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Autore: Adeia Di Elferas    05/09/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Mia signora, le guardie hanno avvistato in lontananza il drappello di soldati che scorta vostro figlio. Hanno anche visto che porta la vostra insegna come stendardo.” disse Cesare Feo, entrando con cautela nella stanza di Giovannino.

Caterina era seduta in poltrona, un libro tra le mani e il suo abito da lavoro addosso, come se quella nella camera del figlio non fosse altro che una breve pausa nel corso di una giornata comune. Il castellano si era aspettato che la Contessa avrebbe atteso l'arrivo di Ottaviano in altro modo. In fondo sapeva che sarebbe probabilmente arrivato quel giorno, quindi non poteva nemmeno dire di essere stata colta di sorpresa.

“Va bene.” disse la donna, atona, fingendo di andare avanti a leggere.

Giovannino, seduto sul tappeto accanto alla poltrona della madre, intento a giocherellare con il cavaliere di legno che era stato di Galeazzo e che il fratello gli aveva regalato pochi giorni prima, si voltò a guardare la Tigre, interrogativo.

La Sforza ricambiò lo sguardo del piccolo, allungandosi verso di lui e passandogli con fare protettivo una mano sui riccioli castani: “Quando sarà alla rocca, fatemelo sapere.” disse, nel frattempo, rivolgendosi a Cesare Feo, dato che l'uomo non accennava ad andarsene.

Questi annuì e poi, salutando anche la balia che stava sistemando i vestitini del bambino e Bianca, che ricamava, seduta sul divanetto davanti alla madre, andò alla porta.

“Non volete accoglierlo? Credo che sarebbe giusto, in fondo arriva dal fronte, anche se non ha preso parte a battaglie degne di nota. Non pensate sarebbe meglio far vedere al popolo che siete felice che sia tornato a casa sano e salvo?” chiese la Riario, senza sollevare gli occhi blu dal suo lavoro di cucito.

La Contessa non rispose subito. Sfiorò la guancia di Giovannino, che si rimise a giocare come nulla fosse, e poi strinse le labbra, cercando lo sguardo della balia.

Quando lo incrociò, le disse: “Vi spiacerebbe andare a prendermi del vino nelle cucine?”

La giovane fece una mezza riverenza e lasciò sole madre e figlia. Bianca finalmente sollevò gli occhi e si accorse che sua madre fissava il camino, pensierosa.

“Non devi mai più fare certi discorsi e certe domande davanti alla servitù.” il tono con cui Caterina aveva parlato era così perentorio e duro che perfino Giovannino capì la serietà del momento e smise per un po' di agitare in aria il suo cavaliere di legno.

La Contessa chiuse di scattò il libro che teneva in grembo e si alzò, riponendo il tomo sul mobile vicino. Allacciandosi le mani dietro la schiena andò al camino e guardò per un po' le fiamme.

“Perdonatemi.” si scusò Bianca, che si rendeva conto del proprio passo falso.

“Se tu vuoi corrergli incontro, sei libera di farlo.” precisò la Leonessa, sempre tenendo le spalle alla figlia: “Dopotutto, siete fratelli. È comprensibile, che tu sia felice di rivederlo.”

La Riario in realtà non aveva troppa voglia di incontrare Ottaviano. Quando non era a Forlì, la ragazza doveva ammetterlo, stavano tutti meglio. La sua presenza, perfino quando era solo suggerita e non palese, aveva il potere di destabilizzare tutti, soprattutto la loro madre.

“Va bene. Devo dirgli qualcosa?” domandò Bianca, lasciando il suo lavoro di ricamo sul divano e sistemandosi un po' le sottane del pesante abito invernale.

“Digli solo che non voglio essere disturbata. Lo cercherò io, quando lo vorrò vedere.” decretò la donna, appoggiando una mano al cornicione del camino.

La Riario annuì e poi, dopo uno sbuffetto a Giovannino, uscì dalla camera. Caterina deglutì un paio di volte e poi, proprio mentre la serva rientrava con la caraffa di vino che aveva chiesto, si accovacciò accanto al figlio e rimase così, a guardarlo mentre giocava, rivedendo nel suo viso concentrato e serio i tratti che erano stati di Giovanni e, inutile negarlo, anche quelli che a volte scorgeva nel suo stesso volto, quando si guardava allo specchio.

