abbia dovuto assistere da civile al lato peggiore del suo vecchio lavoro; mi domando cosa farà adesso.


 
Si separò nuovamente dalla tastiera: non era tutto, ma già si sentiva stranamente meglio. Era come se si fosse tolta un peso dalla coscienza, come se fosse finalmente riuscita a sciogliere un groppo alla gola di giorni. Il cursore lampeggiava ma il suo richiamo non era più così forte.

Aprì il rubinetto della vecchia cucina e lasciò defluire l’acqua giallastra, riempiendo un bicchiere scheggiato con quella limpida. Lo avvicinò alla bocca, desiderando qualcosa di più forte, magari con un marcato odore di alcol. Aveva scritto di Judy per ultima perché era una cosa da marcare, un particolare che voleva che rimanesse impresso nella sua memoria; avrebbe potuto scrivere di tutti i predatori rispediti nel rione, delle espressioni sul loro muso che esprimevano ciò che non avrebbero mai potuto con le parole. Aprì gli stipetti, rassegnata a doversi accontentare della speranza di una tazza di the prima di tornare al computer.


 
In definitiva non so bene cosa provare al ricordo di tutto quel caos. Orrore, certo, disgusto raccapriccio ed anche un briciolo di vergogna davanti al dato di fatto che la storia è una grande maestra che rimane sempre inascoltata. So la storia di Zootropolis e mi fa paura ritrovarmi a pensare che le intenzioni di Bogo forse erano giuste, magari addirittura buone: il pensiero che i metodi fossero sbagliati mi fa tirare un sospiro di sollievo ma ho paura che sia solo un effetto placebo.

Io non so cosa succederà adesso. Zootropolis è una città disastrata, annichilita dalla sua rabbia ed implosa nel suo malcontento e nella sua cattiva gestione; se veramente Savage ha un’idea mi auguro che sia buona e che riesca a fissare degli argini a questa paura invisibile ma presente che serpeggia tra le strade. Può essere solo una vana speranza ma mi auguro veramente che, con il tempo, Zootropolis torni ad essere la città in cui chiunque può essere ciò che vuole.


 
Era giusto ricordare Zootropolis in quel modo? Era eticamente logico parlare di quella città come una utopia di cui tutti avrebbero sentito la mancanza? Perché lei, onestamente, non l’avrebbe sentita. Si sentì in dovere di aggiungere una riga in fondo.


 
Io sono una volpe.
 


Sospirò: avrebbe dato più soddisfazione scriverla a mano.

Tornò alla riga uno e rilesse tutto ciò che aveva scritto: rilesse con metodo, concentrata nel trovare errori di battitura e correggendo segni di interpunzione. Arrivò alla fine della revisione che il sole ormai era alto nel cielo. In lontananza, il campanile del quartiere informò una città poco più che fantasma che erano le undici e mezza del mattino.

Pochi clic con il mouse e si alzò dalla sedia; afferrò la giacca abbandonata sullo schienale della sedia ed uscì dalla stanza, diretta alla piazza del municipio. Sulla scrivania, l’icona della batteria sul computer stava lampeggiando di rosso: pochi secondi e il desktop sbiadì fino a diventare nero, nascondendo per sempre al mondo l’informazione a schermo che il documento era stato eliminato con successo.

 
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Dalle espressioni che vedeva sul muso di tutti i presenti, Jack capì di aver avuto l’idea giusta. Non perché fosse corretta o perché nessuno ci avesse pensato ma perché si era tutti improvvisamente resi conto che era l’unica cosa da fare per riavere indietro un minuscolo barlume della vecchia Zootropolis. Vixen lo guardava con uno stupore grossolanamente contenuto, mentre l’equipe di ingegneri presentava musi di gazzelle completamente sconvolte.

“Fammi capire, Savage” commentò la volpe, facendo un passo avanti. “Un collare?”.

“Un collare” ripeté la lepre con un singolo cenno della testa. “Sarà munito di un altoparlante per la comunicazione con le prede in modo che possano tornare ad esprimersi: lo indosseranno tutti i predatori per almeno cinque generazioni, dopodiché si studierà l’evoluzione delle singole specie tramite i nascituri sperando che torni in loro il processo evolutivo”.

“Non può sperare che un processo evolutivo che ha richiesto secoli torni nel giro di cinque generazioni” commentò una gazzella. “Ciò che è successo è da considerarsi una involuzione a tutti gli effetti: non si può pensare che…”.

