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Autore: Nina Ninetta    07/09/2018    6 recensioni
Viola è una ragazza disposta a tutto pur di conquistare il cuore della persona che ama, anche fare qualcosa di stupido come fraternizzare con il "nemico", ma talvolta ciò che noi detestiamo può rivelarsi un'autentica benedizione. La giovane si ritroverà a fare i conti con i problemi tipici degli adolescenti, un amore a due facce, un'amicizia persa e una madre emotivamente scompensata.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 24
Tutto è polvere

 

La guerra civile scoppiò all’alba, con il sole nascente oscurato dal denso fumo grigio che si alzava dagli edifici in fiamme della città. I primi obiettivi a essere colpiti furono quelli che vincolavano i cittadini al suolo del proprio Paese, trasformatosi d’improvviso in un campo di battaglia disseminato di macerie, morti e feriti.
In realtà la rivolta non fu del tutto inaspettata. Jack ci teneva aggiornati sulle dinamiche politiche della Repubblica Centrafricana, alcune persone a lui vicine facevano parte di gruppi di resistenza attivi e sparpagliati per la regione. Così, quando udii il boato che gettò nel panico la capitale Bangui, seppi con assoluta certezza che il presidente allora in carica era stato appena deposto e che i ribelli avrebbero messo a capo del Paese uno dei propri leader.
Uscii dalla tenda allestita a pronto soccorso (giacché quel giorno il turno di notte era toccato a me) e mi guardai attorno spaesata e intontita; alzando gli occhi al cielo vidi una densa nube grigiastra alzarsi da sud-ovest. Willy arrivò con Matteo e Dahlia, spaventati a morte e con la faccia intontita dal sonno; Jenny e Jack ci raggiunsero subito dopo, lei stretta nell’abbraccio del suo uomo. La gente del villaggio cominciò a urlare parole incomprensibili, qualche donna si inginocchiò a pregare, i bambini piangevano, la mama - con l’impassibilità di sempre - affermò con aria solenne che era arrivata la fine del mondo.
Will mi consegnò i due ragazzini, i quali si appiccicarono a me simili a polipi, le braccia come tentacoli, sebbene Matteo mi arrivasse ormai alla spalla e pesasse più di me. William mi baciò velocemente sulle labbra:
«Non muovetevi da qui» si raccomandò.
«Dove vai?» gli chiesi, con la paura che mi contorceva le viscere, mentre lo vedevo intento a scorrere la rubrica sul cellulare, in cerca di chissà quale numero.
«Ce ne dobbiamo andare» disse solo. Lo vidi allontanarsi con il telefono all’orecchio, salire sul furgone e partire sgommando, lasciando dietro di sé un polverone biancastro.
Tutto era polvere quella mattina.
Il cuore si appesantì a tal punto che mi sembrava impossibile tenerlo nel petto. Avevo paura, una paura folle che temevo mi avesse ottenebrato la ragione e immobilizzato le gambe. Avevo paura per quello che stava accadendo, per l’impotenza che sentivo dentro e ora avevo paura per Willy che avevo visto partire spedito, verso Bangui.
Dahlia si staccò da me, tremava come una foglia, a testa china mi ringraziò, ma aggiunse che lei apparteneva a quella terra, a quel popolo, alla sua gente. La osservai senza capire bene, accennò un inchino e corse in direzione del villaggio. Matteo la chiamò forte e le sarebbe corso dietro se non l’avessi fermato. Dopo Dahlia anche Jack si congedò da Jenny, con la medesima convinzione che quella era la sua guerra e che doveva combatterla al fianco dei compatrioti.