 

Ottaviano Riario attraversò la città senza grande risonanza. Qualcuno si era affacciato alle finestre e qualcun altro si era riversato in strada, ma, fondamentalmente, nessuno pareva molto contento di vederlo.

Arrivò alla rocca di Ravaldino senza doversi fermare mai una volta e senza aver quasi mai sentito gridare il suo nome. Se c'era ancora bisogno di dimostrargli quanto la popolazione lo mal sopportava, quella era stata l'occasione giusta.

Nel cortiletto d'ingresso trovò ad accoglierlo qualche soldato, il castellano e sua sorella. Si guardò attorno con cura, sperando di vedere sua madre, ma di lei non c'era traccia.

Deluso – benché si fosse aspettato qualcosa del genere – il Riario smontò di sella e andò incontro a Bianca. La ragazza gli concesse un abbraccio che, per quanto un po' freddo, fece subito sentire meglio Ottaviano.

“Nostra madre?” chiese.

La sorella schiuse le labbra, i capelli biondissimi smossi dal venticello freddo che stava riportando nuvole cariche di neve su Forlì.

Il Riario si passò una mano sul giubbetto di cuoi che indossava, preferito a una piastra d'armatura al solo scopo di dimostrare a sua madre – se solo si fosse abbassata ad andare ad accoglierlo – che era più coraggioso di suo padre che, invece, aveva sentito dire, indossava l'armatura completa anche per i brevi spostamenti da un campo all'altro, quando era stato in guerra per gli Orsini.

“Ha detto che non la devi disturbare. Ti cercherà lei.” rispose a voce molto bassa Bianca.

I suoi occhi continuavano a indugiare sulla figura del fratello. I suoi capelli, corti l'ultima volta che l'aveva visto, erano ricresciuti in fretta e il suo fisico, ben lungi dal sembrare quello di un valente soldato, si mostrava molle e un po' informe, sotto gli abiti che avrebbero, invece, dovuto metterne in risalto longilineità e prestanza.

Ottaviano abbozzò un sorriso, mentre gli occhi spersi, troppo simili a quelli del padre, sembravano velarsi di lacrime: “Ho capito.”

Bianca fece un sospiro e poi, vedendo come il castellano si stesse occupando di parlare con uno di quelli che aveva accompagnato suo fratello fino a lì, per sapere, soprattutto, come fosse la situazione nel Casentino, propose: “Avrai fame. Vuoi venire con me nelle cucine? Ti posso preparare qualcosa, se vuoi...”

Il Riario rifiutava l'idea di andare nelle cucine per due motivi. Il primo era una mera questione di spocchia. Lui era, almeno nominalmente, il Conte e il signore di quelle terre e quindi non voleva entrare nei locali della servitù. Il secondo, invece, era un motivo per cui vergognarsi profondamente. Sapeva, infatti, che nelle cucine lavorava una sguattera che sua madre aveva strappato a un bordello, una ragazza che, prima di partire per la guerra, lui aveva aggredito e usato, per poi ripagarla con un paio di monete.

Come capita spesso a chi commette un crimine, non voleva trovarsi di fronte alla sua vittima.

“Ho voglia di cambiarmi e darmi una sistemata – tagliò corto il diciannovenne, facendosi scuro in volto – mangerò più tardi.”

Si congedò da Bianca con un cenno del capo e poi andò verso l'imboccatura delle scale. Mentre faceva ciò, sollevò quasi per caso lo sguardo e vide, affacciata a una delle finestre che davano sul cortiletto, sua madre.

I due si fissarono per almeno un paio di minuti e poi, leggendo nello sguardo della Tigre tutto il suo biasimo per aver dovuto richiamare il suo primogenito a casa, Ottaviano abbassò la testa e, con il cuore che correva, salì le scale come una furia e andò a chiudersi in camera, la stessa in cui era stato recluso per circa un anno, e decise subito di non uscirne almeno fino al giorno seguente.