“Questo è il motivo per cui ho previsto la scarica” interruppe Jack.

“Ecco, bravo” disse Vixen. “Parliamo della scarica”.

“Immagino sia quella che ti lascia perplessa” osservò lui.

“Non dovrebbe?” replicò la volpe. “Spiegami di nuovo in cosa consiste e cerca di convincermi”.

“Non devo convincere te, Wilde” disse lui con voce ferma. “Ma se proprio ci tieni, la scarica serve per tenere tranquilli i predatori: oltre una certa frequenza cardiaca, il congegno rilascia nel corpo una scarica elettrica non letale ma moto dolorosa per dissuaderle il mammifero a qualsiasi cosa stia pensando di fare”.

“Molto discriminante, non c’è che dire” commentò Vixen. “Perché non riesco a non pensare che una cosa del genere arrivi dal fatto che anche tu hai respirato quel gas?”.

“Puoi pensare quello che vuoi” replicò Jack. Stava giocherellando con una penna e lo sguardo era pacato: stava indubbiamente diventando bravo a contenere la paura dei predatori. Oppure sapeva che Vixen non avrebbe mai fatto nulla per nuocergli: quella consapevolezza doveva dare un forte aiuto nel contenere la voglia di scappare o di spararle oppure di fare tutte e due. “Se proponi una soluzione alternativa a questa, ti giuro che non perderò una parola della tua spiegazione”.

Cadde un silenzio interdetto: Jack poteva quasi vedere i cervelli dei mammiferi sforzarsi di trovare una soluzione alternativa e, consapevole che non l’avrebbero trovata, sospirò. Assecondò il silenzio per qualche minuto poi uscì, annunciando la sua voglia di caffè ed ascoltandola precipitare nell’insignificanza. Si avviò per il corridoio distrutto alla ricerca da un distributore automatico ancora integro e funzionante.

Judy e Nick erano partiti ormai da due giorni. Non le aveva detto dove sarebbero andati né a fare cosa ma erano cose facilmente intuibili; il fatto che avesse smesso di parlarne non aveva sicuramente cancellato la sua determinazione e, se era riuscito almeno ad inquadrare l’ex-agente Hopps, nulla avrebbe mai avuto questo potere su di lei.

Si ritrovò a fare una spalluccia: lei era diversa da tutta la città e probabilmente non avrebbe accolto la verità con l’indifferenza, ma avrebbe potuto fare veramente molto poco per farla sorgere. Trovò la macchinetta ed inserì una manciata di nichelini prima di essere raggiunto da Alopex; le scoccò uno sguardo attento, sentendo i peli della schiena drizzarsi per riflesso. La volpe se ne accorse ma non ci fece particolarmente caso.

“È un’idea che non approvo” disse. Diretta, su questo non si poteva dire nulla. “Porterà solo discriminazione e diversità: ucciderai per sempre la possibilità di essere ciò che si vuole”.

“Non è mai esistita questa possibilità, Wilde” replicò lui prelevando il caffè dal distributore. “E non mi sto riferendo alle volpi: nessuno ha mai contemplato la sostanziale differenza tra il poter essere ed il poter fare. Un elefante non sarebbe mai potuto entrare nel quartiere dei topi, a meno di voler fare una strage”.

“Questa non è una soluzione, Savage” commentò Vixen. “Controllare i predatori in questo modo non è eticamente accettabile”.

“Allora dimmelo tu cosa si può fare” disse lui, pacato. “Una soluzione per entrambe le cose non c’è: si può insegnare a tutti il linguaggio dei segni, ma le prede avranno sempre paura dei predatori. Si possono separare prede e predatori, ma non cambierebbe nulla dal comando di Bogo. La convivenza adesso è dettata dalla capacità di dare garanzie alle prede e questa è l’idea migliore a cui ho pensato: dimmi che ne hai in mente un’altra”. Silenzio; poteva vedere la voglia di Vixen di ribattere come se l’avesse tatuata sul muso, ma gli occhi gli urlavano la sconfitta. “…ti prego, dimmi che c’è un’altra strada”.

La volpe non rispose mai: si avvicinò alla macchinetta e pagò un caffè per lei. Si sedettero nella zona pausa sorseggiando silenziosamente dal bicchiere di plastica, ognuno nel proprio mondo; i bicchieri vennero gettati nel cestino poco lontano e si alzarono, raggiungendo nuovamente le gazzelle.