Fino a quel momento non mi ero resa conto dell’attaccamento di quelle persone al loro Paese e solo allora un immenso vuoto nello stomaco mi attanagliò, fino a togliermi il fiato: non calpestavo il suolo della mia città, né respiravo la sua aria, né ascoltavo la voce della mia gente, da così tanto tempo che avevo dimenticato tutte le abitudini, gli odori, i suoni, i sapori.
Osservai con un certo disagio - tenendo ben stretto il nipote di Willy al mio fianco - Jenny e Jack darsi il bacio dell’addio, salutarsi per sempre, guardarsi così intensamente come a voler stampare il volto dell’altro nell’anima. La mia amica non pianse, si rimboccò le maniche e disse che avremmo dovuto cominciare a prepararci, non sapevo bene a qual proposito, tuttavia la seguii trascinando Matteo con me.
Infilai in uno zaino tutto ciò che mi sembrava più o meno importante, che valeva la pena di salvare e mi accorsi che avevo poca roba davvero fondamentale. Le cose essenziali della mia vita erano le persone che mi circondavano, fatta eccezione per un oggetto speciale: il diario che l’anziana mi aveva dato in dono.
Matteo mi seguì silenzioso e a testa bassa, ogni tanto gli lanciavo occhiate di sottecchi, sembrava sempre sul punto di scoppiare in lacrime, mentre l’assenza di Willy iniziava a irritarmi e preoccuparmi seriamente.
Ci ritrovammo tutti e tre al centro dell’accampamento, attendendo qualcosa – non sapevamo bene cosa – senza spiccicar parola. Da lontano ci giungevano i canti funebri e le preghiere delle donne del villaggio, gli incitamenti degli uomini che si stavano preparando al peggio. La torre di fumo era ancora visibile nonostante fossero passate un paio di ore, ma dopo il primo boato non ce ne erano stati altri. Mi chiesi cosa stesse succedendo lì fuori, se tra la gente fosse scoppiato il panico come al villaggio.
Il Primo Ministro Bozizé aveva preso il potere con la forza, sospendendo la Costituzione aveva approvato un nuovo Governo, con ministri scelti personalmente, e inaugurato una nuova Legislatura. A nulla erano servite le proteste di rivolta del popolo e soprattutto nessuno aveva creduto alle minacce di rovesciare il governo. Fino a quel giorno.
Nell’attesa di un cenno, di qualcosa che mi facesse capire che era ora di muoversi, osservai Jenny seduta su un tronco tagliato di netto a meno di un metro da me. Teneva gli occhi incollati al suolo, gli stessi occhi color nocciola che le avevo tanto invidiato perché buoni e profondi. Si pizzicava il labbro inferiore con le dita, notai le unghie corte ma comunque ben curate. Studiandola meglio mi accorsi che in lei non c’era più la sedicenne che aveva sempre bisogno di essere rassicurata, né quella figura quasi eterea che sembrava sul punto di dissolversi alla prima difficoltà; ma non era neanche più la ventenne che avevo incontrato all’università, con il caschetto biondo e i fianchi fasciati da gonne attillate, perennemente impeccabile nel trucco. Adesso vedevo una donna forte, coraggiosa e piena di valori morali, capace di restare al fianco del professore Andrea De Martino fino alla fine, quando tutti – io per prima – avevamo creduto che lo avrebbe abbandonato una volta raggiunto il suo obiettivo, ossia una carriera medica in discesa. Invece aveva scelto la salita, ripida e tortuosa, plasmando il suo carattere tutt’altro che debole. La donna che stavo osservando in quel momento era matura e orgogliosa, vestita con abiti comodi e lunghi capelli castani legati in una coda.
Provai a mettermi nei suoi panni, a dire addio all’uomo che amo sapendo di lasciarlo in balia degli eventi e di una guerra civile che si sarebbe dimostrata lunga e terribile; provai a immaginare di dovermi separare da William con quattro parole biascicate e mi venne l’angoscia al solo pensiero.