 

Bartolomeo bevve qualche sorso di vino, ma fu più il bruciore alla ferita alla lingua non ancora guarita che il piacere che ne trasse.

Guidobaldo da Montefeltro lo fissava senza riuscire a capirlo. Aveva quarantatré anni suonati, una ferita all'addome che non gli dava pace e adesso si era fatto maciullare la bocca, tanto da non riuscire quasi a parlare. Eppure ancora andava a insistere sull'allargare il fronte e non lasciare che il Casentino e la Romagna fossero gli unici terreni di battaglia.

“Sì, sì, dite pure quello che avete in mente al Doge.” disse Guidobaldo, che, di circa vent'anni più giovane dell'Alviano, era comunque molto meno ardimentoso di lui: “Sono proprio curioso di vedere come prenderà le vostre decisioni. Ricordatevi che avete ricevuto un ruolo di tale importanza solo grazie al cognome di vostra moglie.”

L'Alviano fi tentato di ribattere a tono, ma quando provò a muovere le labbra, la sua lingua scattò, ancora difficile da governare dopo la ferita che aveva subito e così preferì chiudere la questione agitando in aria una mano e facendo capire al suo interlocutore che, per quanto lo riguardava, il loro incontro poteva definirsi concluso.

Guidobaldo, però, con il suo occhi a mezz'asta e la sua espressione distante, pareva intenzionato a calcare ancora di più la mano.

Facendo un mezzo passo avanti verso il comandante, sibilò: “A proposito di vostra moglie, la bellissima Pantasilea Baglioni... Tra meno di un mese sarà Natale. Non avete voglia di tenerla stretta a voi mentre bevete del buon vino caldo speziato? O preferite lasciarla a suo fratello?”

Bartolomeo non sarebbe stato troppo sensibile a quel tipo di provocazione, visto soprattutto che la sua seconda moglie lo lasciava pressoché indifferente, tuttavia il dolore sordo che provava all'addome e quello urente alla lingua e agli alveoli lasciati vuoti dagli ultimi due denti persi lo fecero scattare.

Muovendosi rapido verso il suo interlocutore, lo prese per la collottola e, dopo averlo fissato per un lungo istante dritto negli occhi, sputò in terra un po' di saliva ancora rosata da un po' di sangue, e poi disse, faticando parecchio ad articolare le parole: “Se hai finito, fuori di qui.”

Il Montefeltro, impassibile com'era spesso, liberatosi dalla presa dell'Alviano, si raddrizzò il giubbone borchiato di ferro e concluse: “Vi sopporto solo perché dobbiamo mangiare dallo stesso piatto.” e, poi, con un sospiro quasi esasperato, gli voltò le spalle e uscì dal padiglione.

 

La mappa d'Italia era cosparsa di segnalini di legno che quasi non si riusciva a leggere i nomi delle città vergate sulla pergamena.

Le notizie arrivate dal Casentino e dintorni erano ottime e sia a detta di Dionigi Naldi – che continuava a tenere strenuamente San Pietro in Bagno – e di Giovanni da Casale – che aveva scritto una lettera molto sintetica, ma molto sentita alla Contessa – almeno fino alla fine dell'anno era improbabile che i veneziani potessero fare dei passi avanti nella loro avanzata.

In compenso, però, la realtà oggettiva sembrava minare le loro certezze, dato che tra Rimini e Ravenna erano state avvistate intere colonne di cavalieri e fanti che, probabilmente, stavano solo aspettando il momento giusto per irrompere e oltrepassare gli Appennini, pronti a marciare verso Firenze.

A complicare ulteriormente la situazione, almeno dal punto di vista della Tigre, c'era una notizia che Pirovano aveva inserito nella sua missiva in modo quasi casuale, ma che alla donna non piaceva per niente.

Il Moro aveva ordinato a Giovanni da Casale – e a molti altri suoi comandanti e uomini d'arme abili a cavallo, o almeno così pareva – di tornare in fretta a Milano, per essere a corte in tempo per una grande manifestazione che aveva deciso di tenere a beneficio degli ambasciatori e dei portavoce stranieri presenti nel Ducato.