“Sarà un palliativo temporaneo, Savage” disse Vixen, rompendo il silenzio. “Un palliativo che non tutti accetteranno a cuor leggero: arriverà il giorno in cui saremo da capo con tutta questa faccenda”.

“Lo so” replicò lui. “Non ci resta che scommettere e pregare che quel giorno arrivi più tardi possibile. Nel frattempo, stai sicura che non ce ne staremo con le mani in mano”.

“Ah, su questo non ho dubbi” commentò lei. “Anche perché con questa idea vedrai se non ti sei guadagnato la scrivania di sindaco della città”. Entrarono nella stanza. Non passarono che poche ore prima che il progetto di Jack venisse accettato: un record che sarebbe entrato nella storia cittadina.
 
 
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Seduta sulla carrozza deserta del treno, Judy non riusciva a staccare lo sguardo da Nick: la volpe era acciambellata a terra, poco lontano da lei, a godersi quello che ai suoi occhi doveva per forza essere un meritato sonnellino. Lo invidiò: anche lei avrebbe voluto chiudere gli occhi e scappare da quella realtà, ma il suo cervello non glielo avrebbe mai permesso. Vorticava su sé stesso, sotto il peso di tutte le informazioni che aveva raccolto dal distretto di Foresta Pluviale.

Aveva passato gli ultimi due giorni a raccogliere le testimonianze delle volpi e ormai poteva dire di avere un quadro completo di ciò che era successo: probabilmente era stata l’unica a sbattersi tanto per trovare la verità, nonché l’unica a cui facesse un simile effetto. Aveva trovato le risposte a quasi tutte le domande che Bogo le aveva suggerito nel palazzo municipale e se da un lato la sua curiosità era stata soddisfatta, dall’altro aveva preso consapevolezza di una lezione che non insegnano a scuola o al corso di polizia.

In certi casi, rari ma veri, l’ignoranza è la più magnanima di tutte le benedizioni.

Non senza sforzo, tornò a guardare il suo taccuino: era fittamente scritto con quello che era il rapporto sul caso Tujunga. Le sue scoperte, le testimonianze e le conclusioni erano ufficiali, nero su bianco, e la sua penna a forma di carota aveva dato forfait prima che avesse modo di scrivere le considerazioni personali: quella non sarebbe mai più stata nulla più di un registratore vocale dalla forma estremamente vegetariana. Fece scorrere i fogli, passando in rassegna le correzioni, le cancellature, le righe depennate e le pagine strappate: ce n’era abbastanza per riempire un quaderno intero e non era escluso che l’avrebbe fatto.

Si abbandonò contro lo schienale del sedile, che sbuffò sotto l’esiguo peso del corpo. Non poteva nemmeno pensare alla sua…iniziativa come ad un fallimento perché a conti fatti era stata tutto l’opposto: era partita per far luce sugli avvenimenti nel distretto di Foresta Pluviale ed aveva appena stilato la madre di tutti i rapporti, era partita per trovare Nick e riportarlo a casa ed eccolo lì, a dormire beatamente a pochi passi da lei. Perché doveva considerarlo un fallimento?

Ed anche il fatto di essere cambiata non poteva essere un fallimento, no? Faceva parte della natura cambiare, non era nulla di inappropriato o imbarazzante ma ciò che trasformava un cucciolo in un adulto, che allargava gli orizzonti, faceva evolvere il modo di pensare e di porre sé stessi nei confronti del mondo.
Eppure il punto sembrava essere proprio quello: lei non si sentiva cambiata, ma diversa.

Diversa per dei motivi che, stranamente, comprendevano anche la volpe poco lontana da lei.

Il treno imboccò una galleria e per qualche secondo la carrozza fu illuminata solamente dai led soprastanti. Judy vide il suo riflesso nel finestrino davanti a lei e stentò a riconoscere sé stessa in quel coniglio dallo sguardo serio e pacato, da quel pelo che per qualche ragione ricordava più chiaro, da quella bocca ferma, chiusa in un’espressione neutra.