 
 
La seconda bomba cadde da qualche parte sulla città a metà mattinata. Matteo mi saltò praticamente addosso, nonostante la stazza e l’età – tredici anni – era molto immaturo e pauroso, forse a causa del trauma infantile...
Mi chinai sul suo corpo, sussurrandogli che andava tutto bene, che presto sarebbe finito tutto, senza riuscire a pensare a un modo per far avverare quelle parole. Vidi la mia amica in piedi a fissare con insistenza i tetti di paglia del villaggio, fece per dirmi qualcosa, poi il rombo assordante di un elica e il vento prodotto dalla stessa attirò la nostra attenzione.
Alzai gli occhi, proteggendoli con la mano, per vedere un elicottero atterrare a diversi metri da noi. Aspettammo in silenzio e con il cuore impazzito, infine la portiera si spalancò e Willy ne uscì con un balzo. Ci venne incontro gesticolando e urlando, per farsi sentire al di sopra del frastuono dell’elicottero, di seguirlo immediatamente.
Poiché l’elicottero non poteva posarsi completamente a terra, Will tornò a bordo e dal portellone aperto tese la mano destra per aiutarci a salire, uno alla volta. Matteo fu il primo, poi quando fui sul punto di farlo io, qualcuno emerse dalla nube grigia che ormai stava inghiottendo il villaggio, spinta dal vento. Rimasi come sospesa, un piede sul terreno di ghiaia e l’altro che sfiorava il bordo dell’aeromobile. La sciamana del villaggio se ne stava con la schiena dritta e la sua aura di magia a qualche metro da noi, tenendo Dahlia al suo fianco, quest’ultima piangeva silenziosa. L’anziana donna spinse sua nipote in avanti, fissò i propri occhi rugosi e piccoli nei miei mentre mi chiedeva di occuparmi di lei, perché gli dei avevano deciso di darmi dei figli senza farmi patire il dolore del parto, concluse. Scossi il capo, impietrita, il suo sguardo però non vacillò mai, poi la mama si allontanò così come era giunta: senza lasciare traccia di sé.
Mollai la presa sulla mano di Willy, che mi stava aiutando a salire sull’elicottero, presi di peso Dahlia – mingherlina come una bambina di otto anni – e Willy la issò fin dentro il ventre del veicolo. Da basso vidi Matteo abbracciare la sua compagna, per la quale sospettavo nutrisse sentimenti ben più importanti della semplice amicizia, e lei si lasciò consolare senza porre obiezione alcuna.
Con il supporto di Will mi arrampicai nell’aeromobile, quindi entrambi tendemmo la mano a Jenny, ma lei non ci stava neanche guardando, le braccia lungo il corpo e le mani chiuse a pugno. La chiamai a gran voce, muovendo le dita come a dire “afferrale”, lei le guardò eppure non fece nulla. Notai le labbra muoversi e distendersi in un sorriso triste, ma non sentii niente.
«Me lo dici dopo, adesso muoviti!» urlai, tuttavia lei scosse il capo e indietreggiò di un passo. Il terrore si impadronì di me. «MUOVITI JENNY!»
«Io resto qui» ripeté senza scomporsi.
«CHE CAZZO DICI! NON PUOI RESTARE QUI! MUOVITI STUPIDA!» mi sporsi ancora di più con il braccio teso, Willy mi afferrò al volo impedendomi di cadere al suolo.
Io e Jenny ci scambiammo un’ultima occhiata.
I suoi occhi castani, così dolci e seducenti da farmi provare un moto di gelosia incontrollabile a sedici anni, in quel momento erano tutto; il suo sorriso che forse aveva fatto innamorare decine di uomini e che mi aveva risollevato il morale nei momenti difficili, mi stava uccidendo. Nel profondo delle sue iridi castane vi leggevo un unico nome: Jack.
Le lacrime iniziarono a bagnarmi le guance, scossi il capo pronunciando una serie di no, no, no. La stavo supplicando di ripensarci, di afferrare la mia mano, di venire via con me, di non lasciarmi di nuovo.
«Ti voglio bene, Viola.» Sussurrò a fior di labbra, quindi guardò William che teneva un braccio intorno alla mia vita per evitare che mi lanciassi fuori, gli fece un cenno con la testa, poi lui batté un paio di colpi sulla carrozzeria dell’elicottero gridando al pilota che eravamo pronti, potevamo andare. Emanai un urlo straziante, mentre la figura di Jenny si rimpiccioliva sempre più intanto che prendevamo quota. Quando lui chiuse il portellone gli strillai contro ogni insultopossibile. Gli dissi che era un vigliacco, un bastardo, che lo detestavo poiché aveva abbandonato la mia amica in mezzo alla guerra. Lui frattanto continuò a tenermi stretta, senza controbattere.
 