Uno sfoggio di forza, pensava Caterina, che avrebbe anche potuto far del bene a Ludovico, ma la impensieriva e non poco immaginare Pirovano di nuovo al palazzo del Duca. Di certo, con tutte le orecchie che suo zio aveva fino in Romagna, aveva già saputo o per lo meno doveva sospettare che tra il soldato e la Leonessa non ci fossero solo rapporti professionali e quindi il fatto di averlo richiamato insieme agli altri poteva anche voler dire che volesse discutere con lui a quattr'occhi.

La Contessa non si fidava di Ludovico. Aveva smesso di fidarsi dei membri della sua vecchia famiglia già da molti anni, da quando suo padre e le sue madri avevano permesso che il papa la comprasse come un capo di bestiame, per darla in sposa a suo nipote Girolamo.

“Se Naldi riuscisse a mantenere qui la resistenza necessaria – stava dicendo il Capitano Rossetti, osservando la mappa da sopra la spalla della Tigre – allora noi avremmo il tempo di terminare l'addestramento dei nuovi arrivati e contrastare un'incursione da est.”

“I soldati del Doge sono troppi. Se non troviamo subito qualcuno che ci aiuti...” prese a dire il Capitano Bezzi, cauto.

“Ho già scritto più volte sia a Milano, sia a Firenze.” fece presente Caterina, che, in effetti, aveva chiesto con insistenza sia al Moro sia a Lorenzo il Popolano non solo uomini, ma anche soldi: “Se avete altri benefattori da proporre...” aggiunse, con un velo di ilarità.

“Si potrebbe proporre una tregua per il Santo Natale e per l'inizio del nuovo anno. Insomma, da che mondo è mondo, quando la neve è alta fino ai fianchi, ci si ferma, buon Dio!” sbottò il Capitano Francesco Numai, che invocava, a ogni riunione, quella possibilità.

“Se credete che il nostro minuscolo Stato sia ancora nella posizione di imporre simili condizioni, allora siete un povero illuso, Numai.” lo rimbrottò la Sforza, continuando a fissare la mappa, come se potesse darle nuove soluzioni.

“L'unica cosa che possiamo fare – prese la parola il Capitano Mongardini, dal suo posto accanto al muro – è cercare di tamponare il più possibile la situazione. Per il momento essere vicini a Faenza, grazie alle attente politiche matrimoniali della nostra signora, ci sta garantendo di non essere spazzati via.”

“Sì, ma ancora per quanto?” chiese la Tigre, più a sé stessa che agli altri presenti.

Mentre un altro dei Capitano stava per prendere la parola, un soldato entrò nella Sala della Guerra senza annunciarsi e dichiarò: “Mia signora! Achille Tiberti è alla Porta Schiavonia con un prigioniero e chiede di vedervi urgentemente!”

“Un prigioniero? Ti ha detto chi è?” domandò la Leonessa, abbandonando subito la cartina e correndo incontro al soldato.

Questi scosse la testa e così alla donna non restò che congedarsi frettolosamente dai suoi uomini, dicendo che la riunione era rinviata, e, un brivido lungo la schiena pensando che Porta Schiavonia era quella in direzione Faenza, in un lampo fu a cavallo, per raggiungere Tiberti.

In pochi minuti arrivò davanti al Capitano, trovandolo alla testa di un manipolo di soldati e con un uomo in abiti civili – rovinati e sporchi – con le mani legate dietro la schiena, l'estremità della spesso corda che finiva nel pugno del cesenate.

La Sforza non scese da cavallo, e, appena fuori dalla porta, domandò con voce tonante, tanto che anche le guardie sui camminamenti delle mura la sentirono perfettamente: “Chi è costui che mi portate come prigioniero?”

Achille raddrizzò le spalle. Non era stata una mossa ragionata, ma si disperava per poter avere il pieno perdono della sua signora. Gli era capitata quell'occasione e aveva provato a sfruttarla.

“Questo è uno dei capisquadra di Astorre Manfredi. È pagato dai veneziani. L'ho catturato per voi, affinché possiate interrogarlo e farne quel che volete.” spiegò Achille, guardando la Contessa con una sorta di orgoglio dipinto in viso.