La galleria svanì come se non fosse mai esistita ed il suo riflesso si perse nella sconfinata campagna della Tana dei Conigli. Il sole era accecante ed il cielo azzurro, invaso da sporadici batuffoli di candide nuvole; nonostante il finestrini insonorizzati, poteva quasi sentire il canto delle cicale che celebravano un’estate che si avviava pigra verso la sua conclusione, il profumo di campagna ed il pungente odore di concime sparso per i pochi terreni esausti. Le scappò un sorriso sollevato, sentendosi finalmente al sicuro e si volse verso Nick, richiamandolo per svegliarlo.

“Siamo quasi arrivati” disse. “Presto saremo a casa”. La volpe rispose con una scrollata di coda ed un sorrisetto divertito.

Bel lavoro, ti adoro.

Le porte si aprirono pochi minuti dopo su una banchina deserta, fatta eccezione solo per Bonnie e Stu: li aveva avvertiti del loro ritorno, pregandoli di non portare i fratelli. Nel vederli, i due si sciolsero in un sorriso commosso.

“Hey, Judi non Deludi” salutò il coniglio, obbligandola a scoccare a Nick l’ennesima occhiataccia.

Non sono stato io

“Ciao papà” salutò lei con un sorriso. “Siamo tornati”.

“Meno male cara” proruppe Bonnie guardandola con un paio di gradi occhi che promettevano fiumi di lacrime. “Eravamo così preoccupati per voi”.

“Lo so” annuì lei. “Scusate se non ho dato mie notizie, ma…”. Si fermò, senza trovare le parole che esprimessero con delicatezza il fatto che non voleva coinvolgerli. La madre, tuttavia, annuì comprensiva.

“Non devi spiegare nulla” disse avvicinandosi. Distribuì un braccio a testa, in un abbraccio rassicurato e rassicurante. “L’importante è che siate tornati tutti e due sani e salvi”. Nick mosse la testa, incastrandola meglio nell’incavo morbido della spalla di Bonnie, mentre Judy ricambiò l’abbraccio, temendo di scoppiare in lacrime nel calore di un abbraccio materno che per qualche orribile secondo a Zootropolis aveva pensato di non meritare più.

Ebbero l’occasione di godere di venti minuti di pura calma, poi arrivarono a casa Hopps, dove vennero travolti da un’autentica valanga di orecchie dritte e nasi frementi. Judy si perse nella baraonda dei fratelli e Nick affondò nella marea di pellicce grigie con un guaito drammatico. Ogni tentativo di calmare gli oltre duecento conigli fu vano e tutto ciò che poterono fare fu elargire baci, abbracci e parole confortanti a chiunque ne manifestasse il bisogno.

Dovevi accompagnarmi alla festa di Oxy!

Domani andiamo a vedere l’ultimo film di Tom Gooise?

Mi sei mancata sorellona!

Ci misero il loro per calmare l’eccitamento di cuccioli che non avevano capito appieno e per calmare gli animi di  quelli che avevano capito fin troppo bene: la sera, al sicuro nella sua camera, Judy sospirò al silenzio  chiuse gli occhi per goderselo a pieno. Si concesse tuttavia solo pochi minuti di dolce far niente, poi si sedette alla scrivania e si mise al lavoro.

 
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Questa è la fine del rapporto sul caso Tujunga. Ho preferito non divulgare questo documento perché non sono più un poliziotto e soprattutto perché, in questo momento, la verità è l’ultima cosa che serve alla nuova Zootropolis. Ho cercato di essere il più fedele possibile, di riportare tutte le informazioni di cui sono entrata in possesso e spero di aver formulato i ragionamenti giusti.

Lascio questo quaderno a chi lo troverà, confidando che sappia decidere cosa farne. La mia sola speranza è che questo caso possa essere un esempio ed un monito affinché episodi simili non si ripetano mai più.
 

 
Alla fine l’aveva fatto: finì di scrivere l’ultimo paragrafo e si abbandonò sulla sedia, stanca ma soddisfatta. Fuori dalla finestra, gli uccelli stavano cantando in coro, celebrando l’alba che si faceva inesorabilmente strada sulla notte. Si concesse un singhiozzo ilare: l’ultima volta che aveva passato la notte alla scrivania era stato durante lo studio per l’ammissione al corpo di polizia. Volse un occhiata al letto: la invitava sotto le coperte, tentandola con quel soffice cuscino e la promessa di qualche ora di placido, salutare oblio.

Con un sospiro, si alzò ed uscì dalla camera. Il sole era sorto da pochi minuti, ma la cucina era già popolata dal centinaio dei fratelli abbastanza grandi da dare una mano a Stu.