*****

 
Tutto quello che accadde dopo lo ricordo simile a un sogno angoscioso e ingarbugliato.
L’unica cosa che mi sembrava vera e bruciava come un marchio a fuoco era la scelta di Jenny di restare in quel paese oltraggiato dalla violenza della guerra civile.
L’elicottero atterrò all’aeroporto della capitale, dove ad attenderci c’era un aereo grosso quanto un sommergibile. Matteo teneva Dahlia per mano, proprio come Willy faceva con me. Entrambe ci muovevamo al rallentatore, intorpidite dai pensieri e dall’afflizione, causata dalla convinzione di aver perso qualcosa di importante. All’interno dell’aereo c’era la famiglia dell’ambasciatore al gran completo che, come noi, stavano lasciando la regione africana. Inoltre notai anche diversi bianchi in fuga, gente con addosso abiti costosi che pregava affinché atterrassero il prima possibile in una qualsiasi nazione pacifica e civilizzata.
Il viaggio fu lungo e triste. Forse dormii per parecchio tempo o semplicemente caddi in trance. Non ricordo quasi nulla, se si esclude la presenza costante e discreta di Willy al mio fianco, senza intromettersi mai nei miei pensieri, lasciando che il dolore facesse il suo corso. Chi meglio di lui, che aveva perso una sorella e si era rassegnato ad abbandonare il suo sogno di diventare uno dei calciatori più forti al mondo, poteva sapere come estirpare la sofferenza dell’anima?
L’unica cosa che bisbigliò, rivolgendosi a me e lasciandomi un bacio sulle labbra, fu che Jenny era una persona consapevole, se aveva deciso di rimanere lì, al villaggio, doveva avere un motivo molto, molto valido.
Entrambi conoscevamo la ragione: l’amore per Jack.