La Tigre, con tutta la fatica che stava facendo a mantenere una parvenza di pace con Faenza, si sentì raggelare il sangue nell'udire quelle parole.

“Dove l'avete catturato?” chiese, senza tradire appieno la sua inquietudine.

“Qui, a nord...” disse, vago, Tiberti.

A quel punto, la donna fece avvicinare il suo cavallo a quello del Capitano, sfiorando per poco il prigioniero, che, stremato e terrorizzato, si scostò di colpo quando capì che altrimenti la bestia della Sforza l'avrebbe travolto.

“Dove l'avete catturato?” ripeté Caterina, a voce più bassa, occhi negli occhi con Achille.

Questi finalmente si rese conto della rabbia che covava nella sua signora e, proprio mentre iniziava a cadere qualche fiocco di neve, rispose, con un filo di voce: “Nel faentino.”

“Oltre il confine?” indagò la milanese.

Il Capitano annuì, senza parlare più. A quel punto la Sforza non sapeva come gestire quella situazione che rischiava di trasformarsi in un incidente diplomatico catastrofico.

“Venite con me.” disse alla fine, rivolgendosi al Capitano: “E fate sì che il prigioniero sia assicurato nel rivellino di Porta San Pietro. Curatelo a vista, ma guai a voi se alzerete anche solo un dito contro di lui.” intimò a quelli che seguivano Achille.

Tiberti si accodò alla Contessa, in silenzio, seguendola fino alla rocca di Ravaldino. Qui, senza dare spiegazioni nemmeno al castellano che, vedendola con il Capitano, avrebbe voluto sapere con più precisione quanto fosse accaduto, la donna portò Achille fino nella Sala della Guerra, che ora era deserta.

Con quello che era poco più di un sussurro, gli chiese di chiudere la porta, e poi andò alla finestra.

Guardò per qualche minuto la neve che scendeva sempre più intensa dal cielo, lasciando che Tiberti si crogiolasse nell'incertezza. Lo sentiva, alle sue spalle, muoversi appena sui due piedi, incapace di capire se quello che aveva fatto era stato apprezzato o meno.

Alla fine, mentre pensava a quanto fosse alto il rischio che Castagnino cominciasse a far pressioni per avere Bianca a Faenza come risarcimento per quell'affronto, la Leonessa si voltò di scatto, facendo saltare sul posto Tiberti, e sbraitò: “Ma come diavolo vi è saltato in mente di fare una cosa tanto stupida?! Ma siete un imbecille o cos'altro?!”

Mentre la sua signora si lasciava andare a sproloqui di ogni genere, sfociando spesso e volentieri nel suo dialetto d'origine, il Capitano restava a capo chino, come uno scolaro che prende una sonora ramanzina.

Alla fine, quasi senza più voce, la Tigre si appoggiò al tavolo delle mappe e pensò che cercare una soluzione fosse più importante, in quel momento, che non inveire ulteriormente sull'uomo che aveva davanti.

“Porterete il vostro prigioniero a Castrocaro.” decretò, senza fare una piega, il viso ancora arrossato per la recente sfuriata: “E se mai dovessero chiedervelo, questo è un vostro prigioniero, non mio.”

“Non volete interrogarlo?” chiese Tiberti, riacquistando per un istante la voce.

“Certo che vorrei.” rispose la Contessa, puntandogli contro l'indice con fare minaccioso: “Ma se poi dovessi usare le informazioni ottenute da lui, allora sarebbe palese che quello è un mio prigioniero. Non voglio essere immischiata in questa cosa. Lo porterete con voi e basta.”

“Ma a Castrocaro si sta ancora combattendo...” provò a dire Achille, titubante.

“Oh, non mi dite.” lo canzonò la donna: “Non l'avrei mai detto. E adesso sparite di qui, prima che decida di farvi fustigare a sangue!”

Tiberti non se lo fece ripetere e uscì in fretta dalla sala. Ancora non riusciva a capire come un'idea che gli era parsa geniale si fosse tramutata nell'ennesimo fallimento.