“Buongiorno Judy” salutò con un sorriso assonnato: la mattina non era mai stata Judy non Deludi. “Oggi sei mattiniera: è successo qualcosa?”.

“Non sono  riuscita a dormire” replicò lei, sedendosi sulla prima sedia libera che trovò. Il coniglio sorrise e le servì i pancake. Pochi alla volta, i conigli salutarono la sorella con un sorriso ed uscirono diretti ai campi circostanti la casa mentre Stu indugiò ancora qualche secondo alla tavola, guardando la figlia con occhi preoccupati.

“Judds, mi dispiace per come sono andate le cose” disse. “Spero che tu sappia che non è colpa tua e che non devi sentirti responsabile”. Judy guardò il padre come se le stesse parlando in un’altra lingua.

“Papà, ho liberato Bellwether” disse. “Come può non essere colpa mia? Avrei dovuto fidarmi di Nick…e invece ho condannato la città a…questo”. Si alzò: la metteva a disagio il suo sguardo, così comprensivo ed allo stesso tempo sinceramente dispiaciuto. Certo, si era aspettata un discorso simile, ma il fatto che fosse lui a farglielo e non sua madre era…strano: possedeva il potere di distruggere ogni freno esistente, ogni muro eretto. “Avevate ragione tutti: voi avevate ragione quando mi dicevate che un coniglio non può essere un poliziotto, Nick aveva ragione quando mi diceva che non lo sarei mai diventata, persino il capitano Bogo aveva ragione. Non avrei mai dovuto…”.

“Judy…” rimbeccò Stu. Era un rimprovero quello che aveva sentito in quel richiamo, la coniglietta avrebbe potuto giurarlo. “Coltivare carote per tutta la vita mi ha insegnato che il senno del poi è una fregatura: hai ragione, se tu non avessi liberato Bellwether forse tutto questo non sarebbe successo; ma è davvero utile a qualcosa dire una cosa del genere? Il danno è fatto, non si può tornare indietro: puoi solo andare avanti, ma hai facoltà di scegliere come andare avanti.

“Se ti senti in colpa, se non puoi non sentire la responsabilità dello stato della città come solo tuo, allora cerca un modo per convivere con esso: non ti dirò che va tutto bene perché ti direi una bugia. E non voglio dire una bugia all’unica figlia che da piccola mi ha detto di voler rendere il mondo un posto migliore”. Si alzò ed abbracciò Judy, dandole il colpo di grazia. La coniglietta si sentì il cuore distrutto e le lacrime che salivano, lente ma inesorabili, verso i suoi occhi.

L’abbraccio si sciolse troppo presto e Stu la salutò, uscendo dalla porta e sparendo dalla sua vista. Judy ebbe modo di ripensare alle parole del padre, poi saettò fuori dalla cucina in una direzione a caso: le lacrime erano pericolosamente vicine ai suoi occhi e non esisteva pensiero che potesse innalzare un argine abbastanza robusto da domarle. Il suo cervello era in pieno panico e quando scorse in lontananza una grossa forma rossiccia raggomitolata si spense definitivamente, regalandole un tempo indefinito di autogestione.

Si lanciò in quel rotolo di pelliccia senza far particolare caso alle maniere, ai molteplici modi di svegliare una volpe addormentata ed altre cose in quel momento fuori luogo e grottesche. Nick scattò sull’attenti con un guaito ed un verso di sorpresa, guardandosi attentamente attorno prima di notare il piccolo fagotto di pelliccia grigiastra appesa alla coda. Un fagotto grigiastro, pulsante e singhiozzante per la precisione; quando Judy alzò gli occhi verso di lui aveva già versato abbastanza lacrime da inumidirgli il pelo.

Ugh…come osi?

Non ci fu bisogno di parole: la volpe si accucciò nuovamente e Judy si avvicinò al suo corpo, alla ricerca di un rifugio sicuro in cui sfogare le lacrime. Nick la nascose al mondo intero avvolgendola con la coda in un caldo abbraccio e le accarezzò lievemente la testa e le orecchie con il naso, ascoltandola singhiozzare sommessamente ed avvertendo la presa spasmodica sul suo pelo. Nonostante la sua forza, in quel momento non vide altro che una piccola, indifesa coniglietta e gli dispiacque non poter parlare per stuzzicarla un po’: avrebbe funzionato, ne era sicuro. Aveva sempre funzionato.