La Jenny adulta era una persona forte e coscienziosa, che soppesava ogni scelta come se fosse sempre una questione di vita o di morte, aveva un solo punto debole: s’innamorava senza restrizioni, completamente, donava anima e corpo al suo uomo, non si vergognava dei propri sentimenti, né faceva qualcosa per nasconderli. Per lei amare era naturale come respirare.
Durante la mia convalescenza, dopo l’aborto, tra di noi si era instaurato un rapporto ancora più solido, più indissolubile dell’amicizia. Mi raccontò, tra un bagno e un cucchiaio di pappina, che aveva notato Jack già il primo giorno che avevamo messo piede al villaggio. Allora era stato un ragazzo di diciasette anni e lei una donna di ventisette. Lo sguardo insistente del ragazzo però l’aveva perseguitata per l’intera notte, il suo istinto le diceva di diffidare da quegli occhi nerissimi che si confondevano nella notte, eppure non era riuscita a smettere di pensarlo e nei giorni a venire si era guardata allo specchio e si era presa a schiaffi, ordinando a sé stessa di smetterla o fosse stato meglio fare le valigie e tornare a casa! Ovviamente Jenny aveva rinchiuso in una scatola quelle sensazioni e l’aveva risposta in fondo alla mente, dedicandosi al lavoro e all’amore che Andrea sempre le dimostrava. Ammise, non senza vergogna, che si ritrovò a fare l’amore con il suo compagno a occhi aperti perché, quando li chiudeva, vedeva dietro le palpebre abbassate il volto e lo sguardo di Jack. Fui sul punto di confessarle che era un po’ quello che accadeva a me i primi tempi di fidanzamento con Christian, quando immaginavo di baciare le labbra di Will anziché le sue. Ma lo tenni per me: non mi sembrava il caso di dirle che quando baciavo il ragazzo che le avevo sottratto vedevo quello con cui avevo finto di essere fidanzata.
Quando si era ritrovato Jack alle sue lezioni, che seduto in ultima fila la fissava intensamente senza toglierle un attimo gli occhi di dosso, era stato il periodo più difficile. Aveva avanzato ad Andrea la proposta di non tenere più quelle lezioni, senza però confessargli il motivo per cui voleva smettere, ma lui non glielo aveva permesso, poiché era convinto che aiutassero i ragazzi del villaggio, ed era la verità. Il problema però fu un altro e si materializzò durante un turno di notte, mentre il resto degli abitanti dormiva: Jack era entrato nella tenda adempita a pronto soccorso. Jenny allora era balzata in piedi, il libro che stava leggendo le era scivolato dal grembo, e nella luce traballante della lampadina appesa al soffitto, che dondolava a causa della leggera brezza, il ragazzo si era chinato e, senza togliere gli occhi da dentro i suoi, aveva raccolto il libro e glielo aveva restituito. Solo allora Jenny aveva notato che aveva una parte di viso sporca di sangue rappreso. Si era spaventata credendo, a una prima occhiata, che si trattasse di qualcosa di molto serio; invece, ripulendolo con un panno umido, aveva scoperto che in realtà si trattava di un taglietto sul sopracciglio sinistro. Non c’era stato neanche bisogno dei punti, mi raccontò, quelli sarebbero serviti al suo cuore e scoppiò a ridere: ogni cosa troppo sdolcinata la faceva ridere, ma credo che la imbarazzasse più che divertirla. Gli aveva disinfettato la ferita e gli aveva applicato un cerotto, raccomandandogli di non fare più a botte. Lui aveva fatto una specie di sorriso – sorridere non era il punto forte di Jack – e le aveva confessato che aveva istigato un suo amico per fargli dare un pugno. Jenny gli aveva chiesto cosa stesse farneticando e lui aveva risposto che l’aveva fatto per incontrarla da solo e per sentire cosa si provava a essere accarezzati dalle sue mani. La mia amica si era allontanata, confusa e spaventata dalla situazione e dalla voglia di provare l’inverso, ossia la sensazione delle mani grandi e forti di Jack sul suo corpo esile e delicato. Jenny ipotizzò che avesse pronunciato quel pensiero ad alta voce, giacché lui fece esattamente ciò che aveva immaginato. Le aveva circondato la vita con entrambe le braccia,  poi l’aveva baciata con tale passione che le era sembrato il primo vero bacio della sua vita.
Sconvolta lo aveva cacciato via, ma a nulla erano serviti i suoi tentativi di evitarlo: se lo ritrovava a lezione ogni giorno e ormai non riusciva più a guardarlo in faccia senza che il suo corpo venisse scosso da una serie di brividi al solo ricordo di quel contatto. Si ritrovò a inventare mille scuse per evitare di fare l’amore con Andrea, non perché non volesse, ma perché pensare a Jack durante quei momenti d’intimità con l’uomo, che mi giurò, ancora amava, la faceva sentire colpevole nei suoi confronti.
Dopo giorni di afflizione e sensi di colpa, aveva deciso di accettare i sentimenti che provava per Jack, arrendendosi all’evidenza di amare due uomini in contemporanea, sebbene in maniera completamente diversa.
Jack era tornato a farle visita di notte lamentando forti dolori addominali. Sospirando e con il cuore in gola gli aveva detto di sdraiarsi sul lettino e quando gli si era avvicinata l’aveva trovato senza maglia, con le braccia a sostenere la testa e le gambe incrociate, tutt’altro che dolorante. Jenny gli aveva auscultato l’addome, sentendo il proprio di cuore pulsare in testa al posto di quello di Jack, al contrario calmo e pacato. La sua pelle nera era calda, mi narrò, accogliente e profumava di terra e natura selvaggia. A suo malgrado le si erano risvegliati tutti i sensi. Jack aveva preso la sua mano e l’aveva fatta scorrere lungo i muscoli del torso nudo, dall’incavo del collo passando per i muscoli addominali, fino alla discesa sotto l’ombelico. A quel punto era stato tutto un crescendo, mi raccontò Jenny con occhi sognanti, facendomi scordare per un attimo della mia triste situazione. Jack l’aveva spogliata, si era fatto spogliare guidando ogni gesto perché era stata impacciata come se fosse stata la sua prima volta con un uomo, e le aveva regalato le stelle fino a sguazzarvi dentro. Aveva riso a quella metafora e io con lei, comprendendo pienamente cosa intendesse.
Quello con Jack era quindi diventato un amore clandestino e pericoloso che avevano potuto rivelare al mondo solo dopo la morte del dottore, al quale non lasciò mai intendere nulla, dichiarò con una mano sul cuore.