Forse, pensò, se anche avesse portato in dono la Luna alla sua signora, questa gli avrebbe detto che non era la Luna che voleva, ma il Sole, e la cosa sarebbe finita una volta di più a suon di minacce e punizioni.

 

Annibale Bentivoglio picchiettava nervosamente le dita sull'elmo appoggiato al tavolino da campo.

Si sentiva un folle, ad aver spalleggiato Bartolomeo d'Alviano e non Guidobaldo da Montefeltro.

Era stato forse il suo sangue nemmeno trentenne a spingerlo a cercare la gloria militare, ma adesso che si trovava affamato, stanco e tutto indolenzito, sotto a un tendone mezzo sdrucito, nel mezzo di una tempesta di neve... Cominciava davvero a credere che seguire l'idea del serafico Montefeltro sarebbe stata una scelta saggia.

Se l'Alviano, benché ferito e incattivito, stava scivolando sull'acqua, con una vittoria dopo l'altra, prima contro Paolo Vitelli, poi contro Ranuccio da Marciano, seminando morte e distruzione ovunque andasse, per Annibale la questione si stava dimostrando molto diversa.

Prima era stato rincorso dai fiorentini, all'improvviso, colto completamente alla sprovvista durante uno spostamento che doveva essere tranquillissimo.

Non gli avevano ucciso molti uomini, ma gli avevano rubato praticamente tutta l'artiglieria, e il Doge non ne sarebbe stato affatto contento, visto il costo di quelle armi.

Poi aveva provato ad attaccare Modigliana. Uno spreco di tempo e uomini. Una serie di piccoli scontri che non avevano fatto altro che fiaccare i suoi e disilluderli, facendo perdere a lui quella poca rispettabilità che aveva guadagnato fino a quel momento.

Addirittura, viste le chiacchiere su di lui, che lo volevano servo di due padroni – principalmente per colpa dell'evidente dualismo del signore di Bologna – qualcuno aveva osato suggerire che quelle sconfitte, non clamorose, ma molto fastidiose, fossero addirittura state volute da lui per indebolire i veneziani!

Così, con la coda tra le gambe, era retrocesso, passando da Taliano, da Carpi e finendo a fare campo a Casteldelci, in uno dei dicembri più freddi e nevosi che ricordasse. O forse era solo il sentore imminente di morte che glielo faceva percepire a quel modo.

“Eccomi, mio signore.” disse il suo attendente, entrando nel padiglione e rabbrividendo per gli spifferi gelati che parevano entrare da ogni dove.

“Allora?” chiese subito Annibale, alzandosi e andandogli incontro: “È vero quello che dicono le spie? Gli esploratori hanno confermato?”

“Pare di sì.” dovette rispondere il soldato, con cupezza: “Fracassa ha avuto l'ordine di inseguirci e sta cercando di spingerci verso il faentino.”

“Ma il Manfredi ha già fatto sapere che non ci lascerà passare... Ha avuto ordine da Venezia di non permetterci di retrocedere...” disse piano il Bentivoglio, terrorizzato, le mani che cominciavano a tremare.

“Con il Sanseverino pare ci sia anche Lucio Malvezzi.” rincarò l'attendente, volendo essere preciso nel riferire le informazioni.

“E ora che faccio... Che faccio...” cominciò a dire Annibale, vagando per la tenda con le mani tra i capelli.

Pensò alla geografia del luogo. Sperare di passare più a sud era da folli. Tentare di forzare Faenza anche, anzi, gli sarebbe valso una condanna per tradimento.

La sua unica speranza pareva quella di umiliarsi una volta e per tutte: “E va bene.” disse tra sé, con una nuova determinazione che brillava negli occhi: “Portatemi il necessario per scrivere. Devo mandare una missiva urgentissima.”

“Per chi, se posso chiederlo?” domandò il soldato che, conoscendo il suo padrone, non si fidava troppo delle sue idee e temeva di fare una bruttissima fine.

“A Caterina Sforza.” rispose il Bentivoglio, di nuovo calmo, come se l'aver preso la decisione lo avesse già messo al sicuro: “La Tigre di Forlì. Lei non ci negherà il suo aiuto, se saprò come chiederglielo.”

 
   
 
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