La famiglia di Judy passò a gruppi; tutti lo videro, lo salutarono ed alcuni cuccioli tradirono la loro voglia matta di giocare con lui, di correre e saltare nel prato e ridere e rotolarsi nell’erba macchiata dalle prime foglie cadute. Nick appoggiò talmente tante volte la testa sulle zampe che ne perse il conto: non gli piaceva rifiutare una bella corsa con quella marmaglia di orecchie a punta, ma la presa di Judy non ne voleva sapere di ammorbidirsi né le sue piccole spalle di sussultare. Aveva abbastanza intuito da capire che quel piccolo fagotto grigio che tremolava e sussultava contro di lui, inumidendo sempre più la pelliccia che la celava al resto del mondo, doveva rimanere invisibile finchè lei non si fosse decisa.

Il soggiorno si svuoto nel giro di un’ora: Judy ancora sussultava sotto la sua coda ma non stava più tirandogli i peli. Guardingo, Nick sollevò lievemente la coda e sbirciò sotto di essa: ebbe appena il tempo di vedere il muso colpevole ed imbarazzato di Judy prima che una zampa tirasse nuovamente giù la coperta rossiccia, facendola nuovamente svanire dall’occhio del mondo.

“Non guardarmi Nick” mormorò una voce soffocata dal pelo. “Puoi…nascondimi ancora per un po’”.

Per la vecchia amicizia?

La volpe obbedì ed il tempo tornò a scorrere: il ticchettare dell’orologio faceva da sfondo ad un ovattato e lontano vociare indistinto di conigli nei campi circostanti la casa. Nick si assopì un paio di volte e da sotto la coda non proveniva altro che silenzio. Fu solo in tarda mattinata che la volpe venne svegliato da un delicato muoversi da sotto il pelo; alzò la coda e Judy gli restituì uno sguardo esausto: gli occhi erano grandi ed arrossati, le iridi viola risaltavano come piccole lampadine ed il naso fremeva di angoscia, rimorso, imbarazzo.

“Grazie Nick…” mormorò. Lentamente si mise seduta, passandosi una zampa sul muso. “Avevo bisogno di…”. Già: di cosa aveva bisogno? Perché le era sembrata una buona idea tuffarsi nel suo pelo? Cosa le aveva detto che in mezzo a tutto quel rossiccio solleticare avrebbe trovato un posto dove sfogarsi senza che nessuno la disturbasse.

Beh, era una delle cose da fare prima di morire

La sfiorò con il muso delicatamente e, quando ebbe la sua attenzione, dipinse il SUO sorriso: Judy, davanti a quell’appuntito ridacchiare, tutto sentì tranne che paura. Nick raddrizzò il collo e le fece vivere il suo personale, privato miracolo.

“…u…i”.

Le orecchie della coniglietta scattarono verso il soffitto come se l’avessero sempre puntato e gli occhi divennero più grandi di quanto non li ricordasse. Gli comparve il sospetto che non avesse sentito, non avesse capito o che non ci stesse credendo: dopotutto, era pur sempre una coniglietta ottusa. Ripeté il miracolo.

“…u…di”. Il muovere la lingua per la ‘d’ era stato faticoso ed anche leggermente doloroso, ma era valso lo sforzo: altre lacrime uscirono dagli occhi di Judy, ma questa volta lambirono un sorriso di genuina felicità.

“Nick, tu…” mormorò. Lui rispose con il suo sorriso beffardo, come a dire

Detto fatto…

‘visto che gran figo che sono?’. La coniglietta singhiozzava di felicità: senza distogliere lo sguardo da lui gli passò delicatamente una zampa sul muso, lisciandogli il pelo con una tale delicatezza che Nick fu seriamente tentato di chiudere gli occhi per godersela appieno.

Ed all’improvviso torno: gli occhi di Judy si animarono di una decisione che non vedeva da giorno ormai. Erano gli stessi occhi dell’ausiliare del traffico che affermava di non essere una coniglietta ottusa, di una pseudo-poliziotta che gli domandava se trovasse divertente rovinarle l’indagine, di una campagnola che gli comunicava la necessità di portare alla polizia l’intero vagone di prove.

Gli occhi di un coniglio che ordina ad una volpe di azzannarla alla gola.

Si alzò e si avvicinò alla porta in tempo per veder entrare Bonnie; la stava cercando con un bicchiere di succo di lattuga in una zampa e una buona oretta di preziosi, insostituibili consigli materni nella testa.