 

*****

 

L’atterraggio fu spaventoso.
Quando ci trovammo in prossimità dell’aeroporto della capitale, il pilota fu avvertito che era in corso una vera e propria tempesta, ci disse allora di allacciare le cinture e di restare calmi, le hostess erano lì per aiutarci qualora ne avessimo avuto bisogno. Dal mio canto ero così frastornata e stanca che non mi sarei impaurita neanche se ci fossimo schiantati su un’isola deserta.
Scendemmo dall’aereo e ci bagnammo come pulcini, ma ci vennero incontro volontari e persone inviate dallo Stato per accogliere l’ambasciatore, sua moglie e sua figlia, nonché il resto dei passeggeri. Ci coprirono con coperte calde e, una volta al riparo dall’acqua, distribuirono tazze di cioccolata e tè. Accettai il bicchiere che mi veniva offerto senza berlo. Fu mentre fissavo il liquido scuro e denso che la mamma di Willy apparve dal nulla, commossa e invecchiata.
Innanzitutto abbracciò suo nipote Matteo che non vedeva, baciandolo e osservando ogni cambiamento che la pubertà aveva apportato sul suo corpo, dalla peluria dei baffi che iniziavano a spuntare, al mutamento della voce. Quindi strinse Will, accarezzandogli il viso, senza smettere di affermare quanto fosse dimagrito e pallido. Infine si rivolse a me, scorgendomi rannicchiata sulla poltroncina dell’aeroporto, con una coperta gettata alla bell’è meglio sulle spalle e una tazza fumante in mano, più bianca della luna.
«La ragazza con i capelli rosa» disse carezzandomi la testa. Dopo tante ore di frustrazione sorrisi, ricordandomi che al nostro primo incontro avevo avuto i capelli tinti come un personaggio dei cartoni animati. D’istinto mi alzai e l’abbracciai.
Quella donna era stata la mia musa, la persona che sarei voluta diventare “da grande”, ammirandone la forza d’animo e la voglia di vita. Rispose al mio abbraccio senza aggiungere altro.
Sapeva di cibo buono e di famiglia.
Sapeva di casa.


 

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Cari lettori, siamo ormai giunti alla fine di questa long (manca un solo capitolo!).
Quando ho cominciato a pubblicarla non credevo di riuscire ad arrivare alla fine mantenendo un passo regolare con gli aggiornamenti, né di ricevere così tante recensioni, complimenti e quant'altro... So che molti di voi si sono solo limitati a leggere, so che a volte le recensioni sono una specie di impegno (sembra sempre che non si abbia nulla da scrivere, all'inizio...), ma se siete anche autori di EFP saprete quanto siano importanti pur solo due parole spese per chi pubblica. Per questo motivo non smetterò mai di ringraziare alcuni di voi (sapete bene a chi mi sto riferendo!) e altri che si sono aggiunti in corsa (anche voi sapete di chi sto parlando, leggere e recensire una decina di capitoli al giorno non è da tutti!). Grazie "colleghi", grazie per la dedizione! Buona lettura allora, sperando ovviamente in un lietro fine (forse!).
Nina Ninetta



 
  
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