“Judy, cara…” salutò con un sorriso cauto. “Tuo padre mi ha detto tutto: stai bene?”.

“Si mamma” rispose lei: in tutta la sua vita non era mai stata più onesta. “Ho bisogno di parlare con tutti: è una cosa molto importante”.
 
 
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Non era stato compito facile strappare dalla sua famiglia il neo sindaco di Zootropolis in visita a Tana dei Conigli: avevano trovato rifugio su una collina, all’ombra di un grande albero che Stu ricordava in quel posto da sempre. Stavano ancora tirando il fiato quando Judy ridacchiò.

“Sindaco Jack Savage” commentò. La lepre si volse verso di lei come se l’avesse chiamato. “Non suona poi così male”. Lui diede una scrollata di spalle.

“Sapessi quanto mi sta stretto…” commentò. “Non ho mai voluto questa carica, ma mi hanno eletto praticamente per preghiera…”.

“Beh, hai salvato la città dall’implosione e riunificato i mammiferi in appena tre mesi: direi che te la sei meritata” osservò la coniglietta. La lepre era palesemente a disagio, come se stessero affrontando un argomento imbarazzante. O delicato.

“Avrei preferito la pensione…” commentò. “Ma a questo punto immagino che non la vedrò mai”. Si volse verso l’orizzonte. “Non sapevo che da qui si vedesse la città”. Regnò il silenzio per qualche secondo, rotto solo dal delicato frusciare del vento tra le fronde semispoglie dell’albero; poche foglie gialle e rosse resistevano come potevano all’inarrestabile avanzata dell’autunno e attendevano il momento in cui sarebbero fluttuate via, lontano dal ramo a cui erano state attaccate per mesi. Ancora qualche settimana e quell’albero sarebbe stato spoglio, pronto ad accogliere la neve. “Senti, Judy…riguardo al motivo per cui…”.

“Non potevi fare altro” interruppe lei. “Personalmente non approvo il collare, ma è il male minore: spero solo che con il tempo diventi inutile”. Jack la guardo per qualche secondo, poi annuì professandosi d’accordo con lei.

“Cambiando discorso, anche tu ti sei data da fare” disse. Si volse a guardare a distesa erbosa poco sotto di loro: cinque conigli erano acquattati, attenti come durante un agguato. Saltarono all’improvviso, assaltando tre volpi sedute placidamente; rotolarono per qualche secondo, poi si rialzarono e fu il turno delle prede scappare. Le volpi corsero loro dietro e li colpirono leggermente con il muso dopo qualche metro, facendoli barcollare lievemente. “Un convivenza tra volpi e conigli”.

“Le volpi erano tornate a Foresta Pluviale” replicò lei. “Qui ci sono ampi spazi, grandi prati e bel tempo per la maggior parte dell’anno: a Tana dei Conigli c’è spazio più che sufficiente per tutti”. Seguì un silenzio che comunicò a Judy che la sua idea piaceva a Jack quando l’idea di Jack piaceva a lei.

“Chi è il capobranco delle volpi?” chiese infine.

“Si chiama Corsac” rispose. “Ed è molto ben disposto: ha parlato con mio padre e mi sono sembrati molto in sintonia”. La lepre si volse verso di lei.

“Perché l’hai fatto?” chiese. E Judy la sentì. La sentì come la domanda, quella domanda topica attorno alla quale aveva girato l’intera chiacchierata, la domanda che aveva spinto Jack a lasciare Zootropolis anche solo per mezza giornata. Era quel tipo di domanda a cui si è fisicamente, emotivamente, moralmente obbligati a dare una risposta. Jack continuò. “Non sto dicendo che potrebbe arrivare il giorno in cui vi uccideranno tutti e non sto nemmeno criticando la tua scelta: io credo che tu abbia fatto qualcosa di molto bello qui”. Si volse verso il gruppo di conigli e volpi poco lontano: avevano smesso di giocare a guardie e ladri e adesso giocavano ai cowbunnies: le volpi si lasciavano docilmente cavalcare da quei coniglietti che li spronavano al galoppo senza la minima paura.

“Perché noi conigli siamo possessivi” rispose infine lei. “Nick è stato una delle prime persone con cui ho parlato quando mi sono trasferito a Zootropolis ed è l’unico con cui ho avuto un rapporto che non si limitasse al lavoro”. Strinse le ginocchia al suo corpo. “Non voglio che mi lasci da sola”. Lasciò cadere il silenzio: Jack non proferì parola e tornò a guardare le volpi ed i conigli rotolarsi nell’erba, liberando risate ed urletti di gioia nell’aria tiepida.

“Ma soprattutto per una cosa che ha detto mio padre” continuò. “Io sono entrata in polizia perché volevo rendere il mondo un posto migliore. Zootropolis mi ha insegnato che un sogno così infantile non c’è speranza che si avveri: il mondo è quello in cui viviamo, non basta la vita di un coniglio per renderlo migliore. Questo è ciò a cui ho pensato che più si avvicina al mio sogno.

“Non posso rendere il mondo un posto migliore: ho reso il loro mondo un posto migliore, il nostro mondo un posto migliore. Volpi e conigli insieme, che convivono e collaborano in armonia: forse il potere di un coniglio non andrà mai oltre a questo, ma va bene così. Rendere il mondo un posto migliore adesso è compito tuo, Jack”. Si volse a guardarlo: la osservava con occhi neutri, quasi disinteressati, eppure attento ad ogni sua parola. “Questo mio piccolo mondo è diventato un posto migliore: non chiederò di più a me stessa”. Il sorriso di Jack le confermò di aver fatto la scelta giusta.
 

 
A salutare Jack erano venuti in tanti: sorrise nuovamente a tutti loro mentre il treno lo riportava lentamente alla città, alla sua città. Nick lo seguì con lo sguardo, poi fece un enorme sbadiglio provocando l’ilarità di un nutrito numero di cuccioli. Judy gli tirò una giocosa gomitata sulla spalla.

“Non è carino Nick” disse ridacchiando. “Non è proprio carino”. Lui le rispose con un’occhiata sagace.

Andiamo, lo sai che mi adori

Al borgo, i due si congedarono e, quasi fossero d’accordo, salirono sulla collina a guardare il tramonto. Judy, appoggiata placidamente contro la coda di Nick, guardava il prato, pieno di pellicce grigie, bianche, nere, rosse e marroncine. Sorrise, accoccolandosi contro la volpe per cercare una comodità che già aveva.

“Non ho potuto fare di più…” mormorò. Ma nonostante questo pensiero, era felice: aveva il suo posto, aveva il suo mondo e soprattutto aveva il SUO Nick. Non aveva potuto fare di più e questo voleva dire che in quel prato c’era il meglio che aveva da offrire. Nick dissipò ogni possibile dubbio passandole delicatamente la lingua ruvida sulla testa; La coniglietta sorrise a quel gesto, divertita ed intenerita.

Alopex avrebbe sicuramente gradito: quel pensiero le intaccò leggermente la pace e la felicità.

Judy si volse verso la sagoma della lontana Zootropolis. Vixen aveva detto che il cavallo era il pezzo più forte della scacchiera, Alopex aveva scelto un cavallo per guidare gli eventi: forse avevano previsto tutto, forse no, ma in fin dei conti era quasi giusto che fosse stato un cavallo a dare scacco matto e vincere la partita.

E la città, sapeva, avrebbe continuato a bruciare.
 


 
 
NOTE DELL’AUTORE:

Come ogni storia, bella o brutta che sia, è arrivata alla fine. Questo lavoro nato, come ripeto da sempre, per caso, mi ha dato modo indubbiamente di crescere e di formarmi a possibili futuri lavori che sicuramente condividerò ancora con voi.

A tutti quelli che magari si aspettavano altri eventi, magari di natura più romantica, va il mio dispiacere nell’immaginare il disappunto, ma mi piace pensare che se siete arrivati fin qui è stato per curiosità verso la storia e non speranze dell’ultimo secondo.

Con la chiusura di questa storia si chiude anche un lavoro che mi ha mostrato la vostra presenza ed il fatto che, almeno un pochino, il mio stile di scrittura piace: già il salire del conteggio delle lettura me lo prova. Non posso che continuare a ringraziarvi tutti quanti per aver seguito questo progetto.

Mi auguro di avervi divertiti, intrattenuti o perlomeno essere riuscito a scacciare la noia di qualche vostro momento morto. Spero di vedervi nuovamente così numerosi anche nelle mie prossime storie.

Alla prossima, stay tuned

Leonhard
   
 
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